Trasformare la merda in oro
Era l'idea dietro la più nota e provocatoria opera di Piero Manzoni, che indispettì un sacco di gente
La sera del 5 febbraio 1963 faceva freddo a Milano, ma il clima rigido non era un deterrente per Piero Manzoni. Come sempre era andato alla trattoria del pugile Pino Pomé in via dei Borromei, uno dei pochi che accettava le sue opere d’arte come pagamento. Era accompagnato dal suo amico, il giovane fotografo Uliano Lucas. Dopo cena i due andarono a trovare un’amica, con cui stettero insieme fino alle sei della mattina dopo, bevendo in giro per locali. Quando era ormai quasi l’alba Manzoni tornò nel suo studio in via dei Fiori Chiari, nel quartiere di Brera. La sera dopo lo aspettavano per l’inaugurazione di una galleria, a cui Manzoni però non andò mai perché morì all’improvviso, secondo la famiglia a causa di un arresto cardiaco, secondo altre fonti per una cirrosi epatica. Doveva ancora compiere 30 anni.
Nel corso della sua breve vita, Manzoni fece in tempo a diventare uno degli artisti italiani più discussi del Novecento, soprattutto grazie alla sua opera più nota e controversa, Merda d’artista, di cui è appena trascorso il sessantesimo anniversario. L’opera – di cui esistono 90 esemplari – consiste in una scatoletta cilindrica di sei centimetri di diametro, corredata da un’etichetta e alcune scritte che Manzoni fece fare al tipografo Antonio Maschera.
Merda d’artista. Contenuto netto 30 gr. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961.
Questa scritta viene riproposta in quattro lingue – italiano, francese, inglese e tedesco – su uno sfondo composto dal nome dell’artista stampato in maiuscolo senza soluzione di continuità. Sul tappo il numero di serie e la firma autografa, sul fondo la scritta “Made in Italy”.
La prima esposizione pubblica della Merda d’artista avvenne nell’agosto 1961, in una piccola galleria di Albisola, in provincia di Savona. Come ha raccontato lo storico dell’arte Flaminio Gualdoni nel suo libro Breve storia della “Merda d’artista”, la mostra di Albisola era organizzata da una famiglia di ristoratori albisolesi, i Pescetto, ed era rivolta a un ristretto gruppo di amici e conoscenti. E non era la prima volta che Manzoni esponeva in quella zona. Nel 1959 ci aveva presentato le Linee, cioè lunghe linee dipinte su fogli arrotolati e chiuse in un cilindro sigillato, sul quale era applicata un’etichetta manoscritta a indicazione della lunghezza esatta della linea.
Ma se le Linee avevano impressionato molto il ristretto gruppo di intellettuali che si interessava di avanguardie artistiche, Merda d’artista provocò da subito reazioni perplesse, quasi sprezzanti. Si percepì soprattutto l’irriverenza dell’opera e si pensò che fosse più che altro uno scherzo grottesco, una trovata. Lo scrittore Dino Buzzati criticò «questi barattoli le cui intenzioni ironiche o rivoluzionarie non bastano a riscattare la volgarità e il cattivo gusto di stampo goliardico», e la rivista satirica Bertoldo definì Manzoni «Il Caccautore». Scrive Gualdoni:
Pochi, pochissimi colgono l’implicazione economica, il nucleo vero dell’iniziativa di Manzoni, sottile assai più di quanto non appaia: il prezzo di vendita è fissato nel peso equivalente, trenta grammi, in oro zecchino. Ancor meno sono coloro che conoscono le parallele linee di riflessione e d’invenzione dell’artista entro le quali questo lavoro si colloca, in un ripensamento radicale dell’idea stessa di corpo e di opera d’arte.
A causa della curiosità che inevitabilmente suscita, Merda d’artista è diventata negli anni l’opera più pop di Manzoni, e lui stesso ne sfruttò consapevolmente l’impatto mediatico, portandola spesso con sé, usandola come merce di scambio e facendosi fotografare con alcuni esemplari. Tuttavia, se si inserisce Merda d’artista nel suo contesto, si capisce che compone una parte – non necessariamente quella cruciale – di un percorso, composto a sua volta da una serie di riflessioni che si prestano a moltissimi livelli di lettura e che sono incentrate principalmente su due concetti, «autorialità» e autenticità.
Manzoni, semplificando, portò all’estremo le condizioni in cui un artista è in grado di produrre arte: un palloncino gonfiato da lui diventa Fiato d’artista, donne nude firmate da lui diventano sculture viventi, un piedistallo di legno diventa una Base magica su cui tutti e tutte possono salire e diventare opere d’arte, un cubo con la scritta rovesciata Socle du monde (“Zoccolo del mondo”) fa diventare arte l’intero pianeta. E se ogni emanazione dell’artista è arte, di conseguenza vale lo stesso anche per i suoi rifiuti biologici, che possono quindi valere quanto l’oro (e anche molto di più: una Merda d’artista fu venduta per 275mila euro nel 2016).
Sono idee e metodi che appartengono a un campo – l’arte concettuale – di cui furono precursori artisti come Marcel Duchamp, tra i primi a introdurre la pratica rivoluzionaria del ready-made, cioè l’utilizzo di oggetti di uso quotidiano per la produzione di opere. Una delle prime e più celebri di questo tipo è l’orinatoio rovesciato e firmato da Duchamp che diventa Fontana (1917).
Le opere di Manzoni ebbero una certa influenza negli ambienti intellettuali che frequentava (non solo in Italia ma anche nei Paesi Bassi e in Danimarca), ma l’ammirazione e le attenzioni verso di lui aumentarono soprattutto dopo la sua morte. L’amico e artista Enrico Baj, nella propria autobiografia, scrisse:
Dicevano che non capiva niente, che era un ritardato, che era uno schifoso: poi morì giovanissimo e divenne bravo, bravissimo per tutti e i suoi quadri andarono alle stelle.
Buona parte della fama di Merda d’artista e di Manzoni stesso, in effetti, si deve a una mostra che venne allestita nel 1971 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (GNAM), la prima retrospettiva dedicata a Manzoni e voluta da Palma Bucarelli, nota e importantissima critica e storica dell’arte a capo della GNAM per più di trent’anni.
La mostra, che comprendeva sei esemplari di Merda d’artista, fu inaugurata a inizio febbraio e andò avanti tranquillamente finché, il 23 febbraio, il parlamentare democristiano Guido Bernardi non presentò un’interrogazione all’allora ministro dell’Istruzione Riccardo Misasi, anche lui della DC, in cui sostanzialmente metteva in discussione – usando toni allusivi e doppi sensi – il valore artistico dell’opera di Manzoni e chiedeva in modo velato che Bucarelli venisse rimossa dal suo incarico.
Dopo un prologo descrittivo abbastanza neutro, Bernardi continuava così:
L’interrogante non avrebbe nulla da eccepire circa i criteri selettivi – indubbiamente artistici – che hanno guidato la signora Bucarelli se le opere esposte fossero frutto della libertà creativa del suddetto Piero Manzoni. Ma poiché la materia esposta – anche se inscatolata a tutela dell’igiene pubblica – è frutto obbligato di una normale digestione, l’interrogante chiede al ministro:
1) quali garanzie il pubblico abbia circa l’autenticità dell’opera dell’artista;
2) poiché l’interrogante ha ritenuto finora, anche se erroneamente, che una simile creazione artistica tanto valorizzata dal signor Piero Manzoni e così autorevolmente avallata dalla signora Bucarelli, fosse quotidianamente prodotta da tutta l’umanità, chiede se non sia il caso di dare la massima divulgazione a questa forma d’arte in modo che le masse popolari, finora ignare portatrici di tanto valore artistico sempre avviato verso le fogne cittadine […].
Nel giro di poco la stampa si interessò della questione e a dieci anni da quando fu ideata il dibattito pubblico scoprì la Merda d’artista. Nacque un caso intorno a Bucarelli, e si formò un movimento di intellettuali e artisti a sua difesa. Il sottosegretario all’istruzione Pier Luigi Romita fu costretto a rispondere in Parlamento, usando come argomento lo status internazionale di Manzoni, riconosciuto come un grande artista in molti paesi. Ma non bastò. Bucarelli venne sospettata di aver usato denaro pubblico per acquistare l’opera di Manzoni e fu accusata di appropriazione indebita. Il pubblico ministero ritenne che non fosse stato commesso nessun reato, ma volle specificare che la Merda d’artista «non ha alcun punto in comune con l’arte in nessuna delle sue definizioni concettuali e contrasta con le finalità educative della stessa».
È un’idea che cinquant’anni dopo appartiene forse ancora a molte persone, per certi versi simile a quella secondo cui l’arte contemporanea non può davvero definirsi arte se “lo potevo fare anch’io”. Per spiegare questo concetto il critico Francesco Bonami ha scritto un libro intitolato proprio così, in cui cita Merda d’artista come esempio per descrivere il sentimento di perplessità mista a rabbia che ci provocano certe opere d’arte contemporanea. Ma nell’arte del Novecento, scrive Bonami, non conta tanto il mestiere e la tecnica, contano le idee. «Non è più essenziale saper fare qualcosa […]. L’importante è pensare, in ogni caso e possibilmente prima degli altri, la cosa giusta al momento giusto».
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