È un grande momento per le app di vestiti usati
Il successo di piattaforme di "second hand" come Depop e Vinted sta cambiando delle cose nella moda, con qualche controindicazione
La scorsa settimana il sito di e-commerce Etsy ha annunciato l’acquisizione di Depop, una app di compravendita di vestiti usati (o second-hand), per 1,3 miliardi di euro. Depop è nata nel 2011 e nel 2020 ha fatto 57 milioni di euro di fatturato, ma non è l’unica azienda di questo tipo a essere cresciuta così tanto e così velocemente. A maggio la app lituana di abbigliamento usato Vinted è stata valutata 3 miliardi e mezzo di euro e ha ricevuto un investimento di 250 milioni. Pochi giorni fa Sellpy, l’e-commerce svedese di moda second-hand acquisito nel 2015 da H&M, ha annunciato che aprirà in 20 nuovi paesi.
Il mercato dei vestiti usati era già in crescita nel 2019 ma con la pandemia ha raggiunto molte più persone del previsto: durante il lockdown infatti molti si sono trovati a svuotare armadi e cercare di guadagnarci qualcosa, altri a cercare online abbigliamento economico adatto al periodo di crisi. A questo si aggiunge un crescente interesse per una moda economica ma sostenibile, soprattutto da parte delle generazioni più giovani. Secondo il sito di vestiti usati ThredUp, il giro d’affari dei vestiti di seconda mano negli Stati Uniti passerà dai 28 miliardi di dollari del 2019 a 64 miliardi nel 2024, superando il fast fashion. Alcuni esperti però hanno fatto notare che l’economia circolare incentivata dalle app di second hand ha anche qualche limite.
Come funzionano le app di second hand?
In Italia le app per la compravendita di vestiti usati più diffuse sono Depop e Vinted. Depop è stata fondata nel 2011 dall’imprenditore italo-britannico Simon Beckerman ed è cresciuta nell’incubatore per startup H-Farm, in provincia di Treviso. La notizia dell’acquisizione da parte dell’americano Etsy, che ha un modello simile a quello di Depop ma offre soprattutto prodotti non di abbigliamento artigianali e vintage, è stata ripresa in tutto il mondo perché ha confermato l’interesse per il second hand da parte delle grandi aziende di shopping online. La ragione principale dell’acquisizione però riguarda gli utenti di Depop, che hanno per il 90 per cento meno di 26 anni e sono un tipo di consumatori su cui tutta l’industria dello shopping online sta puntando molto.
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Al momento, secondo quanto dichiarato sul sito, Depop ha più di 26 milioni di utenti in 147 paesi. È un social network su cui chiunque può vendere e acquistare capi di abbigliamento e accessori usati e che guadagna trattenendo una commissione del 10 per cento su ogni transazione. Depop offre lo spazio e gli strumenti per far interagire venditori e compratori, ma non si occupa della logistica: chi vende si fa carico di tutto, dalla scelta del prezzo alla spedizione dell’articolo.
In Italia, come in altri paesi, Vinted è arrivata da poco, alla fine del 2020, ma è già una delle app di shopping più scaricate. La piattaforma era stata fondata in Lituania nel 2008 da Milda Mitkute e Justas Janauskas. Nel giro di pochi anni era stata introdotta anche in Germania e negli Stati Uniti e nel 2012 era diventata una app. Secondo quanto dichiarato dall’azienda, Vinted ha attualmente 45 milioni di utenti in 13 paesi, soprattutto in Francia e Germania. È molto simile a Depop, ma si distingue dalla maggior parte delle app simili per il fatto che è totalmente gratuita da usare. Il suo modello di business infatti non si basa sulle vendite (su cui non trattiene nessun tipo di commissione), ma sui servizi aggiuntivi che gli utenti possono decidere di acquistare: per esempio per dare maggiore visibilità ai propri vestiti.
Dal punto di vista dell’utente le due app sono simili, anche se su Vinted si trovano soprattutto vestiti di poco valore a prezzi molto bassi, mentre su Depop è più facile trovare capi di qualità o addirittura di lusso. «La differenza più grande fra Vinted e Depop sta nell’algoritmo», ha spiegato su Vice l’esperta di vintage Cecilia Cottafavi: «Vinted riesce a dare visibilità anche a chi ha pochi follower, Depop no. Difatti Depop è molto utilizzato dalle influencer che hanno una community alle spalle e che riescono a raggiungere sulla piattaforma un buon seguito in breve tempo».
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Un’altra piattaforma che negli ultimi anni si è affermata tra chi cerca pezzi di alta moda di seconda mano, e che è presente anche in Italia, è Vestiaire Collective. Ha 10 milioni di iscritti in 90 paesi e un catalogo di circa 600mila capi di alta moda caricati da venditori privati. È nata in risposta alla crisi del 2008 e ha retto bene anche quella del coronavirus: la fondatrice Fanny Moizant ha detto che «a giugno sulla app c’è stato un 210 per cento in più di nuovi utenti rispetto al giugno precedente». Anche su Vestiaire Collective chiunque può vendere uno dei suoi vestiti o accessori, ma in questo caso la piattaforma fa da intermediario, perché al momento della vendita si fa spedire l’articolo per certificarne l’autenticità e poi lo spedisce all’acquirente.
Un modello ancora diverso è quello di Sellpy, una app di vestiti di seconda mano nata in Svezia nel 2014 che a breve sarà disponibile in 24 paesi europei, tra cui l’Italia. Sellpy si occupa di recuperare i vestiti da chi vuole liberarsene, fotografarli, venderli attraverso la piattaforma e spedirli agli acquirenti. In questo caso la piattaforma trattiene il 60 per cento del valore dei vestiti venduti (a volte meno, se si superano i 50 euro per capo), ma si occupa di tutto. I vestiti usati che non vengono venduti vengono riciclati o donati a organizzazioni benefiche, a meno che l’utente non li rivoglia indietro. Sellpy è stata acquisita per il 70 per cento da H&M nel 2015, in un momento in cui il gruppo di fast fashion entrava in crisi ed era in cerca di nuovi mercati in cui investire.
Ad aprile, il negozio online di abbigliamento multimarca Zalando ha introdotto la sezione “Second hand” sul suo sito. Gli utenti ora vedono nella propria area personale i vestiti che hanno acquistato in passato e possono decidere di scambiarli con altri utenti, oppure di aggiungere altri capi comprati altrove di cui vogliono liberarsi. Zalando fa una selezione degli articoli caricati e in uno o due giorni comunica all’utente quali vuole che gli vengano spediti. In cambio i venditori possono scegliere tra ricevere un buono da spendere su Zalando o fare una donazione a un’associazione benefica.
Le critiche al second hand
Le app per la compravendita di vestiti usati sono molto diffuse soprattutto tra gli utenti della cosiddetta generazione Z, quella dei nati indicativamente tra la metà degli anni Novanta e la fine degli anni Duemila, adolescenti o poco più che ventenni. Ci sono diversi motivi che hanno portato questa fascia della popolazione a comprare e vendere moda second-hand (definita anche con i termini inglesi pre-owned, cioè “già posseduta”, e pre-loved, cioè “già amata”). Uno è certamente una maggiore sensibilità ai temi della sostenibilità ambientale: vendere i vestiti smessi anziché buttarli è un modo per ridurre i rifiuti e comprare vestiti usati è un modo per abbattere la domanda di vestiti nuovi su cui si basa l’industria del fast fashion.
Come fa notare l’esperta di marketing Andrea Felsted su Bloomberg, le emissioni di gas serra dell’industria della moda globale sono pari a quelle di Francia, Germania e Regno Unito messi insieme. Promuovere il riuso di vestiti usati allunga la vita di un capo di circa 1,7 volte e può essere una delle tante piccole strade possibili per contribuire ad abbattere le emissioni di circa la metà entro il 2030, come vorrebbe l’accordo di Parigi del 2015 sul cambiamento climatico.
Ma non è solo una questione ambientalista. L’acquisto di abbigliamento usato risponde al bisogno abbastanza diffuso nelle giovani generazioni di sfuggire a quella che percepiscono come una forma di omologazione, dettata da multinazionali come Zara e H&M, i cui vestiti vengono venduti in grandi quantità in tutto il mondo. Sulle app di usato è facile trovare pezzi unici e originali ed essere sicuri di non ritrovarli addosso a nessun altro, o quasi. Infine, le app di usato rispondono alle esigenze di chi cerca abiti di ottima qualità o di marchi di lusso che, nuovi, non potrebbe permettersi.
La facilità con cui si vendono e comprano i vestiti usati a basso prezzo sulle app rende l’approccio allo shopping online molto più simile a quello che si ha nei confronti di un servizio a noleggio. Sul Financial Times si legge che «i vestiti non vengono tanto posseduti quanto piuttosto noleggiati e poi ceduti di nuovo». In un certo senso, è come se lo shopping spensierato e impulsivo reso possibile dai prezzi bassi del fast fashion si fosse spostato sulle app di second hand. La differenza è che poi i vestiti smessi tornano in circolo e vengono sostituiti dai vestiti smessi di altri.
Su Vox la giornalista esperta di shopping online Terry Nguyen ha fatto notare anche un altro aspetto critico legato alla crescita della compravendita di vestiti usati online, che definisce col termine “gentrificazione”. Negli Stati Uniti sono in aumento i giovani utenti di app di second hand che puntano a far diventare la compravendita di usato una vera e propria attività: vanno in cerca di vestiti usati nei negozi e nei mercati per rivenderli a un prezzo più alto online. È una cosa che in misura minore succede anche in Italia. Questo fa sì che il valore di questi vestiti (anche di quelli di bassa qualità e non di marca) aumenti e che chi prima comprava vestiti usati per necessità ora ne trovi di meno e a prezzi mediamente più alti. Inoltre, il fatto che sia così facile liberarsi dei vecchi vestiti e guadagnare sulla loro vendita, può in certe persone avere l’effetto di incentivare l’acquisto compulsivo di vestiti nuovi.
«C’è il rischio, tuttavia, che la tendenza all’acquisto e alla vendita di vestiti usati finisca per essere un fuoco di paglia causato dalla pandemia, e che si esaurirà con le riaperture» ha scritto Felsted su Bloomberg. Infatti, perché le app di compravendita di usato funzionino serve che le due parti ― venditori e compratori ― siano bilanciate: cosa succederà quando con la fine della pandemia le persone smetteranno di svuotare gli armadi? Vinted per esempio ha raddoppiato il suo fatturato nel 2020, ma la sua crescita sta già rallentando.
Infine, la competizione è sempre più dura. Oltre alle app europee già citate e a quelle più affermate negli Stati Uniti come Poshmark e Mercari, ne stanno comparendo di nuove: solo per fare un esempio, il mercato itinerante di abbigliamento vintage Vinokilo è recentemente diventato un e-commerce e piattaforme come Kids O’Clock si stanno affermando nell’abbigliamento usato per bambini. Non ci vorrà molto prima che anche i grandi marchi comincino a investire sul second hand, come hanno già fatto Patagonia, Levi’s e Lululemon negli Stati Uniti.
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