Aaron Sorkin: sceneggiatore, regista e aggettivo
Ha scritto “West Wing” e “The Social Network”, i suoi dialoghi si riconoscono da un chilometro, e da oggi ha 60 anni
Pochissimi, tra i registi, possono dire di essere diventati aggettivi. È successo a Quentin Tarantino, a Federico Fellini – «avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo», disse – e, tra i pochissimi altri, ad Alfred Hitchcock. Aaron Sorkin, da oggi il sessantenne Aaron Sorkin, è già aggettivo da un paio di decenni: sorkiniano, usato per indicare scene con dialoghi serrati e brillanti, ma anche personaggi egocentrici, moralmente impeccabili e con una tendenza a spiegare il mondo agli altri. Ora Sorkin fa anche il regista, ma divenne aggettivo per il suo lavoro da sceneggiatore: un lavoro in cui, in genere, già va di lusso se si riesce a essere notati e ricordati per nome e cognome.
Aaron Benjamin Sorkin è nato a Scarsdale, un sobborgo di New York, il 9 giugno 1961, da madre insegnante e padre avvocato, entrambi ebrei. Voleva fare l’attore e nel 1983 si laureò in Musical, per poi passare buona parte degli anni Ottanta a cercare di diventare attore, senza riuscirci. Nel frattempo si arrangiò con lavori saltuari: alcuni molto canonici (autista, barista, cameriere), altri ben più peculiari (come in quel periodo in cui diede voce ai cosiddetti “telegrammi cantati”).
Per come la racconta Sorkin, la sua storia da sceneggiatore cominciò da un evento fortuito: la scoperta, in un momento di tempo libero, di una macchina da scrivere IBM Selectric nella casa di un amico. Con la quale scrisse un testo teatrale che fu prontamente rappresentato all’università in cui aveva studiato, e a cui seguì la scrittura di Hidden in This Picture, un’opera teatrale in un solo atto con protagonisti due uomini che sono finalmente riusciti a portare al cinema la loro opera teatrale e ai quali manca di girare solo l’ultima complicata scena: emblematica, al tramonto e piena di comparse. Solo che, senza preavviso, in quella che dovrebbe essere l’inquadratura finale entrano tre placide mucche. Con problemi, ragionamenti e conseguenze di vario tipo.
Poco dopo – dopo aver parlato con la sorella, avvocata militare, di un processo in cui avrebbe dovuto rappresentare, a Guantanamo, un marine implicato in una grave vicenda di nonnismo – Sorkin scrisse il testo teatrale A Few Good Men. Per come la racconta lui, lo scrisse peraltro in gran parte sui tovaglioli di un locale vicino a un teatro in cui faceva il barista. Dopo essere diventata teatro, quella storia divenne anche la prima sceneggiatura cinematografica di Sorkin, per un film noto in Italia con il titolo Codice d’Onore.
Sorkin scrisse quindi Making Movies – una sorta di ampliamento, sempre per il teatro, di Hidden in This Picture – e poi si dedicò di nuovo al cinema, firmando le sceneggiature di Malice – Il sospetto, con Alec Baldwin e Nicole Kidman, e di Il presidente – Una storia d’amore, con Michael Douglas e Annette Bening.
In genere, specie se è scritto in inglese, si dice che a un minuto di film debba corrispondere circa una pagina di sceneggiatura, tra dialoghi e altre informazioni. Il presidente – Una storia d’amore di minuti ne dura 114, ma la prima versione del copione di Sorkin era di quasi 400 pagine, che solo dopo tante riscritture e non pochi tagli arrivò a circa 120. A pensarci ora, era un evidente segno di come già allora Sorkin tendesse a scrivere dialoghi fitti e vivaci, pieni di parole.
Nel frattempo, intanto, lavorò come “script doctor”, occupandosi cioè di migliorare, sciogliere, sviluppare o perfezionare sceneggiature scritte (e poi anche firmate) da altri. Lavorando intanto a quella che sarebbe poi diventata Sports Night, la prima delle quattro serie tv scritte da Sorkin. La serie raccontava il dietro le quinte di una trasmissione sportiva statunitense, la cui ispirazione gli venne perché era solito lavorare con la tv accesa, spesso su ESPN, il canale via cavo che trasmetteva il programma quotidiano SportsCenter. Sports Night ebbe due stagioni, la prima delle quali trasmessa dall’emittente ABC con le risate registrate: secondo Sorkin qualcosa di sbagliato e «alienante».
Nel settembre 1999, pochi giorni prima della messa in onda della seconda stagione di Sports Night, iniziò la seconda serie di Sorkin: The West Wing. Che sarebbe andata avanti per 150 episodi divisi in sette stagioni (le ultime tre delle quali senza Sorkin). In totale, dall’inizio alla fine, quasi cinque giorni di serie tv, che diventò una delle più apprezzate del decennio.
Per come la racconta lui, The West Wing «arrivò per caso». Pare infatti che, trovandosi senza nessuna proposta concreta a un pranzo con un produttore, buttò lì l’idea di fare tutta una serie sul dietro le quinte della Casa Bianca, senza quasi nemmeno far vedere il capo, il presidente, ma soffermandosi su tutte le persone che gli lavorano intorno. Tra le altre cose ripescando anche quel paio di centinaia di pagine che aveva scritto ma poi tagliato per Il presidente – Una storia d’amore.
Mentre la scriveva, Sorkin finì però col cambiare idea e far sì che il presidente Jed Bartlet – interpretato da Martin Sheen, che nel film con Douglas presidente faceva il capo dello staff – fosse tutto tranne che in secondo piano. La serie ritraeva un presidente Democratico per bene, tra le altre cose vincitore di un Nobel per l’Economia, e uno staff di gente a sua volta molto per bene: arguta, colta e onesta. Tutto questo mentre gli Stati Uniti passavano dall’amministrazione di Bill Clinton (con la sua crescita economica, le sue politiche liberiste e lo scandalo Lewinsky) agli anni di George W. Bush e del dopo 11 settembre.
Tra la seconda e la terza stagione, tra l’altro, Sorkin fu fermato all’aeroporto di Hollywood Burbank perché aveva con sé funghi allucinogeni, marijuana e cocaina. Fece disintossicazione e superò la cosa. Dopo la quarta stagione, comunque, senza che i motivi siano mai stati davvero chiari, lasciò The West Wing, di cui era stato l’ideatore e per la quale aveva scritto 88 episodi, «nessuno dei quali rispettando i tempi o il budget previsto». Tornò per un cameo nell’ultima stagione, ma qualche anno fa disse di non aver mai visto la quinta, la sesta e la settima. Spiegò di aver provato a guardare la prima puntata della quinta stagione e di essersi fermato dopo pochi minuti perché «era come vedere qualcuno andare a letto con mia moglie».
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Tra il 2006 e il 2007 andò in onda l’unica stagione di Studio 60 on the Sunset Strip, un’altra serie da dietro le quinte di Sorkin, questa volta incentrata su quello che succede oltre il palco di un programma comico chiaramente ispirato al Saturday Night Live. E nel 2007 scrisse quello che per il momento è il suo ultimo testo teatrale: The Farnsworth Invention, sulla rivalità alla base di un brevetto legato al funzionamento dell’apparecchio televisivo.
Dopo dieci anni senza nemmeno una sceneggiatura per il cinema, sempre nel 2007 Sorkin scrisse quella di La guerra di Charlie Wilson: un film tratto da una notevole storia vera, diretto da Mike Nichols e con protagonisti Tom Hanks e Julia Roberts. Che però andò meno bene di quanto promettevano le premesse.
Andò invece benissimo, su diversi livelli, la successiva sceneggiatura di Sorkin, per quello che divenne il film The Social Network, sulla storia di Mark Zuckerberg e la nascita di Facebook, con la regia di David Fincher. Sorkin ha raccontato che in fase di scrittura gli prospettarono la possibilità di dirigerlo lui, quel film. E che però fu lui stesso a dire che era meglio chiedere prima a Fincher e che quando Fincher accettò di dirigerlo lui, Sorkin, «fu felice come mai prima per non aver ottenuto un lavoro».
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La sceneggiatura, tratta dal libro di Ben Mezrich Miliardari per caso – L’invenzione di Facebook, vinse l’Oscar per la migliore non originale. E dopo tanti discorsi scritti per i suoi personaggi, Sorkin dovette farne uno in prima persona. Se la cavò bene.
Dopo l’Oscar, Sorkin si dedicò alla sua quarta e per ora ultima serie tv: The Newsroom, sul dietro le quinte di un programma d’informazione. Durò 25 episodi, divisi in tre stagioni e ai sorkiniani in genere piacque molto. Ma lui disse di non essere mai riuscito a farla venire come voleva, e che facendola si sentì sempre come uno con un sassolino nella scarpa.
Seguirono, nel 2012 e nel 2015, le sceneggiature di L’arte di vincere – con Brad Pitt, sul baseball – e Steve Jobs, a quattro anni dalla morte del fondatore di Apple. Nel 2017, infine, dopo aver scritto una sceneggiatura, Sorkin fu anche regista del relativo film: Molly’s Game, con Jessica Chastain, tratto da un’autobiografia, su un’ex campionessa di sci che si mette a organizzare partite di poker. Un film non molto riuscito, e non molto piaciuto.
Sorkin ha raccontato che, mentre scriveva la sceneggiatura, insieme ai produttori vagliò alcuni possibili registi, ma che siccome nessuno sembrava andare davvero bene, alla fine lo diresse lui. Nello specifico, disse di essere preoccupato dal fatto che altri registi avrebbero potuto finire col gravitare troppo vicino agli «oggetti luccicanti della storia» (i tanti soldi che girano, ma non solo) e che invece lui voleva evitare che fosse uno di quei film solo sui soldi. Ha raccontato di essersi trovato abbastanza a suo agio dietro-alla-macchina-da-presa, e di considerare la regia una naturale «estensione della scrittura».
Deve essergli piaciuto, fare il regista, perché è tornato a farlo anche per Il processo ai Chicago 7, uscito nel 2020. In realtà, però, si mise a scriverne la sceneggiatura su richiesta di Steven Spielberg, che anni fa sembrava intenzionato a dirigerlo. Di recente, Sorkin ha ammesso che quando Spielberg gli propose di scrivere una storia su quella famosa storia dei “Chicago 7”, lui rispose di sì con grande entusiasmo, e dopo l’incontro chiamò il padre per chiedergli quale fosse quella storia, di cui lui non aveva mai sentito parlare. Spiegò che aveva accettato perché a Spielberg riesce difficile dire di no, e perché aveva quantomeno capito che aveva a che fare con un processo. E da A Few Good Men in poi, a lui i processi – spesso usati come meccanismo narrativo per ri-raccontare certe storie – sono sempre piaciuti.
Oltre ai processi, ci sono un’altra serie di cose che a Sorkin piacciono molto, e che di certo sono state associate al suo modo di scrivere film. Le battute a raffica, i dialoghi a ritmi serrati spesso densi di retorica e ricchi di battute pungenti, i lunghi e significativi monologhi in cui qualche protagonista presenta con notevole favella le sue idee su un certo argomento, presentate sempre come moralmente giustissime e logicamente inattaccabili.
I suoi personaggi riescono quasi sempre a dire la cosa giusta al momento giusto, quasi mai affetti dall’esprit de l’escalier. E molto spesso parlano e camminano contemporaneamente, in quel tipo di scena noto per l’appunto come “walk and talk”, in cui – specie nelle sue serie da dietro le quinte – due o più persone dialogano serratamente spostandosi da un luogo all’altro, per dare ritmo spaziale a scene che altrimenti rischierebbero di essere visivamente statiche seppur verbalmente vivaci. Tutte cose per cui Sorkin piace molto a quelli a cui piace Sorkin, e per cui non piace per niente a quelli che credono che il cinema debba mostrare, più che spiegare, e che ci sia generalmente troppo Sorkin nei film di Sorkin.
Il “walk and talk”, comunque, non l’ha inventato lui ed è frequente anche in molte serie tv o sitcom, in particolare quelle legate a un certo ambiente di lavoro: per l’esempio un certo reparto di un certo pronto soccorso. Quello sorkiniano è però piuttosto originale, e generalmente lo si riconosce quando ce lo si trova davanti.
Per ora il Sorkin regista è stato in genere apprezzato e il suo Processo ai Chicago 7 è stato candidato all’Oscar per il miglior film. Ma Sorkin continua a essere uno sceneggiatore e poi, dopo, anche un regista. Probabilmente convinto di quello che disse delle sceneggiature Hitchcock, uno di quei pochi registi diventati aggettivo: «un film è finito al novantanove per cento quando è scritto», e anche: «per fare un film servono tre cose: il copione, il copione e il copione».
Sorkin – che è uno che quando lo intervistano chiedendogli se possono citarlo risponde «prego, non c’è niente che mi piaccia di più» – a proposito del suo essere diventato aggettivo ha detto: «So che a volte è un complimento e altre volte non lo è. Ma non so scrivere come gli altri. So scrivere solo come scrivo».
Nel rispondere ad alcune domande sulla scrittura ha ammesso, per dire, che gli sarebbe piaciuto tantissimo scrivere un episodio della versione statunitense di The Office, ma che sa che non ci sarebbe mai riuscito. Gli sarebbe piaciuto scriverne anche uno di M*A*S*H, ed è convinto che in quel caso se la sarebbe cavata meglio. A chi gli chiedeva come fare a non essere giudicanti nei confronti di un proprio personaggio, spiegò che il segreto è cercare qualcosa in quel personaggio in cui immedesimarsi almeno un po’, e di scrivere quel personaggio come se lui si trovasse di fronte a Dio e dovesse convincerlo a lasciarlo entrare in paradiso.
Sorkin disse anche di ritenersi «un drammaturgo che si intrufola nel cinema e nella televisione, e che lo fa aggiungendo quel tanto che basta di cose visive per non far capire a chi guarda che, alla fine, sta guardando una rappresentazione teatrale».
Oltre che aggettivo, Sorkin è diventato anche sostantivo, e questi sono un po’ di sorkinismi.