Perché certe parti ricrescono e altre no
Il New Yorker racconta i tentativi di attivare fenomeni di rigenerazione a partire dall’interpretazione dei segnali bioelettrici delle cellule
In biologia si parla di rigenerazione quando è possibile ristabilire un’integrità strutturale o fisiologica in tessuti, organi o parti del corpo di un individuo precedentemente danneggiate o mancanti a seguito di un’asportazione. Nel regno animale ne esistono numerosi esempi. Gli axolotl, una particolare salamandra messicana, sono in grado di rigenerare anche fino a cinque volte consecutive arti e organi integralmente amputati. I cervi possono rigenerare il tessuto osseo che forma i loro palchi, le appendici ramificate che hanno sulla testa e che perdono periodicamente dopo la stagione riproduttiva.
Negli esseri umani il fegato è un organo che può ricrescere in seguito a una lesione. La pelle e gli annessi cutanei come unghie e peli sono costantemente rinnovati e riparati. E i bambini possono rigenerare la punta delle dita, se la lesione si verifica entro i primi 7-11 anni di vita.
Non tutti gli organi o i tessuti umani si rigenerano, e in non tutti gli animali la rigenerazione avviene allo stesso modo o in modo completamente funzionale. Ci sono poi differenze a seconda dello stadio di sviluppo in cui si verificano le asportazioni. Le rane possono rigenerare la coda e gli arti quando si trovano allo stadio di girini ma non allo stadio adulto. Le salamandre sono invece note per le loro prolungate e sorprendenti capacità di rigenerazione e adattamento: non solo sono in grado di rigenerare arti e coda se amputati, ma se viene rimossa loro una gamba e poi viene innestata la coda al posto della gamba, la coda si trasforma in una gamba.
Un lungo articolo del New Yorker ha presentato alcuni sviluppi recenti della ricerca sulla rigenerazione e degli studi di biologia che se ne sono occupati prendendo in prestito dall’informatica categorie e schemi concettuali utili a comprendere alcuni meccanismi. Questi studi ruotano in particolare intorno al lavoro dell’autorevole biologo russo Michael Levin, docente all’Università Tufts, in Massachusetts.
La comprensione dei motivi dell’estrema variabilità dei fenomeni rigenerativi è uno degli obiettivi della medicina rigenerativa, la branca che studia i modi di ristabilire l’integrità dei tessuti e degli organi. Le ricerche di Levin rappresentano uno dei numerosi tentativi di dare risposta alla domanda se sia possibile estendere i programmi già attivi nel corpo umano ad altre parti del corpo eventualmente danneggiate, dagli arti fino al tessuto cerebrale danneggiato a seguito, per esempio, di un ictus.
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Gli studi di Levin
Nato in una famiglia di origini ebraiche, Levin si trasferì con i suoi genitori dall’Unione Sovietica a Lynn, Massachusetts, nel 1978, quando aveva nove anni. Suo padre era un programmatore di computer, e lo aveva già indirizzato verso lo studio della cibernetica. In seguito Levin si era interessato alla biologia – aveva allestito un rudimentale laboratorio nella camera da letto – e allo studio dei campi magnetici. Dopo la laurea in informatica all’Università Tufts – facoltà che scelse per soddisfare il suo desiderio di lavorare sull’intelligenza artificiale – conseguì una specializzazione in biologia e gestì un laboratorio di biologia dello sviluppo al Forsyth Institute a Harvard, prima di tornare in qualità di docente alla Tufts nel 2008.
Uno dei punti da cui partono le ricerche di Levin riguarda il modo in cui generalmente intendiamo il DNA: come le istruzioni per la costruzione di buona parte delle cellule. Nelle varie fasi di sviluppo di un girino, per esempio, specifici geni si attivano o non si attivano in modo da determinare il movimento e la disposizione delle diverse parti del muso – occhi, narici, mascella – fino a quando quel girino diventa una rana.
Alcuni esperimenti condotti qualche anno fa dal gruppo di ricerca di Levin hanno mostrato risultati sorprendenti. Ridisponendo nei girini le parti del corpo in modo disordinato e anormale – la mascella di lato, gli occhi più su, le narici da un’altra parte: Levin e i colleghi le chiamano “le rane-Picasso” – alla fine i girini diventavano rane con facce pressoché normali. In qualche modo quel sistema non è un insieme di movimenti programmati ma un sistema che cerca di «ridurre l’errore tra ciò che sta accadendo ora e ciò che sa essere una corretta configurazione della faccia di rana», ha recentemente spiegato Levin in una conferenza TED. Un simile sistema basato su un processo decisionale che implica risposte flessibili a nuove circostanze, secondo Levin, rientra peraltro in una definizione pienamente plausibile di «intelligenza».
I risultati di questo esperimento hanno indirizzato l’interesse scientifico di Levin non verso i movimenti delle cellule e l’espressione genica in sé, ma piuttosto verso i meccanismi di cooperazione tra le cellule e di condivisione di questo flusso di informazioni. Oltre che dalle forze fisiche e dai segnali biochimici studiati dalla ricerca tradizionale, sostiene Levin, le cellule sono interconnesse da una sorta di bioelettricità non neurale.
L’idea di fondo è che non soltanto le cellule del sistema nervoso bensì tutte le cellule del corpo comunichino tra loro mediante segnali elettrici, come attestato dagli «stati elettrici» rilevabili nelle prime ore di sviluppo degli embrioni di rana. «Fondamentalmente le cellule comunicano tra loro chi sarà la testa, chi la coda, chi farà gli occhi e il cervello, e così via», ha spiegato Levin. Per usare la stessa analogia utilizzata da Levin, è come se la bioelettricità fosse il software in esecuzione sull’hardware cellulare definito dal genoma. Ed è questo software a permettere che i sistemi viventi portino a termine obiettivi specifici, come per esempio quello di rigenerare un arto nel caso degli animali che lo fanno.
Comprendere il “linguaggio” basato su questi segnali bioelettrici – «craccarlo», dice Levin – permetterebbe di comprendere meglio i meccanismi di sviluppo degli organismi. Attraverso l’attivazione di particolari stimoli o input – ma senza bisogno di intervenire sul genoma, ossia l’“hardware” – si potrebbe indurre le cellule a fare qualcosa di completamente diverso da quello che avrebbero fatto altrimenti.
Gli esperimenti sulle planarie
Tra gli studi di Levin più citati ce ne sono alcuni basati su una serie di esperimenti sulle planarie, un genere di vermi piatti altamente rigenerativi, di circa due centimetri di lunghezza, che vivono sul fondo degli stagni.
Quando le planarie vengono divise in due parti, dalla testa mozzata cresce una nuova coda e dalla coda mozzata cresce una nuova testa. A prescindere dal numero di volte in cui viene divisa – i ricercatori sono arrivati fino a 279 pezzi da una singola planaria – la planaria formerà altrettanti nuovi vermi, perché ogni singolo pezzo sa quale parte manca e la ricostruisce. Manipolando alcune minuscole valvole presenti sulle membrane cellulari – i canali ionici, proteine che attraversano la membrana e controllano il flusso di ioni che entra ed esce dalla cellula – il gruppo di ricerca guidato da Levin è riuscito a indurre la formazione di due teste in un pezzo intermedio di planaria, altrimenti destinato a formare una testa e una coda.
Quello che Levin e i colleghi hanno fatto è stato variare il potenziale elettrico del pezzo di planaria, senza di fatto né applicare elettricità né modificare il genoma. Lo hanno fatto intervenendo sullo stesso sistema bioelettrico utilizzato dalle cellule come una sorta di Internet intercellulare. Intervenendo sulle proteine del canale ionico, ha spiegato Levin, è come se avessero «acceso e spento dei piccoli transistor che ogni cellula utilizza in modo nativo per impostare questo stato elettrico». E allo stesso modo è possibile attivare o disattivare una diversa «mappa elettrica» tale da portare alla formazione di due code e nessuna testa.
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La parte sorprendente degli esperimenti di Levin riguarda quello che capita a un verme a due teste nel momento in cui viene diviso in tre parti. Secondo un paradigma standard ci si aspetterebbe che la parte intermedia, recuperando una sorta di sequenza genomica in «memoria», diventi un verme con una testa e una coda. E invece le planarie a due teste continuano a rigenerarsi a due teste: «la memoria del modello secondo cui questi animali si rigenereranno dopo aver subìto il danno è stata riscritta in modo permanente», ha sottolineato Levin.
I risultati degli esperimenti con le planarie indicherebbero, secondo Levin, che le informazioni su come questi vermi devono rigenerarsi non sono nel genoma ma in uno «strato bioelettrico aggiuntivo» che può essere riscritto senza ricorrere a editing genetico. Esperimenti come quelli condotti sulle planarie hanno in seguito permesso ai ricercatori del gruppo di ricerca di Levin di pervenire agli stessi risultati anche con i girini. Manipolando specifici canali ionici di alcune cellule, hanno ricreato schemi elettrici in grado di indurre la formazione di organi perfettamente funzionali in sedi differenti – un occhio nell’area dello stomaco – rispetto a quelle previste dallo sviluppo normale.
In futuro, secondo Levin, un’approfondita conoscenza di questo «software fisiologico» del corpo basato su determinati schemi elettrici “riscrivibili” – un linguaggio non semplice da interpretare e padroneggiare, sottolinea il New Yorker – potrà permette di attivare determinate sottoprocedure in grado di portare alla costruzione di organi complessi. La possibilità di riscrivere la memoria del modello bioelettrico è infatti ritenuta da Levin essenziale per le prospettive che spalanca nella biomedicina, dal momento che «la maggior parte dei problemi – malformazioni congenite, malattie degenerative, invecchiamento, lesioni traumatiche, e persino il cancro – si riducono tutti a una cosa: le cellule non stanno costruendo cosa vorresti che costruissero».
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A volte un danno genetico, secondo Levin, può essere causato da un difetto nella comunicazione tra le cellule, un’interruzione della tensione bioelettrica. In uno studio del 2016, il gruppo di ricerca di Levin ha iniettato molecole cancerogene in embrioni di rana, scoprendo che in seguito le aree iniettate hanno prima perso la loro polarità elettrica e poi hanno sviluppato crescite tumorali. Quando i ricercatori hanno poi contrastato la depolarizzazione, le comunicazioni tra le cellule sono riprese e alcuni tumori sono scomparsi. Era come se le cellule tumorali avessero perso il filo della conversazione più ampia e avessero iniziato a riprodursi senza meta, senza cooperare con le cellule vicine, sintetizza il New Yorker descrivendo lo studio.
Il paradigma delineato dal lavoro di Levin è da alcuni giudicato sconvolgente in un ambito della ricerca scientifica che tende a concentrarsi prevalentemente sul modo in cui i geni dirigono la crescita. «Va ben oltre quel dogma per cui “un gene produce una proteina, e la proteina crea un fenotipo cellulare, e se comprendi geni e proteine hai capito tutto”», ha detto al New Yorker Tom Skalak, bioingegnere dell’Università della Virginia.
Le altre prospettive e le obiezioni
Il gruppo di ricerca di Levin all’Università Tufts ha inoltre condotto esperimenti basati su altre modalità di rigenerazione. In uno studio del 2018 la rigenerazione di un arto in una rana acquatica (Xenopus) è stata incentivata applicando intorno al moncone dove una volta la rana aveva una zampa un cinturino di plastica contenente progesterone, un ormone che altera il comportamento dei canali ionici.
Dopo aver lasciato attivo il “bracciale” per circa un giorno, sono stati monitorati i cambiamenti nella rana nell’arco di un anno. Anziché formare soltanto una punta cartilaginea, come sarebbe accaduto in assenza del cinturino, la rana ha rigenerato un arto completo e funzionale nel giro di circa nove mesi. Secondo Levin questo stesso bracciale potrebbe essere utilizzato in futuro anche sugli esseri umani, che lo indosserebbero per il tempo necessario ad avviare la rigenerazione.
Nessuno dei biologi sentiti dal New Yorker ha espresso dubbi riguardo alla prospettiva che un giorno sarà possibile far ricrescere gli arti umani, sebbene ci sia un certo disaccordo sui tempi e sui modi. Altri progetti attualmente in fase di studio in diversi ambiti della ricerca scientifica prevedono, per esempio, la crescita in laboratorio di parti del corpo da destinare al trapianto, la manipolazione dei geni regolatori principali, oppure l’utilizzo di cellule staminali negli arti residui. Non è escluso che una soluzione futura possa includere più di una tecnica.
Ma non tutti gli scienziati – ricorda il New Yorker citando la biologa Laura Borodinsky dell’Università della California a Davis e il biochimico Tom Kornberg dell’Università della California, San Francisco – concordano sul ruolo svolto dalla bioelettricità nella morfogenesi, l’insieme dei processi che conducono al differenziamento dei tessuti e degli organi a partire da elementi indifferenziati. In molti sostengono che i segnali bioelettrici siano soltanto una parte del complesso programma genetico che regola lo sviluppo della forma e della struttura di un organismo.
Secondo l’autorevole filosofo statunitense Daniel Dennett, tra i più citati autori contemporanei di studi di filosofia della mente e di scienze cognitive, peraltro collega di Levin alla Tufts, il sistema individuato da Levin non è mai inteso come l’unico esistente. Per permettere di comprenderlo meglio ha posto al New Yorker come esempio una partita a scacchi contro un computer. Ci sono diversi modi di vedere l’avversario: si può considerarlo come un contenitore metallico pieno di circuiti, o come un software di cui ispezionare il codice, o come un giocatore di cui analizzare le mosse.
I livelli di spiegazione nel caso del corpo umano, spiega Dennett, sono ancora di più: anatomico, biofisico, biochimico, biomeccanico, anatomico, psicologico e molti altri piani intermedi, e tutti agiscono insieme, ciascuno svolgendo un ruolo fondamentale. Quello bioelettrico è soltanto un piano tra gli altri.