La riabilitazione per chi ha perso l’olfatto dopo il coronavirus
È complessa e dall'efficacia ancora incerta: in Italia coinvolge duemila persone che dopo l'infezione non sentono più gli odori
Negli ultimi mesi anche gli ospedali italiani, come molti altri nel mondo, hanno studiato nuovi protocolli e trattamenti per il recupero dell’olfatto compromesso o perso completamente a causa di un’infezione da coronavirus. È un problema noto dall’inizio dell’epidemia e considerato uno dei sintomi più comuni e meno preoccupanti, soprattutto se paragonato alle conseguenze sull’apparato respiratorio. Nella maggior parte delle persone contagiate questa condizione, che tecnicamente si chiama “anosmia”, si risolve in un tempo relativamente breve, di un paio di settimane. Ma ci sono pazienti che segnalano questo problema anche a distanza di molti mesi e con conseguenze rilevanti: l’anosmia ha un notevole impatto sulla vita quotidiana e può portare a disturbi psicologici come ansia e depressione.
Come spiega anche l’Istituto superiore di sanità, diagnosticare l’anosmia è difficile: spesso la persona che ne soffre non si accorge dei disturbi o giudica il fastidio non grave. Per questo non esiste una stima ufficiale del numero di casi di anosmia nella popolazione e fino allo scorso anno erano pochissimi i casi trattati negli ospedali. Solitamente l’anosmia è causata dall’ostruzione del naso causata da secrezioni o da formazioni dette polipi nasali. Può anche essere dovuta a traumi, malattie degenerative o malattie genetiche rare. Quando non si perde totalmente l’olfatto, ma gli odori vengono percepiti in modo sbagliato, si parla di “parosmia” e anche in questo caso ci sono diversi livelli di gravità dei sintomi.
Dal marzo del 2020, in molti paesi sono stati condotti studi per capire qual è l’incidenza di questi sintomi tra i contagiati: i risultati delle indagini dicono che tra il 60 e l’80 per cento delle persone che hanno contratto il coronavirus ha segnalato di avere perso la capacità di percepire gli odori. Una delle ricerche realizzate in Italia è stata coordinata da Paolo Boscolo Rizzo, professore di rinologia all’università di Trieste. Rizzo e i suoi collaboratori hanno intervistato 268 pazienti risultati positivi al virus durante la prima ondata, nel marzo 2020, per capire se hanno sofferto di anosmia durante la fase acuta dell’infezione e se questo problema persiste anche oggi.
Gli esiti sono molto simili a quelli di altri studi realizzati in altri paesi: il 70 per cento dei pazienti valutati ha sofferto di disturbi di olfatto e gusto durante la malattia. A un anno dall’infezione, un paziente su tre riferisce la persistenza di sintomi più o meno gravi. L’indagine identifica la durata della positività e la severità dei casi come un fattore di rischio per la persistenza di disturbi all’olfatto anche a un anno di distanza dall’infezione.
Nonostante i molti studi realizzati nell’ultimo anno, non è ancora semplice capire con assoluta certezza i motivi per cui il coronavirus causa l’anosmia. Una delle ipotesi più studiate coinvolge l’epitelio, il tessuto che riveste alcune cavità nasali dove si trovano i neuroni sensoriali olfattivi che sono circondati da cellule di supporto. Sulla superficie di queste cellule ci sono livelli molto alti del recettore ACE2, che si occupa di autorizzare o meno l’ingresso di particolari sostanze all’interno delle cellule. Il coronavirus sfrutta questo recettore per ingannare le difese cellulari e portare avanti l’infezione che causa un danno indiretto anche ai neuroni sensoriali olfattivi. Questi neuroni hanno anche la capacità di rigenerarsi grazie alla presenza di cellule staminali, che nella maggior parte dei casi consentono di recuperare spontaneamente l’olfatto dopo un tempo relativamente breve.
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Un’altra ipotesi, approfondita da alcuni esperti tra cui Arianna Di Stadio, coordinatrice di ricerca in otorinolaringoiatria e docente di neuroscienze all’università di Perugia, coinvolge il sistema nervoso centrale: il virus causerebbe un’infezione e un’infiammazione dell’encefalo con ripercussioni totali o parziali sull’olfatto e in particolare sul bulbo olfattivo, che percepisce l’informazione degli aromi, distingue gli odori ed elabora l’informazione per metterla in relazione con le emozioni e i ricordi.
Di Stadio dice che questa infezione spiegherebbe anche altri sintomi neurologici indotti dalla COVID-19 come la difficoltà di concentrazione, la perdita di alcuni ricordi e i disturbi dell’udito. «Prima si interviene con un trattamento farmacologico e con una riabilitazione specifica, più possibilità ci sono di contrastare la neuroinfiammazione. La progressione dell’infiammazione può far degenerare il tessuto: in generale dopo aver sofferto di anosmia per 24 mesi le percentuali di recupero sono molto basse», spiega Di Stadio.
In Italia è stato attivato un programma specifico di recupero che al momento coinvolge duemila pazienti, presi in cura dagli ospedali attraverso il sistema sanitario nazionale. La sperimentazione è portata avanti in dieci ospedali tra cui il San Giovanni a Roma, l’Humanitas a Milano, il policlinico universitario Federico II di Napoli, l’ospedale di Fano, nelle Marche, e gli ospedali universitari di Genova, Trieste, Firenze, Sassari e Catania.
Le persone che accusano anosmia possono inviare una mail a trattamento.anosmiacovid@hotmail.com, anche attraverso il medico di base, per segnalare il proprio caso. Viene richiesto il tampone molecolare o il test sierologico per accertare la positività al virus, poi il paziente viene sottoposto a una fibroscopia nasale: con una telecamera si esamina la cavità nasale per capire se ci sono altri problemi che possono spiegare l’anosmia.
Una volta verificato l’impatto della COVID-19 si procede con un’olfattometria basale, che serve a misurare la gravità della situazione. Il test è piuttosto lungo e consiste nel sottoporre ai pazienti diversi odori che devono essere riconosciuti. Al termine dell’olfattometria viene assegnato un punteggio: al di sopra dei 30 punti l’olfatto non ha problemi, sotto i 13 punti si può parlare di anosmia. La maggior parte dei pazienti coinvolti nel programma di recupero ha un punteggio che va dal 4 al 6.
Una volta accertata l’anosmia, le persone vengono inserite nel protocollo di ricerca che prevede il trattamento farmacologico e la riabilitazione olfattiva. Nello studio i pazienti sono stati divisi in due gruppi: entrambi sono stati sottoposti alla riabilitazione attraverso la stimolazione del bulbo olfattivo, ma solo uno dei gruppi ha ricevuto anche il trattamento con un farmaco chiamato PeaLut (palmitoiletanolamide co-ultramicronizzata con luteolina), un ultramicrocomposito anti-neuroinfiammatorio e insieme antiossidante, in grado di riparare i danni neuronali.
La riabilitazione olfattiva consiste nell’annusare odori particolari per tre volte al giorno. È un metodo per allenare l’olfatto a riconoscere di nuovo odori come l’arancia, il limone, il cioccolato, il caffè. «Ma pur essendo affascinante, la riabilitazione non risolve del tutto il problema», chiarisce Di Stadio. «I pazienti in trattamento con il prodotto a base di PeaLut, invece, riescono a recuperare l’olfatto in modo più efficace».
Al momento è ancora presto per sapere se ci siano casi di pazienti con un’anosmia permanente, cioè che non riusciranno più a recuperare l’olfatto, a causa del coronavirus. Con la riabilitazione si può evitare che il bulbo olfattivo diventi atrofico, ma con il passare dei mesi il ripristino dell’olfatto diventa sempre più complicato. Di Stadio dice che è come cercare di salvare una pianta secca: si può provare a tagliarla e reinnestarla, però serve farlo in tempo. È difficile dire se si potranno recuperare i casi più gravi, anche se i primi risultati su pazienti sottoposti a un doppio trattamento farmacologico dopo 14 mesi di anosmia sembrano essere incoraggianti. Al momento è stato verificato un notevole recupero dell’olfatto, anche se non ancora completo.