La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sullo “stupro della Fortezza da Basso”
Sostiene che la Corte d'Appello di Firenze non tutelò la donna che aveva subìto violenza dalla "vittimizzazione secondaria"
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la sentenza in Corte d’Appello con cui nel 2015 vennero assolti i sei imputati coinvolti in quello che era stato definito dai giornali “stupro della Fortezza da Basso” (Firenze) fu influenzata da stereotipi sessisti; secondo la Corte europea, questi stereotipi non avrebbero permesso di tutelare in maniera adeguata i diritti e gli interessi della giovane donna che aveva denunciato di aver subito lo stupro, nel 2008. La Corte ha dunque condannato l’Italia, accordando alla ricorrente un risarcimento per danni morali pari a 12 mila euro.
Secondo la Corte europea, nonostante un quadro legislativo nazionale soddisfacente, la sentenza della Corte d’Appello italiana viola l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, che prevede il diritto al rispetto della vita privata e familiare. In particolare, il linguaggio e gli argomenti usati in sede d’appello e determinanti per la sentenza avevano veicolato «pregiudizi sul ruolo delle donne esistenti nella società italiana», non avevano rispettato «la vita privata e l’integrità personale» della ricorrente e avevano omesso di proteggere la donna dalla “vittimizzazione secondaria”, che consiste nel trasferire parte della responsabilità di una violenza alla persona che l’ha subita.
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La Corte ha detto che i commenti sulla bisessualità della donna, sulle sue relazioni e sui suoi rapporti sessuali avvenuti prima degli eventi erano «ingiustificati». I giudici, inoltre, hanno definito «deplorevole» e «irrilevante» il giudizio sulla «vita non lineare» della donna dato dalla Corte di Appello di Firenze e il giudizio sulla scelta della donna di denunciare la violenza, che sarebbe nata, secondo il tribunale italiano, dalla volontà di «stigmatizzare» un suo stesso «momento di fragilità e debolezza».
Secondo la Corte europea, infine, le azioni penali e le sanzioni «svolgono un ruolo determinante nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alla disuguaglianza di genere»: è quindi essenziale che «le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali, di ridurre al minimo le violenze di genere e di esporre le donne alla vittimizzazione secondaria con parole colpevoli e moralistiche che rischiano di scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia».
La vicenda coinvolge una ragazza che all’epoca aveva 22 anni e che denunciò di essere stata stuprata il 26 luglio del 2008 in una macchina parcheggiata fuori dalla Fortezza da Basso, a Firenze, dove erano in corso feste ed eventi estivi.
Dopo la denuncia per stupro (presentata quattro giorni dopo i fatti), gli accertamenti medici e le indagini, vennero arrestati sette ragazzi che avevano tra i 20 e i 25 anni. I sette imputati rimasero un mese in carcere e circa due mesi ai domiciliari. Il processo, nel quale il comune di Firenze si costituì parte civile, terminò nel gennaio del 2013 con la sentenza di condanna per sei dei sette accusati a 4 anni e 6 mesi di reclusione. I sei furono condannati per violenza sessuale di gruppo aggravata dal fatto che la vittima fosse ubriaca, cioè dal fatto che gli imputati avevano approfittato delle sue “condizioni di inferiorità fisiche e psichiche” causate dall’alcol.
Nel marzo del 2015, però, la Corte d’appello rovesciò completamente la condanna in primo grado e i sei imputati furono tutti assolti con formula piena perché «il fatto non sussisteva».
I giudici di appello dubitarono della credibilità della donna (e diedero credito alla versione dei sei ragazzi) basandosi su diverse contraddizioni che ci sarebbero state nella testimonianza di lei e sulla ricostruzione della sua vita privata e delle sue abitudini sessuali, sia in generale sia con riferimento a quella sera stessa: la ragazza non sarebbe stata in uno stato di inferiorità psichica essendo «un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso disinibito, creativo, in grado gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta». La Corte di appello, nelle quattro pagine della sentenza, scrisse poi che la vicenda era stata «incresciosa», «non encomiabile per nessuno», ma «penalmente non censurabile».
In sostanza, secondo i giudici, la ragazza voleva con la sua denuncia «rimuovere» quello che considerava un suo «discutibile momento di debolezza e fragilità», ma «l’iniziativa di gruppo» non venne da lei «ostacolata».
Secondo l’associazione D.i.Re., che riunisce 82 centri antiviolenza non istituzionali, quella della Corte europea è «una sentenza importantissima» perché «stigmatizza la delegittimazione delle vittime di stupro, ritenute corresponsabili delle violenze subite in base a valutazioni legate alla loro vita privata che continuano a essere usate per motivare sentenze condiscendenti verso gli autori delle violenze, nonostante ciò sia vietato da norme interne e internazionali, a cominciare dalla Direttiva dell’Unione Europea sulla protezione delle vittime di reato, dalla CEDAW e dalla Convenzione di Istanbul».
L’articolo 54 della Convenzione di Istanbul – che è stata ratificata dall’Italia, è in vigore dal 1° agosto 2014 ma di cui in Italia manca il sostanziale recepimento (e non solo pratico) – dice che in qualsiasi procedimento civile o penale va garantito il fatto che le prove relative agli antecedenti sessuali e alla condotta della vittima devono essere «ammissibili unicamente quando sono pertinenti e necessarie».
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L’avvocata Titti Carrano, avvocata di D.i.Re., ha detto poi di sperare che il governo italiano accetti questa condanna e che «si adoperi concretamente per attività di prevenzione e formazione degli operatori di giustizia».