I germi hanno fatto anche cose buone
Disinfezioni costanti, distanziamento e nuove abitudini socioculturali potrebbero alla lunga fare più male che bene, sostengono alcuni studi sul microbiota umano
Negli ultimi mesi la possibilità di trarre indicazioni da studi più estesi sulle modalità di trasmissione del coronavirus – che, si è scoperto, avviene prevalentemente per via aerea – ha permesso a ricercatori ed esperti di riflettere tra le altre cose sugli effetti di alcune pratiche di pulizia e sanificazione costanti delle superfici nei luoghi pubblici e negli spazi domestici. A parte un’attenzione probabilmente eccessiva dedicata globalmente alle pratiche di igienizzazione, sono emerse nelle ultime settimane altre considerazioni preoccupate riguardo agli effetti a lungo termine sulla mutata esposizione ai microbi a causa dell’isolamento e delle altre misure di sicurezza, dei nuovi stili di vita e della sterilizzazione costante di corpi e spazi.
Gli scienziati che si occupano di biologia molecolare e patrimonio genetico si riferiscono da anni ai microrganismi ospitati da ogni essere umano (microbiota umano) e ai geni che l’insieme di quei microrganismi esprime (microbioma) come a un “secondo genoma”: importante almeno quanto il primo – quello ereditato dai genitori – nel determinare gli stati di salute o di malattia nell’individuo.
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L’idea alla base di questi recenti studi scientifici è che ciascuno di noi sia una sorta di sofisticato “contenitore” di comunità microbiche – trilioni e trilioni di germi – che interagiscono tra loro. Alcuni esperti temono ora che molte delle misure introdotte e sostenute durante la pandemia – oltre a un uso disinvolto e talvolta inappropriato di farmaci antibiotici – possano a lungo andare indebolire il microbiota e rivelarsi controproducenti.
Nel 2020 la vendita di disinfettanti per le mani negli Stati Uniti è cresciuta del 600 per cento. Alcuni produttori di disinfettanti hanno pianificato la costruzione di nuove fabbriche e strutture per i prossimi dieci anni, prevedendo che certe nuove abitudini della popolazione rimarranno anche dopo la pandemia.
In diversi casi le pratiche di sanificazione frequente delle superfici sono state mantenute anche una volta chiarito che le possibilità di contagiarsi dopo essere entrati in contatto con qualcosa di appena contaminato sono ridotte. In mancanza di un contatto diretto per via aerea, hanno spiegato i ricercatori, il rischio di contrarre il virus rimane basso: meno di un caso su 10 mila, secondo stime delle autorità sanitarie statunitensi.
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«Continuiamo ad annientare ogni microbo in mezzo a noi anche se la maggior parte è innocua», ha scritto recentemente in un intervento sul New York Times il giornalista scientifico Markham Heid, che si è a lungo occupato di studi e dibattiti sul microbiota. Come prova dello stato attuale di persistenti attenzioni rispetto ai rischi di trasmissione del coronavirus, Heid ha citato il protocollo di pulizia quotidiana della metropolitana di New York tramite luce ultravioletta, varie soluzioni disinfettanti e nebulizzatori a induzione elettrostatica.
All’inizio della pandemia, secondo Heid, in assenza di una sufficiente quantità di informazioni, a molti appariva ragionevole disinfettare quanto più possibile, persino i sacchetti della spesa e le confezioni di generi alimentari. Sulla base degli effetti noti dei detergenti è possibile stimare che un’accurata pulizia delle superfici rimuova in genere tra il 90 e il 99,9 per cento di virus e batteri. «Stiamo iniziando a renderci conto che c’è un danno collaterale nel liberarci di microbi buoni, e che questo ha importanti ricadute sulla nostra salute», ha detto al New York Times Brett Finlay, docente canadese di microbiologia e immunologia presso l’Università della Columbia Britannica.
Finlay è uno degli autori di un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) riguardo alla sovrapposizione degli effetti della pandemia su un «declino» della diversità microbica già in corso da anni, in parte riconducibile agli stili di vita tipici dei contesti urbani e all’utilizzo a volte inappropriato di antibiotici. Tra le persone più vulnerabili rispetto alla COVID-19, scrivono i ricercatori, ci sono peraltro individui che presentano problemi di salute – fattori di rischio come il diabete di tipo 2 e l’obesità – associati in altri studi ad anomalie e squilibri del microbiota stesso.
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Si ritiene che la relazione del nostro corpo con i batteri sia un fenomeno estremamente complesso. È noto che quelli infettivi possono causare malattie, ma esistono nel corpo altri batteri “buoni” in grado di favorire i processi di nutrizione e aiutare l’organismo a rimanere in salute. E questi stessi batteri possono a loro volta avere effetti negativi, se finiscono in organi o in tessuti in cui non dovrebbero trovarsi. L’effetto pandemico dell’interferenza con le interazioni che i microrganismi hanno con le cellule immunitarie della nostra pelle, ha spiegato lo stesso Finlay all’Atlantic, «non è manifestamente buono né manifestamente cattivo, ma è manifestamente diverso da zero».
«Dal momento in cui nasciamo il nostro sistema immunitario è impostato in modo da imparare il più possibile a distinguere il buono dal cattivo», ha detto Matthew Bettini, docente di patologia all’Università dello Utah. Bettini è uno degli autori di uno studio recente, pubblicato sulla rivista Nature, che descrive la prima infanzia come uno dei momenti critici in cui il sistema immunitario impara a riconoscere i batteri intestinali stabilendo una sorta di sorveglianza per tenerli sotto controllo. «È una finestra in cui il microbiota intestinale ha accesso al processo di educazione immunitaria», ha spiegato Bettini.
Eventuali malfunzionamenti di questi meccanismi di «addestramento immunitario», affermano i ricercatori, potrebbero in seguito indurre il sistema immunitario ad attaccare i batteri “buoni” nel posto sbagliato, causando per esempio l’infiammazione cronica responsabile delle malattie infiammatorie intestinali (inflammatory bowel disease, IBD). In uno degli esperimenti condotti sui topi durante lo studio, i ricercatori hanno scoperto che i gruppi popolati da ceppi di batteri Escherichia coli in giovane età avevano una probabilità sei volte maggiore di sopravvivere a una dose letale di salmonella – il batterio che causa la salmonellosi – più avanti nella loro vita. I risultati suggeriscono che la costruzione di un’immunità del microbiota potrebbe fornire anche protezione contro batteri nocivi che il corpo deve ancora incontrare.
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Quasi tutto quello che sappiamo sul microbiota è incerto, ha chiarito Heid, autore dell’articolo sul New York Times, a cominciare dal modo in cui le nostre attività e l’ambiente in cui viviamo influenza la composizione del microbiota. È tuttavia condivisa da diversi studiosi, incluso Finlay, il docente canadese di microbiologia e immunologia coautore dello studio su PNAS, l’opinione che la nostra salute collettiva – terminata la pandemia – dipenderà dalla nostra disponibilità a mettere da parte detergenti e disinfettanti, e a moderare l’uso di farmaci che uccidono i batteri. In altre parole: servirà riacquisire familiarità con quelle precedenti abitudini, capaci di nutrire il nostro ecosistema microbico.
Secondo Graham Rook, docente di microbiologia medica alla University College London sentito dal New York Times, il nostro sistema immunitario è come un computer, e i microbi che incontriamo ogni giorno sono i dati a partire dai quali il sistema programma e regola il suo funzionamento. La mancata esposizione ai “dati”, specialmente nei primi anni di vita, può provocare malfunzionamenti del sistema secondo dinamiche oggetto di studi in corso e ancora poco conosciute. Attualmente non è escluso che problemi di salute come allergie, asma, malattie autoimmuni, obesità e diabete di tipo 2 possano avere un’origine in parte legata a questo genere di malfunzionamenti.
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Gli studi più recenti sul microbiota sostengono l’ipotesi che i nostri germi, oltre che “allenare” il sistema immunitario, svolgano un ruolo essenziale nella produzione di molecole che influenzano il funzionamento di ogni nostra cellula. Microbi che si trovano nell’intestino potrebbero, secondo queste ricerche, condizionare le funzioni del midollo spinale e quelle di organi anche molto lontani dalla parte del corpo in cui vivono. Senza contare che altre comunità microbiche coinvolte nel rafforzamento dei tessuti e nel mantenimento dello stato di salute dell’individuo si trovano anche sulla pelle e in organi diversi dall’intestino.
In questo senso, ha spiegato Heid sul New York Times, il corpo umano è «come una foresta pluviale: ospita un vasto e simbiotico ecosistema di organismi». E quando questo ecosistema viene modificato ci sono conseguenze. L’uso sconsiderato di antibiotici – farmaci in grado di eliminare alcuni agenti patogeni ma, allo stesso tempo, anche i batteri sani nel corpo – è un altro dei fattori rilevanti nell’indebolimento del microbiota. Secondo un’analisi dell’organizzazione non profit statunitense Pew Charitable Trusts, più della metà dei pazienti COVID-19 ospedalizzati negli Stati Uniti nei primi sei mesi della pandemia, tra quelli presi in considerazione dall’analisi, ha ricevuto cure antibiotiche in situazioni in cui gli effettivi benefici di quei farmaci erano incerti.
Fortunatamente, questa tendenza è progressivamente regredita man mano che i medici hanno appreso come trattare il coronavirus. Ma anche prima della pandemia, ha detto Finlay al New York Times, l’utilizzo degli antibiotici non era sempre del tutto appropriato rispetto alle circostanze. Quanto agli eccessi di disinfezione e pulizia delle superfici durante la pandemia, secondo Finlay, non è chiaro se queste abitudini possano non soltanto privare le persone delle interazioni con batteri “buoni”, ma persino comportare l’estinzione di alcuni microbi essenziali. «Questo è il più grande esperimento del secolo, e sfortunatamente abbiamo più domande che risposte», ha detto Finlay.
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A parte l’eccesso di sterilizzazione e gli usi impropri degli antibiotici, alcune preoccupazioni riguardano in generale anche le nuove abitudini e la diminuita inclinazione di molte persone a comportarsi come prima. Le misure introdotte nell’ultimo anno un po’ dappertutto per cercare di ridurre i rischi di contagio hanno in molti casi sconsigliato pratiche socioculturali piuttosto comuni, molte delle quali – abbracci, strette di mano, baci – rientrano nei gesti compiuti senza nemmeno pensarci. «Questo tipo di pratiche potrebbe svolgere un ruolo nello scambio di microbi», ha detto Tamara Giles-Vernick, antropologa medica alla fondazione francese non profit Istituto Pasteur di Parigi e coautrice dello studio pubblicato su PNAS.
Non tutti gli studiosi ritengono negativi, e men che meno irreversibili, gli effetti della pandemia sul microbiota umano. Secondo Martin Blaser, direttore del Centro di biotecnologia avanzata e medicina alla Rutgers University, in New Jersey, il fatto che le restrizioni abbiano indirettamente limitato la circolazione di altri virus ha fatto venire meno molte delle condizioni in cui di solito le persone assumono farmaci antibiotici in modo inappropriato. Inoltre Blaser ritiene che il discorso sull’indebolimento del microbiota abbia meno senso nel caso di adulti e bambini più grandi, che in genere hanno basi microbiche più resistenti e meno suscettibili di alterazioni radicali dovute all’ambiente o, al contrario, alla limitata interazione con l’ambiente.
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Anche diversi esperti di malattie infettive non concordano sull’idea che una stretta di mano possa contribuire in modo significativo alla salute del microbiota. Sostengono che evitare certe interazioni possa invece rappresentare un importante vantaggio nella misura in cui riduce il rischio di esposizione ad agenti patogeni, anche a costo di ridurre il contatto con microrganismi sani. «Ho sempre pensato che le persone non facciano abbastanza per prevenire il raffreddore e l’influenza, e quindi in un certo senso molti di questi cambiamenti sono stati salutari», ha detto al New York Times Jo Handelsman, docente di malattie infettive all’Università del Wisconsin-Madison. Le misure introdotte per ridurre la circolazione del coronavirus, concordano gli esperti, hanno contribuito a spezzare le catene di trasmissione per tutti i tipi di agenti patogeni, inclusi i virus del raffreddore e dell’influenza, i cui casi di infezione registrati durante l’inverno scorso sono risultati ai minimi storici recenti.
In questo momento, considerando che una percentuale significativa della popolazione non è ancora stata vaccinata ed è quindi a rischio di contrarre forme gravi di COVID-19, le misure di distanziamento fisico sono ancora considerate essenziali dalla comunità scientifica. È poi consigliabile e prudente, sempre e in qualsiasi caso, lavare le mani prima di mangiare. Ma a parte queste pratiche note, è molto difficile secondo gli scienziati suggerirne alcune che siano universalmente appropriate: variabili come l’età delle persone, il loro stato di salute, l’area in cui si trovano contribuiscono tutte a cambiare il rapporto tra i rischi e i benefici di ciascuna.
Chi insiste sull’importanza del microbiota, come il microbiologo canadese Finlay, fa notare che prima della pandemia l’influenza era l’unica malattia infettiva tra le prime dieci cause di morte negli Stati Uniti. Per il resto c’erano malattie cardiache e cerebrali, ictus, cancro, diabete e altre patologie citate negli studi sulle disfunzioni del microbiota. «Cercare di sterilizzare tutto e creare questi ambienti artificialmente privi di germi probabilmente non è essenziale, e con le persone a voi vicine, se siete vaccinati sia voi che loro, penso sia ok avvicinarsi di nuovo e abbracciarsi», ha detto Marsha Wills-Karp, presidente del dipartimento di salute ambientale e ingegneria alla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, a Baltimora.