La fine della missione italiana in Afghanistan
Dopo vent'anni, martedì si è tenuta la cerimonia conclusiva e i soldati torneranno nelle prossime settimane, con i colleghi della NATO
Ieri a Herat, nell’Afghanistan occidentale, si è tenuta la cerimonia per il ritiro del contingente italiano nel paese, a vent’anni dall’inizio della missione militare degli Stati Uniti e dei loro alleati, a cui l’Italia ha partecipato nel corso degli anni con migliaia di soldati. Alla cerimonia hanno preso parte il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, il generale Austin Miller, capo delle forze ISAF, cioè della missione NATO in Afghanistan, e il capo di stato maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli, tra gli altri.
La cerimonia è stata in gran parte simbolica – serviranno ancora alcune settimane per evacuare tutti gli uomini e i mezzi – ma segna comunque un momento importante e pieno di incertezze: dopo vent’anni di presenza italiana e occidentale in Afghanistan, ci sono ancora molti dubbi sul fatto che, una volta partiti i soldati, il governo civile sostenuto dall’Occidente rimarrà solido e non sarà rovesciato dai guerriglieri talebani, che non sono mai stati del tutto sconfitti e puntano a riconquistare il paese.
Il ritiro del contingente italiano dall’Afghanistan era annunciato ormai da diversi mesi, da quando, ad aprile, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva comunicato la sua decisione di ritirare tutte le truppe americane entro l’11 settembre di quest’anno, anniversario degli attacchi terroristici compiuti da al Qaida a New York e Washington nel 2001. Il contingente americano in Afghanistan è sempre stato quello più numeroso, e prima dell’annuncio del ritiro contava tra i 2.500 e i 3.000 soldati.
Dopo la decisione di Biden, tutti gli altri paesi NATO presenti in Afghanistan, tra cui l’Italia, hanno annunciato il loro ritiro. Il contingente NATO, esclusi i soldati americani, all’inizio dell’anno contava all’incirca 7.000 militari, e la missione italiana era composta da 900 unità, schierate nella base di Herat.
Lo sgombero della base italiana sta procedendo piuttosto rapidamente: «Stiamo andando veloci. Sino a poche settimane fa avevamo decine di migliaia di metri lineari di materiali da essere imballati e messi sugli aerei. Ora ne restano meno di mille», ha detto al Corriere della Sera il generale Luciano Portolano, che coordina la logistica. Attualmente a Herat ci sono 800 paracadutisti della Brigata Folgore, che potrebbero essere rimpatriati già all’inizio di luglio.
La missione italiana è cominciata il 30 ottobre del 2001 e, dopo un periodo trascorso a lavorare alla stabilizzazione della capitale Kabul, da poco conquistata, si trasferì stabilmente a Herat, dove per anni ha gestito un’ampia zona e si è occupata soprattutto dell’addestramento delle truppe dell’esercito afghano. Nel corso di vent’anni alla missione italiana hanno partecipato, a rotazione, circa cinquantamila soldati (le truppe presenti sul territorio afghano non sono mai state più di 5.000) e di questi 53 sono morti, quasi tutti in attacchi e attentati.
Durante la cerimonia – cominciata con gran ritardo perché, a causa di una disputa diplomatica, gli Emirati Arabi Uniti non hanno consentito il sorvolo all’aereo italiano che trasportava i giornalisti e lo hanno costretto a una lunga deviazione – il ministro Guerini ha ricordato i successi dell’intervento militare italiano e occidentale: «C’è da chiedersi cosa sarebbe stato di questo Paese se non fossimo intervenuti. Grazie a noi la società afghana è progredita. Ce ne andiamo dopo aver ottenuto risultati importanti per la sicurezza internazionale e per la libertà del popolo afghano. Ci sono stati progressi nei diritti delle donne, nella vita democratica, ora si tratterà di aiutare a difenderli».
La maggior parte degli analisti tuttavia ha seri dubbi sul fatto che i risultati della missione occidentale potranno essere duraturi.
L’invasione statunitense dell’Afghanistan cominciò il 7 ottobre del 2001 in risposta agli attentati terroristici dell’11 settembre: i talebani, che governavano l’Afghanistan con il terrore e che, secondo l’intelligence americana, avevano protetto e sostenuto il capo di al Qaida, Osama bin Laden, furono ben presto cacciati dalla capitale Kabul e dai principali centri del paese, ma non furono sconfitti.
Nel corso degli anni la guerra cambiò, si espanse e divenne qualcosa di diverso dall’iniziale missione antiterrorismo: le truppe americane furono incaricate di favorire un processo di nation-building (costruzione di uno stato nazionale), democratizzazione e introduzione dei diritti per le donne, che erano stati estremamente limitati durante il regime talebano. Il processo non portò però ai risultati sperati, per molte ragioni, i talebani si rafforzarono e a partire dal 2009 il presidente Barack Obama ordinò il cosiddetto surge, che portò in Afghanistan centinaia di migliaia di soldati.
Anche il surge tuttavia non riuscì né a sconfiggere i talebani né a stabilizzare del tutto l’Afghanistan: nel 2014 la missione originaria degli Stati Uniti, chiamata “Enduring Freedom”, che significa libertà duratura, fu sostituita da una nuova missione, chiamata “Resolute Support”, che significa sostegno deciso. Dal 2015 le truppe straniere non hanno più ruoli di combattimento, e si limitano ad addestrare l’esercito afghano, per prepararlo a quando dovrà garantire da solo la sicurezza del paese.
Nel corso degli ultimi anni i contingenti stranieri si sono man mano ridotti, passando dalle centinaia di migliaia del periodo del surge alle poche migliaia di oggi.
Ora che le truppe occidentali si stanno ritirando del tutto, il risultato della missione è a rischio. Negli ultimi anni i talebani hanno riconquistato molto territorio, soprattutto nelle campagne, e mirano a riconquistare tutto il paese. L’esercito afghano, come ha ricordato il Foglio, sta subendo perdite ingenti (405 soldati uccisi soltanto a maggio), e molti contingenti locali si arrendono ai talebani senza nemmeno combattere. Il governo afghano spera di riuscire a tenere almeno i principali centri abitati, a partire dalla capitale Kabul, ma anche su questo c’è molta incertezza.