L’Iran si sposterà ancora più a destra?
I più importanti candidati riformisti e moderati sono stati esclusi dalle elezioni presidenziali di giugno, come risultato di un processo iniziato tempo fa
di Elena Zacchetti
Alle elezioni presidenziali che si terranno in Iran il 18 giugno sono stati esclusi i più importanti politici riformisti e moderati (la sinistra e il centro) che avevano chiesto di far parte delle liste dei candidati. La decisione è stata presa dal Consiglio dei Guardiani, l’organo che si occupa di valutare e selezionare i candidati prima di ogni elezione che si tiene nel paese: non sono state diffuse ragioni specifiche per le esclusioni, ma generiche irregolarità considerate da molti pretesti motivati politicamente. Il Consiglio dei Guardiani è molto vicino ai conservatori e agli ultraconservatori iraniani (la destra), e dipende dalla Guida suprema Ali Khamenei, il leader assoluto dell’Iran e rappresentante della fazione più radicale del regime.
La decisione di martedì è enormemente importante per le elezioni del 18 giugno, quando verrà eletto il successore dell’attuale presidente iraniano Hassan Rouhani (moderato), che non può più ricandidarsi per aver raggiunto il limite dei mandati. Il favorito tra i sette candidati ammessi, secondo molti già sicuro della vittoria dopo le esclusioni di martedì, è Ebrahim Raisi, attualmente capo del potere giudiziario dell’Iran, controllato anch’esso dagli ultraconservatori.
Raisi si era già candidato alle ultime elezioni presidenziali, quelle del 2017 vinte poi da Rouhani. È molto conservatore ed è il candidato preferito da Khamenei e uno dei suoi più accreditati successori. Ha anche un passato piuttosto controverso: nel 1988, alla fine della guerra che l’Iran stava allora combattendo contro l’Iraq, Raisi fece parte di una delle cosiddette “commissioni della morte” che ordinarono esecuzioni di massa di migliaia di prigionieri politici e combattenti nemici. Il grande ayatollah iraniano Hossein Ali Montazeri descrisse quelle esecuzioni come «il più grande crimine della storia della Repubblica Islamica» (cioè dell’Iran dei religiosi, sistema istituito dopo la rivoluzione del 1979).
Una elezione di Raisi a presidente potrebbe quindi rafforzare ulteriormente l’ala più rigida, intransigente, repressiva e nazionalista del regime iraniano, con conseguenze importanti dentro e fuori il paese.
L’esclusione che sta facendo più discutere è quella di Ali Larijani, ex presidente del parlamento iraniano. Nonostante sia un conservatore, Larijani è stato spesso definito come “pragmatico”. Diversamente da molti altri politici di destra, appoggiò per esempio lo storico accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015 dall’allora amministrazione di Barack Obama e dal governo moderato di Rouhani: l’accordo, a cui invece era piuttosto ostile la fazione di Khamenei, prevedeva un rallentamento del programma nucleare dell’Iran in cambio della rimozione di alcune sanzioni imposte sull’economia iraniana. Larijani era considerato anche l’unico vero credibile rivale di Raisi.
Altri due importanti esclusi sono Mahmoud Ahmadinejad, già presidente iraniano dal 2005 al 2013 (conservatore e fortemente populista), e Eshaq Jahangiri, vicepresidente di Rouhani, unico importante candidato riformista. L’esclusione di Jahangiri è stata vista come un durissimo colpo per i riformisti, che negli ultimi anni sono stati presi di mira più volte dalla parte più conservatrice del regime.
In Iran le elezioni non sono considerate né libere né democratiche, soprattutto per il rigidissimo sistema di selezione dei candidati controllato da una sola parte politica: gli ultraconservatori. Con le esclusioni di martedì, sembra che l’ala più radicale del regime iraniano abbia voluto escludere del tutto la possibilità che si potessero ripetere le vittorie del riformista Mohammed Khatami, nel 1997, e del moderato Hassan Rouhani, nel 2013.
Le esclusioni sono state anche il risultato di un processo politico che era in atto da diverso tempo in Iran, iniziato con la decisione presa nel 2018 dall’allora presidente statunitense Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, di fatto affossandolo.
Già allora molti esperti e osservatori avevano messo in guardia sul rischio che quella decisione potesse indebolire chi in Iran aveva fortemente voluto l’accordo – i moderati di Rouhani, i più aperti al dialogo con l’Occidente – e rafforzare chi l’aveva invece sempre criticato – gli ultraconservatori. Rouhani aveva puntato molto sull’intesa, facendosi rieleggere nel 2017 con la promessa che la rimozione delle sanzioni avrebbe portato enormi benefici all’economia dell’Iran. Dopo il ritiro del 2018, però, Trump non si era limitato solo a reintrodurre le sanzioni tolte da Obama, ma ne aveva introdotte di nuove, dando un forte argomento agli ultraconservatori per accusare i moderati di “essersi fatti fregare” da un paese nemico.
Trump aveva adottato la strategia della “massima pressione”, che puntava a indebolire così tanto il regime iraniano da costringerlo a rinegoziare un nuovo accordo sul nucleare molto più favorevole rispetto a quello concluso da Obama, o da provocarne il definitivo crollo: è una strategia che però non sembra avere funzionato, e che anzi sembra avere provocato l’indebolimento delle fazioni politiche che vorrebbero cambiare l’Iran da dentro.
– Leggi anche: La strategia di Trump verso l’Iran ha funzionato?
La lista dei sette candidati approvata dal Consiglio dei Guardiani potrebbe non essere quella definitiva, perché la Guida suprema Ali Khamenei potrebbe decidere di intervenire e ammettere candidati esclusi (è già successo in passato). Una decisione di questo tipo potrebbe essere giustificata dal timore che moderati e riformatori, molto divisi al loro interno, possano decidere di boicottare le elezioni, indebolendo la legittimità del regime che sarà eletto: è un tema importante, visto che dal 1979 la teocrazia iraniana ha basato parte della propria legittimità proprio sulla partecipazione elettorale.
Le discussioni sui candidati e l’eventuale elezione di un nuovo presidente molto conservatore potrebbero avere conseguenze anche sui negoziati di Vienna sul nucleare iraniano. I colloqui in corso, iniziati durante l’amministrazione di Joe Biden, sono considerati molto importanti perché potrebbero portare alla reintroduzione dell’accordo del 2015, o all’approvazione di un’intesa simile: con un ulteriore indebolimento dei moderati, però, le possibilità che si arrivi a qualcosa sembrano essere molto sottili.