Applaudire a pagamento

La storia della “claque”, che prima di entrare nel gergo dei talk show fu parte integrante dell'opera e del teatro, con tutta una sua organizzazione

(Wikimedia)
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In questo secolo, e per buona parte del precedente, quando si parla o si è parlato di claque lo si è fatto quasi sempre in riferimento, talvolta in senso figurato, ai seguaci plauditori di qualche politico, nel contesto di un comizio o un talk show. Ma la claque – quella vera: da opera e da teatro – fu qualcosa di più complesso rispetto a un po’ di persone apparentemente entusiaste delle dichiarazioni di un politico. Fu un fenomeno codificato, studiato, raccontato e a suo modo di grande rilevanza: che a volte prese anche derive pericolose.

Claque è una parola di origine francese che deriva dal verbo claquer, di cui è anche la prima persona singolare. Un verbo che così come l’inglese to clap sembra avere origine onomatopeica, perché viene usato per indicare l’applaudire. Partendo da qui, qualche secolo fa “la claque” iniziò a diventare – prima in Francia e in francese, poi anche altrove e in altre lingue – il termine specifico usato in riferimento a un gruppo di persone che, per soldi o per qualche altro tipo di tornaconto, applaudivano e apprezzavano a prescindere e con una certa enfasi un balletto, un’opera o una rappresentazione teatrale.

Così come è impossibile dire quando, come e perché nacque davvero il concetto e il gesto dell’applauso, si fa ugualmente fatica a dire quando nacque quella che poi sarebbe diventata la claque. Si può però affermare, come fece alcuni anni fa il New York Times, che «l’idea che l’applauso debba essere qualcosa di spontaneo è relativamente recente».

È accertato che già nell’antica Roma ci fossero persone appositamente selezionate (e probabilmente minacciate) affinché applaudissero con veemenza e convinzione quando necessario. Treccani scrive che il «primo impiego ufficiale» di quella che sarebbe poi diventata la claque «pare si debba a Nerone, che secondo Svetonio fece venire dalla Grecia dei maestri specialisti». E che allora «gli applausi si distinguevano in bombi, che imitavano il rumore sordo e continuo del ronzio delle api, imbrices, che risuonavano come la pioggia sulle tegole, e testae, il cui suono era quello di un vaso di creta che si rompe. Le persone addestrate erano chiamate iuvenes, i capi curatores».

Ci sono pochi dubbi sul fatto che forme di coercizione o pagamento di un certo numero di persone affinché mostrassero di gradire qualche spettacolo dal vivo ci furono sempre e ovunque. Ma in genere si considera che la storia moderna della claque sia iniziata grazie a Jean Daurat, poeta francese del Sedicesimo secolo.

Come ha spiegato JSTOR Daily, per diversi decenni, anche dopo Daurat, la claque fu tuttavia qualcosa di spesso molto marginale e in certi casi addirittura assente. Perché, in Francia ma anche altrove, il teatro e l’opera erano perlopiù riservati all’aristocrazia, ed erano eventi in cui lo spettacolo in sé era quasi marginale: ci si andava per guardare e farsi guardare, per parlare e per fare tutta una serie di cose che poco avevano a che vedere con quel che succedeva sul palco. L’illuminazione era allestita per rischiarare il pubblico tanto quanto il palco, forse anche di più; e l’organizzazione dei posti era pensata per far si che certi spettatori potessero guardarsi tra loro.

«Per gli aristocratici», ha scritto JSTOR Daily, «dedicare troppa attenzione allo spettacolo era considerato un passo falso», qualcosa di borghese. E mentre qualcuno cantava o recitava, il pubblico conversava, mangiava, beveva, entrava, usciva e rientrava, e se lo riteneva necessario cantava. «E, inevitabilmente, le persone più importanti arrivavano in ritardo, e lo spettacolo era interrotto per applaudirle».

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Nei primi decenni del Diciannovesimo secolo cambiarono però molte cose: compreso il tipo di pubblico degli spettacoli. Gli aristocratici sparirono – o perlomeno diminuirono notevolmente – e al loro posto arrivarono persone che apprezzavano l’opera, ma che non ne erano per nulla esperte. «Non sapevano cosa gli piaceva», secondo la sintesi di JSTOR Daily.

In questo senso, secondo certi storici del teatro, la claque nacque quindi come qualcosa di simile e quasi complementare alla critica teatrale, musicale o operistica: entrambe servivano a plasmare le opinioni e a guidare i gusti degli spettatori.

E non ci volle molto perché la claque venisse organizzata e professionalizzata. Nacquero così gruppi di claqueurs professionisti, guidati da un chef de claque, che agiva come un direttore d’orchestra.

La claque più nota divenne quella dell’Opéra di Parigi e il più noto capo-claque divenne un certo Auguste Levasseur, che come scrisse un articolo accademico pubblicato nel 1946 da The Musical Quarterly era «in ottimi rapporti con i più importanti cantanti, ballerini e compositori del tempo», e di certo lo era anche con chi dirigeva l’Opéra.

Levasseur – descritto come un tipo dalla stazza imponente e «dotato di un paio di mani fuori dal comune, nato per fare il claqueur» – sviluppò anche un preciso metodo «quasi scientifico» che prevedeva di studiare le prove e i testi e consultarsi con autori, attori e musicisti per capire quando e come organizzare gli applausi o altre forme di incitamento. Levasseur, inoltre, modulava entità e intensità degli applausi in base alle ricompense pattuite e sebbene non fosse «un letterato o un musicista» e forse nemmeno un grande esperto di opera, ne era di certo un grande appassionato, e senza dubbio era tenuto in gran conto da tutti gli addetti ai lavori.

Le persone che lavoravano per Levasseur reagendo agli spettacoli in base alle sue rappresentazioni erano sparse per la sala in posizioni ritenute strategiche e in genere ricompensate con biglietti omaggio (altri, invece, li riceveva Levasseur stesso, che poi li rivendeva). Levasseur dava loro indicazioni su quando applaudire, quando acclamare, quando ridere e quando piangere. E sembra anche che ci fossero membri della claque che si specializzarono in determinate reazioni: i rieurs ridevano, i pleureurs piangevano e i bisseurs erano quelli che chiedevano i bis.

Di fatto, Levasseur lavorava per l’Opéra. Ma a quanto pare riusciva anche a mettere insieme qualche altro guadagno grazie a specifici accordi con singoli artisti, evidentemente desiderosi di fare bella figura.

Grazie a Levasseur, strategie e tecniche della claque arrivarono anche altrove nel mondo, e ci sono resoconti di casi in cui le reazioni della claque diventavano parte integrante delle rappresentazioni, in modo non troppo diverso da come le risate finte divengono parte di certe sitcom. Un testo pubblicato nel 1919 su The Musical Times raccontò per esempio il caso di una rappresentazione a Genova della Cavalleria Rusticana, in cui una claque particolarmente rumorosa serviva a mascherare il fatto che un tenore facesse una pausa in mezzo a una lunga nota.

In altre occasioni, invece, la claque prese derive di altro tipo, arrivando a qualcosa di simile al ricatto, con qualcuno che minacciava certi cantanti o attori facendo sapere loro che se non avessero pagato una certa cifra, non sarebbero stati applauditi o incitati.

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Più o meno con il finire del Diciannovesimo secolo, anche le claque – quantomeno nelle loro forme più organizzate – persero rilevanza quasi ovunque. Probabilmente perché iniziò a cambiare l’attitudine verso certe rappresentazioni, e iniziò la tendenza verso un ascolto se possibile silenzioso, almeno per gran parte del tempo. Ma non proprio ovunque. Nel 2013 il New York Times raccontò per esempio la storia di Roman Abramov: un tipo apparentemente un po’ losco, a capo di una per nulla limpida ma a quanto pare molto influente claque del teatro Bolshoi di Mosca, in Russia.