In Cina la politica dei tre figli non servirà a molto
Il Partito comunista spera di alleviare la crisi demografica, ma i cinesi non sono convinti ed è un problema per le ambizioni del paese
Questa settimana il Politburo del Partito comunista cinese, il principale organo decisionale dello stato, ha annunciato un nuovo allentamento delle politiche di controllo delle nascite introdotte più di 50 anni fa: presto le coppie sposate potranno avere tre figli senza dover temere multe, ritorsioni o la perdita del posto di lavoro. Lo stato cinese però continuerà a mantenere una forma di controllo demografico: avere più di tre figli rimarrà vietato.
Queste nuove misure, la cui data di entrata in vigore non è ancora stata resa pubblica, hanno lo scopo di «migliorare la struttura della popolazione» e «affrontare l’invecchiamento della popolazione», ha scritto l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, e sono state decise dopo una riunione del Politburo presieduta dal presidente cinese Xi Jinping.
L’annuncio è arrivato poche settimane dopo la pubblicazione dei risultati del censimento decennale, secondo cui la crescita della popolazione è rallentata ai minimi storici, le nuove nascite sono sempre meno ogni anno e le persone con più di 60 anni sono passate da essere il 13,2 per cento dei cinesi nel 2010 al 18,7 per cento del 2020. Secondo gli esperti, nel giro di pochi anni la popolazione cinese potrebbe cominciare a decrescere, mentre l’invecchiamento progressivo diventerà un serio problema dal punto di vista economico e sociale, tanto che potrebbe compromettere l’ascesa della Cina come prossima potenza mondiale.
Benché le nuove norme abbiano l’obiettivo esplicito di invertire questi processi, gli esperti sono concordi nel sostenere che la crisi demografica cinese ha radici profonde e che difficilmente consentire alle coppie di avere tre figli potrà cambiare la situazione. Il problema principale è che, secondo i sondaggi e le ricerche demografiche, la maggior parte delle coppie in Cina non ha intenzione di avere più di un figlio, e non c’è molto da fare per convincerle.
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La politica del figlio unico
Benché sia stata inaugurata ufficialmente nel 1980, la politica del figlio unico era in preparazione da almeno un decennio. Mao Zedong, il primo leader della Cina comunista, era convinto che la forza di uno stato dipendesse anche dalla sua demografia (una frase che gli è stata attribuita è «con molte persone, la forza è grande»), ma negli anni Settanta le teorie economiche prevalenti in tutto il mondo sostenevano che la sovrappopolazione fosse uno dei principali pericoli per la crescita e il benessere.
Centri studi come il Club di Roma resero molto popolare la teoria secondo cui fosse necessario porre un limite alla crescita indiscriminata della popolazione per evitare l’esaurimento delle risorse naturali, e queste teorie ebbero grande influenza in Cina, il paese più popoloso del mondo dove un elevatissimo tasso di natalità si univa a un alto livello di povertà.
Uno dei più importanti proponenti di una politica di controllo delle nascite fu Song Jian, un ingegnere aerospaziale esperto di missili balistici, che dopo essere entrato in contatto con le teorie del Club di Roma e di altri centri studi in Occidente si improvvisò demografo e stabilì che la dimensione ideale della popolazione cinese stesse tra i 650 e i 700 milioni di persone, contro il miliardo circa della fine degli anni Settanta (oggi la popolazione cinese supera gli 1,4 miliardi).
In parallelo con altri politici e intellettuali, l’ingegnere Song Jian divenne uno dei principali sostenitori di una politica di controllo delle nascite e, dopo la sua instaurazione, ne fu uno dei principali esecutori.
Introdotta da grandi campagne di propaganda nel corso degli anni Settanta, la politica del figlio unico fu annunciata ufficialmente nel 1979 e resa operativa nel 1980. Deng Xiaoping, che nel frattempo era diventato leader della Cina (lo rimase di fatto fino alla sua morte, nel 1997) sostenne che la politica del figlio unico fosse necessaria per garantire prosperità e benessere alla Cina e al suo popolo.
La politica fu messa in atto con brutalità, anche se la durezza delle misure variò a seconda dei periodi e dei funzionari locali che si occupavano di metterla in pratica. In alcuni casi fortunati i genitori che trasgredivano e avevano più di un figlio erano costretti a pagare una multa pecuniaria molto elevata, in altri perdevano il lavoro (era la regola se i trasgressori erano dipendenti pubblici), ma spesso le ritorsioni erano terribili: aborti e sterilizzazioni forzate.
Si creò una gigantesca burocrazia di circa mezzo milione di funzionari, radicata capillarmente in tutte le città e nei villaggi, i cui membri si occupavano di sorvegliare la popolazione, raccogliere denunce anonime, decidere le punizioni per le coppie che trasgredivano e portare avanti le grandi campagne di sterilizzazione di massa che cominciarono in Cina fin dagli anni Settanta. I funzionari potevano ordinare la demolizione delle abitazioni di chi faceva resistenza, e adottavano espedienti umilianti, come quello di registrare i cicli mestruali delle donne di un villaggio in un tabellone alla vista di tutti.
È difficile stimare quanti aborti e sterilizzazioni, spesso forzati, abbia provocato la politica del figlio unico, ma si parla comunque di decine di milioni di casi. Divennero diffusi anche i casi di infanticidio e di aborto selettivo, che hanno avuto come conseguenza un forte squilibrio nella popolazione: oggi in Cina ci sono 30 milioni di uomini in più delle donne.
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Le conseguenze
Secondo la retorica del Partito comunista, la politica del figlio unico fu un successo. Il Partito stima che la misura, benché estrema e dolorosa, abbia evitato dalla sua introduzione circa 400 milioni di nascite, che se fossero state permesse avrebbero impedito il cammino della Cina verso la prosperità e l’eliminazione della povertà.
In realtà la maggior parte degli economisti e dei demografi è oggi in disaccordo con quest’analisi, sia dal punto di vista numerico (le proiezioni sulla nascite “evitate” furono fatte basandosi sulla natalità elevatissima degli anni Settanta) sia soprattutto perché ormai si ritiene che non sia stata la denatalità a garantire il benessere, ma semmai l’inverso: altri paesi asiatici come la Thailandia e la Corea del Sud hanno avuto riduzioni della natalità molto simili a quelle della Cina grazie all’urbanizzazione, all’aumento del livello di istruzione delle donne e alla creazione di una classe media, senza dover adottare misure brutali e dolorose come la politica del figlio unico.
Questo non significa che la politica del figlio unico non abbia avuto conseguenze sulla demografia; piuttosto, che la retorica del Partito comunista secondo cui sarebbe stata un male necessario per garantire il benessere della popolazione è oggi in buona parte smentita dagli esperti.
Una delle eredità principali della politica del figlio unico, oltre che le conseguenze dolorose per chi ne fu colpito in prima persona e lo squilibrio tra maschi e femmine (che crea tutta un’altra serie di problemi, in parte collegati), è una struttura famigliare peculiare e tipica della Cina, spesso chiamata 4-2-1, nella quale un figlio unico, magari adulto, deve prendersi cura di due genitori che stanno invecchiando e di quattro nonni ormai anziani. In Cina la tradizione confuciana attribuisce grandissimo valore alla “pietà filiale”, ed è considerata la norma che un figlio si occupi dei propri genitori ed eventualmente anche dei nonni anziani, se necessario.
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La crisi demografica
Il tasso di fecondità della popolazione cinese nel 2020, cioè il numero medio di bambini nati da ciascuna donna, è di circa 1,3, molto sotto il cosiddetto “livello di sostituzione” di 2,1, che consente alla popolazione di riprodursi senza la necessità di immigrazione dall’estero. Questo numero è oggetto di dibattito: il governo cinese sostiene che il tasso di fecondità sia dell’1,6, ma molti studiosi contestano queste stime, e alcuni sostengono perfino che il tasso reale sarebbe di 1,05. In ogni caso, non si tratta di un tasso molto diverso da quello di altri paesi come Singapore (1,1), Italia (1,3), Giappone (1,4), Germania (1,5).
Ma mentre la maggior parte dei paesi con un tasso di fecondità molto basso e poche nascite in rapporto alla popolazione si colloca tra i più ricchi del mondo, la Cina è ancora in via di sviluppo, con un PIL pro capite piuttosto basso (circa 10 mila dollari contro i 33 mila dell’Italia e i 46 mila della Germania) e molte persone che ancora vivono sotto la soglia di povertà. Questo significa, come dicono gli esperti, che la Cina rischia di “diventare vecchia prima di diventare ricca”, e di dover affrontare i problemi di una società che invecchia (carenza di forza lavoro, eccessivo peso delle pensioni e della cura degli anziani sul bilancio dello stato e così via) senza essere riuscita a raggiungere lo stato di benessere e le garanzie di welfare di cui godono i cittadini di paesi in simili condizioni demografiche.
La Cina inoltre ha politiche rigidissime sull’immigrazione, che non consentono di alleviare la scarsa natalità con l’ingresso di nuove persone dall’estero, come succede per esempio negli Stati Uniti.
A complicare ulteriormente le cose, infine, c’è il fatto che le politiche pensionistiche in Cina sono relativamente generose, e sempre le stesse dagli anni Cinquanta: gli uomini possono andare in pensione a 60 anni, le donne che fanno lavori d’ufficio a 55, mentre le donne che fanno lavori più pesanti a 50. Il peso delle pensioni sulle casse dello stato per ora non è eccessivo (le pensioni erogate sono quasi sempre misere), ma un’età di pensionamento così bassa significa che tante persone ancora abili si ritirano dalla forza lavoro molto presto.
Nel comunicato del Politburo che ha annunciato la possibilità di avere tre figli è citato anche il progetto di alzare l’età pensionistica, ma non è specificato né quando né con quali criteri: annunci simili sono già stati fatti più volte negli anni scorsi, ma sempre ritirati per timore che l’aumento dell’età pensionistica provochi malcontento tra la popolazione.
Il peso sull’economia
La crisi demografica cinese rischia di creare gravi squilibri all’economia. La popolazione in età da lavoro ha cominciato a ridursi a partire dal 2012, mettendo in crisi uno dei principali fattori di crescita della Cina, la forza lavoro a basso costo. L’automazione ha in parte alleviato il problema, consentendo comunque un aumento della produttività, ma la diminuzione progressiva della popolazione attiva e l’aumento del costo del lavoro rischiano di far perdere alla Cina gran parte dei vantaggi che hanno consentito la sua crescita eccezionale negli ultimi 40 anni e che ne hanno fatto la “fabbrica del mondo”.
Questo in teoria dovrebbe essere un problema non troppo grave: il Partito comunista già da tempo mira a fare della Cina un’economia meno dipendente dalla manifattura e dalle esportazioni e basata invece sui consumi interni, come avviene nei paesi ricchi dell’Occidente. Anche in questo caso, tuttavia, la crisi demografica potrebbe costituire un rischio: una popolazione più anziana tendenzialmente consuma meno.
Nel frattempo, l’aumento costante della popolazione con più di 60 anni rischia di far crescere enormemente le spese per lo stato e per le famiglie, sia per le pensioni sia per la cura e la gestione degli anziani.
Questo non significa che la crescita dell’economia cinese sia messa in pericolo in termini assoluti: gli esperti continuano a prevedere che nel giro di qualche decennio la Cina supererà gli Stati Uniti come prima potenza economica mondiale. Ma se il trend demografico si mantiene, potrebbe diventare molto difficile mantenere a lungo questo primato.
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Convincere le coppie cinesi
A meno di grandi e improbabili cambiamenti nelle politiche migratorie, l’unico modo che la leadership comunista ha per evitare le conseguenze peggiori della crisi demografica è convincere le coppie cinesi a fare più figli: i progressivi allentamenti della politica del figlio unico rispondono a questa necessità, ma per ora sono stati quasi del tutto inutili.
Anzitutto perché l’allentamento della politica del figlio unico è stato troppo timido e graduale. Anziché eliminarla del tutto quando era chiaro che la crisi demografica si stava aggravando (il tasso di fecondità era sceso sotto il “livello di sostituzione” già a partire dagli anni Novanta), il governo si è mosso in maniera timida: ha cominciato soltanto nel 2013 a consentire di avere due figli, e solo alle coppie formate da due figli unici. Nel 2015, poi, ha consentito a tutte le coppie sposate di avere due figli, ma le speranze di un boom demografico sono state deluse: dopo un piccolo aumento di circa l’8 per cento nel 2016, le nuove nascite hanno ripreso a calare a tasso sostenuto.
Anche con l’annuncio di questa settimana la leadership comunista si è dimostrata restìa a eliminare del tutto le misure di controllo delle nascite, che sono state ulteriormente ridotte, ma non eliminate del tutto. Questo in parte perché i politici cinesi vogliono evitare di avere problemi con il mezzo milione di dipendenti pubblici che ancora avrebbero il compito di mettere in pratica le politiche demografiche, e in parte perché il Partito fatica a rinunciare completamente al controllo su una questione considerata socialmente molto sensibile.
In ogni caso, proprio come le coppie cinesi non hanno reagito quando lo stato ha concesso loro di avere due figli, difficilmente lo faranno ora che ne possono avere tre.
Per decenni la propaganda comunista ha lavorato per convincere i cittadini che le possibilità di successo di una famiglia sarebbero state maggiori se tutte le risorse fossero state concentrate su un unico figlio, e c’è in gran parte riuscita: la maggior parte delle famiglie cinesi ripone tutte le sue speranze e ambizioni su un unico figlio. Crescere un bambino, inoltre, è eccezionalmente costoso. L’educazione in Cina, per esempio, è molto competitiva e costosa, e le famiglie spendono cifre enormi per fare entrare i propri figli nelle scuole e nelle università migliori: garantire gli stessi standard educativi a due o perfino tre figli rischia di essere al di fuori della portata della maggioranza della popolazione.
Lo stato inoltre non ha particolari politiche di sostegno delle coppie con figli, e spesso l’assenza di aiuti si trasforma in discriminazione per le coppie non sposate o per le madri single.
La discriminazione contro le donne è un altro serio problema: in Cina gran parte delle responsabilità legate alla crescita di un figlio cade in maniera sproporzionata sulle donne, ed è dato per scontato che una donna debba scegliere tra essere madre e avere una carriera lavorativa soddisfacente. La maggior parte dei datori di lavoro continua a discriminare pesantemente le donne che hanno figli, o che esprimono il desiderio di averne.
Per questo, a causa dei costi molto alti e delle condizioni spesso sfavorevoli, gli esperti ritengono improbabile che consentire alle coppie di avere tre figli potrà avere grossi effetti sulla demografia. «Se non compro tre Rolls-Royce non è perché c’è una qualche restrizione, ma perché sono troppo costose», ha scritto un utente cinese online dopo l’annuncio, paragonando i figli ad auto di lusso.
In un sondaggio online pubblicato da Xinhua sul social network Weibo, in cui si chiedeva ai cinesi se “erano pronti” per la politica dei tre figli, circa 29 mila dei 31 mila che hanno risposto lo ha fatto in termini molto negativi. Il sondaggio è stato poi rimosso senza spiegazioni.
Nell’annuncio di questa settimana, il governo cinese ha promesso che metterà in atto tutta una serie di politiche per sostenere le coppie e ridurre la discriminazione contro le donne, senza però scendere nei dettagli. Ha anche promesso che inaugurerà campagne di propaganda per educare i giovani «a proposito del matrimonio e dell’amore». Queste campagne nel passato hanno spesso vittimizzato le donne: la propaganda di stato, per esempio, fino a poco tempo fa definiva le donne che dopo i 30 anni non si erano ancora sposate con il termine dispregiativo sheng nu, che significa “donne rimaste, avanzate”.