I coniugi Krafft, vulcanologi spericolati
Morirono 30 anni fa in Giappone, dopo una stimata carriera passata a documentare eruzioni avvicinandosi alla lava più di chiunque altro
Il 3 giugno 1991, trent’anni fa, i due vulcanologi francesi Katia e Maurice Krafft si trovavano alla base del monte Unzen, nella penisola di Shimabara, sull’isola di Kyushu, in Giappone. Da alcuni mesi, il gruppo vulcanico da cui è costituito il monte aveva ripreso una sporadica attività eruttiva, inducendo alla fine di maggio il governo a evacuare l’area nelle vicinanze. Per avvicinarsi al monte e documentare i fenomeni vulcanici, insieme ad altri studiosi e ad alcune troupe di giornalisti, i Krafft seguirono un percorso ritenuto meno pericoloso ma furono travolti e uccisi – insieme ad altre 41 persone – da una valanga di rocce, ceneri e gas innescata da un’eruzione. Avevano 49 anni lei, e 45 lui.
Le analisi, le fotografie e i filmati spettacolari realizzati da Katia e Maurice Krafft fin dagli anni Settanta, spesso a pochi metri di distanza dai flussi di lava, sono ancora oggi considerati fonte di una parte consistente delle cose che sappiamo sui vulcani. Entrambi erano molto noti nella comunità scientifica per il coraggio e la temerarietà con cui esaminavano da vicino pericolosi fenomeni vulcanici, andando contro i normali protocolli di sicurezza. Nel corso di oltre vent’anni il loro lavoro si rivelò inoltre fondamentale per la sensibilizzazione di capi e governanti delle comunità che vivono alle pendici dei vulcani attivi più pericolosi del mondo.
«Katia e Maurice Krafft erano famosi per aver ripreso immagini incredibili di vulcani. Ma questo significava essere dovuti arrivare pericolosamente vicino ai loro soggetti, troppo vicino, come alla fine sarebbe stato chiaro», sintetizzò il regista tedesco Werner Herzog nel documentario del 2016 Dentro l’inferno.
Figlia di un operaio e un’insegnante di Soultz-Haut-Rhin, piccolo comune francese dell’Alto Reno, Katia Conrad studiò all’École normale supérieure e poi fisica e geochimica all’Università di Strasburgo. Conobbe quindi Maurice, che a Strasburgo studiava geologia e con il quale condivideva la passione per i vulcani. Si sposarono il 18 agosto 1970, scegliendo come meta del viaggio di nozze l’isola vulcanica greca di Santorini, e cominciarono a studiare da vicino i vulcani in Islanda, Africa, Sud America, Italia e molte altre parti del mondo.
Inizialmente screditati da una parte della comunità scientifica francese per la loro completa indipendenza e per il rifiuto di inquadrare le loro ricerche in rigorosi percorsi accademici, Katia e Maurice Krafft scrissero libri, tennero conferenze in Francia e all’estero, e realizzarono servizi fotografici e documentari per la televisione, per finanziare i loro numerosi progetti. Durante le esplorazioni sui vulcani attivi (175 in tutta la loro carriera), solitamente lei era quella con la macchina fotografica e lui quello dietro la cinepresa. Divennero presto famosi anche negli Stati Uniti, dove erano soprannominati “i diavoli dei vulcani” o anche “i vulcanologi più veloci del mondo”, per la loro capacità di essere spesso i primi ad arrivare sui siti eruttivi, prendendo decisioni molto pericolose.
A fronte della loro crescente popolarità e dell’importanza dei documenti prodotti e dei materiali raccolti, i Krafft furono in seguito accolti dalla comunità scientifica internazionale e cominciarono a essere presenze stabili in diversi congressi di vulcanologia, molti dei quali organizzati dalla società francese Connaissance du Monde. In collaborazione con l’UNESCO e con la società di ricerca internazionale IAVCEI (International Association of Volcanology and Chemistry of the Earth’s Interior), realizzarono il film Living Under the Threat of Volcanoes, che fu trasmesso in tutto il mondo e doppiato in sette lingue in seguito alla devastante eruzione del Nevado del Ruiz del 1985, in Colombia, in cui morirono circa 23 mila persone.
Si ritiene che molto del lavoro svolto in quegli anni dai Krafft abbia contribuito ad accrescere la consapevolezza dei rischi vulcanici nell’opinione pubblica e nelle comunità più esposte a quei rischi, permettendo loro di introdurre adeguate misure di evacuazione da seguire in caso di allerta.
Nel 1991, all’inizio di giugno, i Krafft si incontrarono in Giappone con un loro stimato collega, il trentatreenne vulcanologo americano Harry Glicken, che insegnava all’Università Metropolitana di Tokyo (TMU) dopo un dottorato all’Istituto di Ricerca sui Terremoti dell’Università imperiale di Tokyo (Todai). Glicken era nel gruppo coinvolto nelle ricerche sul monte Unzen, che a novembre dell’anno precedente aveva ripreso l’attività vulcanica dopo quasi 200 anni di inattività.
Quella del 1792 è considerata la più grande catastrofe vulcanica della storia del Giappone, con circa 15 mila morti considerando anche quelli causati dallo tsunami innescato nella baia di Ariake dalla frana provocata sul fianco meridionale dell’Unzen dalla pressione del magma in risalita. La città di Shimabara fu investita da un’enorme colata piroclastica, valanghe di cenere, gas e rocce ad alte temperature che, a seguito di fenomeni esplosivi del vulcanismo, scendono a valle e possono raggiungere velocità di 700 chilometri orari. La parziale imprevedibilità della loro traiettoria è uno degli aspetti più pericolosi di questi flussi, che hanno forza sufficiente per superare barriere morfologiche e spazzare via molti degli ostacoli fisici che si trovano davanti.
Nella giornata del 2 giugno 1991, insieme a Glicken, i Krafft visitarono il monte Unzen per una prima ricognizione e per capire attraverso quale fianco avvicinarsi per documentare l’attività vulcanica. Il giorno dopo, insieme ad altri studiosi e giornalisti, seguirono un percorso che avrebbe dovuto permettere loro di aggirare i flussi piroclastici previsti. Intorno alle 15, la parete di una cupola di lava – strutture che si formano sui crateri – collassò improvvisamente generando un grande flusso che scese a valle a circa 100 chilometri orari e con una temperatura di centinaia di gradi Celsius. Si separò quindi in due parti, una delle quali – la più calda e devastante – investì la postazione dei vulcanologi, uccidendoli all’istante.
«Non ho mai paura, perché ho visto così tante eruzioni in ventitré anni che se anche dovessi morire domani, non importa», disse Maurice poco prima di salire sul monte Unzen con gli altri. I loro corpi furono trovati e identificati giorni dopo l’incidente.
Porta il nome dei Krafft – la medaglia Krafft – uno dei riconoscimenti più prestigiosi della società IAVCEI, curatrice della rivista scientifica Bulletin of Volcanology. Viene assegnata ogni quattro anni a chi si sia distinto per i «contributi eccezionali alla vulcanologia attraverso il servizio alla comunità scientifica o alle comunità minacciate dall’attività vulcanica».