Gli omicidi nella campagna elettorale in Messico
Da settembre sono stati uccisi 89 politici e candidati, e alle elezioni il presidente López Obrador si gioca il suo mandato
di Eugenio Cau
Oggi, domenica 6 giugno, in Messico si tengono le elezioni per rinnovare la Camera dei deputati, 15 dei 32 governatori degli stati federali e migliaia di cariche locali. Sono elezioni importanti, perché dal loro risultato dipende la riuscita delle politiche del presidente Andrés Manuel López Obrador, populista di sinistra eletto nel 2018 e in questi anni duramente criticato per il suo stile di governo autoritario, che tuttavia gli ha garantito alti tassi di gradimento tra la popolazione.
Sono anche elezioni segnate dal più alto grado di violenza politica degli ultimi tempi: da settembre sono stati uccisi 89 politici, quasi tutti candidati a varie cariche pubbliche, in gran parte per mano di gruppi di narcotrafficanti e del crimine organizzato.
Le elezioni di domenica in Messico sono piuttosto simili alle elezioni di midterm negli Stati Uniti (il sistema politico messicano è stato modellato su quello americano, con qualche eccezione): a metà del mandato del presidente viene rinnovato il Parlamento (in questo caso solo la Camera) assieme a numerose altre cariche pubbliche. In tutto, saranno eletti circa 20 mila rappresentanti, in gran parte legati alla politica locale come sindaci e consiglieri comunali. Secondo il Los Angeles Times questo fa delle elezioni di domenica le più grandi della storia del Messico, almeno per numero di cariche coinvolte.
La campagna elettorale è stata monopolizzata da due temi: la violenza e la figura controversa di López Obrador.
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La violenza
In Messico il tasso annuale di omicidi provocati dal crimine organizzato è altissimo da decenni, ma i numeri dei morti e delle vittime sono aumentati enormemente a partire dal 2006, da quando il governo inviò l’esercito in numerose città dichiarando guerra aperta al narcotraffico. Da allora tutti i presidenti che si sono succeduti (Felipe Calderón, di centrodestra, che cominciò la guerra al narcotraffico; Enrique Peña Nieto, di centro, e infine López Obrador) promisero di porre fine alle violenze, senza riuscirci.
La strategia di López Obrador contro la violenza – ridurre la pressione militare e tentare operazioni di compromesso e di recupero dei criminali – per ora ha fallito piuttosto platealmente. In Messico il tasso di omicidi per 100 mila abitanti, che era a 8 prima dell’inizio della guerra al narcotraffico (sono comunque tanti, in Italia gli omicidi sono 0,5 per 100 mila abitanti) nel 2020 era a 27, uno dei massimi di sempre, e questo nonostante le misure restrittive imposte dalla pandemia da coronavirus.
Anche la violenza contro politici e candidati è la peggiore degli ultimi decenni: secondo il centro studi Etellekt, i politici assassinati sono stati 89 da settembre dell’anno scorso, mentre secondo il governo da aprile, cioè dall’apertura formale della campagna elettorale, sono stati circa 150 i candidati che hanno avuto bisogno di una scorta perché avevano ricevuto delle minacce di morte.
Tra i candidati uccisi c’è Abel Murrieta, ex procuratore dello stato di Sonora, nel nord del paese, e candidato sindaco a Ciudad Obregón, ucciso a colpi di pistola da due uomini in pieno giorno, mentre faceva volantinaggio in strada. Nel suo ultimo messaggio elettorale, il giorno prima di morire, aveva esortato i suoi concittadini a «non avere paura» e aveva detto che avrebbe combattuto i criminali che ormai «sono i padroni delle nostre strade».
Hasta el último minuto de su vida, Abel nos demostró que fue un hombre a carta cabal, un hombre dispuesto a darlo todo para proteger a los inocentes, un hombre al que los delincuentes no iban a corromper y por eso lo asesinaron.
Abel, gracias infinitas, descansa en paz.
(2/2) pic.twitter.com/ZE8FoWIuHo
— Abel Murrieta (@AbelMurrietaG) May 16, 2021
Le minacce di morte hanno spinto decine e forse centinaia di candidati a ritirarsi: l’hanno fatto oltre 60 candidati sindaco, più moltissimi altri che competevano per cariche minori. Tra questi c’è Cristina Delgado, candidata sindaca della città di Santa Lucía del Camino, nello stato di Oaxaca, nel sud del paese, che all’inizio di quest’anno si è ritirata dopo aver ricevuto numerose minacce di morte, tra cui un messaggio lasciato sulla piazza del paese che le ordinava di andare via da Santa Lucía, accompagnato da una testa di maiale mozzata.
Le violenze contro i politici non sono una novità, ma sono in crescita: nel 2015, alle precedenti elezioni di midterm, nei nove mesi prima del voto furono uccisi 61 candidati e politici, sempre secondo Etellekt.
Gli omicidi degli ultimi mesi di candidati e politici in Messico hanno inoltre alcune caratteristiche: non hanno badato tanto ai partiti (sono stati presi di mira sia esponenti della maggioranza sia dell’opposizione) e si sono concentrati negli stati messicani dove i gruppi di narcotrafficanti sono più forti e hanno maggiori interessi economici: Veracruz, Oaxaca, Puebla, Guerrero, Estado de México e Michoacán.
Gli omicidi, le violenze e le minacce più recenti hanno riguardato esclusivamente la politica locale. In altre campagne elettorali c’erano stati diversi assassinii di politici di livello nazionale: nel 1994 fu ucciso Luis Donaldo Colosio, candidato favorito per la presidenza; nel 2010 fu ucciso il candidato governatore dello stato di Tamaulipas, Rodolfo Torre Cantú, assieme a quattro persone del suo staff. Nell’ultimo anno invece a essere minacciati e uccisi sono stati soprattutto candidati alle cariche di sindaco e ad altre inferiori, spesso in centri piuttosto piccoli.
Questo perché al contrario di alcuni anni fa, quando pochi e grandi cartelli del narcotraffico si spartivano il territorio del Messico e tenevano sotto il loro potere i gruppi più piccoli, oggi la situazione della criminalità organizzata nel paese si è in gran parte polverizzata. I grandi cartelli, come il cartello di Sinaloa e il cartello Jalisco Nueva Generación, esistono ancora, ma il loro controllo del territorio non è generalizzato come un tempo: secondo stime del governo, oggi in Messico sono attivi circa 200 gruppi di narcotrafficanti, molti dei quali sono piccoli gruppi indipendenti che hanno interessi criminali molto radicati in luoghi ben precisi.
Questi gruppi piccoli e locali non hanno interesse a influenzare la politica nazionale, ma si trovano spesso al centro di lotte molto feroci per il controllo di rotte di traffico della droga e di territori strategici per le loro attività, e dunque anziché corrompere un ministro preferiscono minacciare, perseguitare o perfino uccidere i candidati a sindaco e alle altre cariche che non vogliono cooperare con loro.
Falko Ernst, un analista del centro studi International Crisis Group, ha detto al Wall Street Journal che non è poi escluso che alcune di queste uccisioni siano state commissionate ai gruppi criminali da candidati rivali.
López Obrador
Secondo il presidente López Obrador, la violenza (politica e non) e l’altissimo tasso di omicidi in Messico sono l’eredità delle politiche “neoliberiste” dei governi precedenti. López Obrador, ex sindacalista, attribuisce al neoliberismo gran parte degli avvenimenti avversi che hanno interessato il suo governo: dai pessimi risultati economici alla cattiva gestione della pandemia da coronavirus, che in Messico ha provocato un numero di morti in rapporto alla popolazione tra i più alti del mondo.
Le elezioni di domenica non lo riguardano personalmente: le prossime presidenziali saranno nel 2024, e proprio come il presidente degli Stati Uniti quello del Messico è molto difficile da rimuovere finché è in carica. I risultati della Camera dei deputati, però, potrebbero determinare il resto del suo mandato: il partito di López Obrador, MORENA, è dato in vantaggio nei sondaggi e dovrebbe ottenere la maggioranza assoluta, ma avrebbe bisogno della maggioranza dei due terzi per poter approvare le grosse riforme strutturali volute dal presidente, come per esempio la ri-nazionalizzazione del settore petrolifero.
Nei suoi primi tre anni di mandato, López Obrador è stato molto popolare in patria, con un tasso di approvazione rimasto sempre sopra il 60 per cento, che soltanto nelle ultime settimane è sceso al 57 per cento. È invece stato molto criticato dalla comunità degli affari e da buona parte degli osservatori internazionali.
Tra le ragioni del suo successo ci sono lo stile austero (nessuno, nemmeno i suoi peggiori avversari, si è mai sognato di accusarlo di corruzione), un modo empatico di rapportarsi con gli elettori (che a volte però sfocia nel prolisso: tiene lunghi monologhi di due-tre ore in diretta tv, tutti i giorni) e diverse politiche di sostegno alle fasce più povere della popolazione, come un importante aumento delle pensioni minime.
Tra le critiche principali che gli sono rivolte ci sono quelle relative a diverse iniziative economiche controverse. López Obrador è infatti un nostalgico del periodo in cui l’estrazione del petrolio sosteneva l’economia messicana e un welfare generoso, e ha puntato molto sullo sviluppo e la nazionalizzazione degli idrocarburi, snobbando e in alcuni casi penalizzando le rinnovabili. Il presidente è inoltre criticato per il suo stile di governo populista, che rischia di sfociare in maniera preoccupante nell’autoritarismo.
López Obrador è un decisionista: secondo i giornali messicani, la sua esclamazione preferita durante le riunioni con i ministri è «¡Cállate!», che significa «Stai zitto!». Soprattutto, è molto infastidito dalle critiche e dall’opposizione. Durante le sue conferenze stampa-fiume prende di mira pubblicamente i nemici politici e i giornalisti che lo criticano, spesso accusandoli di essere nemici del popolo, corrotti o mafiosi.
Ha cercato di compromettere diverse istituzioni democratiche: ha costretto alle dimissioni un giudice critico nei suoi confronti e ha fatto approvare una legge per estendere il mandato di un giudice della Corte suprema a lui favorevole. Per fare approvare alcune decisioni controverse, come la chiusura dei lavori di ampliamento dell’aeroporto di Città del Messico quando erano ormai mezzi completati, ha indetto dei referendum arbitrari e ha usato il risultato favorevole per sostenere di avere il popolo dalla sua parte. Qualche mese fa ha perfino proposto di mettere a giudizio tutti e cinque i presidenti che l’hanno preceduto.
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Secondo alcuni analisti, non è escluso perfino che López Obrador cercherà di cambiare la costituzione e ottenere un secondo mandato presidenziale: il sistema politico messicano, al contrario di quello degli Stati Uniti, per evitare che il presidente accumuli troppo potere ne impedisce la rielezione, e nessuno dei predecessori di López Obrador ha mai tentato di trasgredire.
L’Economist, la settimana scorsa, ha sostenuto che López Obrador sia pericoloso per la democrazia messicana e «assetato di potere», e che l’opposizione dovrebbe unirsi per contrastarlo in tutti i modi («È propaganda», ha risposto lui). Molto dipenderà dalle elezioni di domenica, soprattutto dal risultato alla Camera dei deputati.