4 risposte sul cessate il fuoco tra Israele e Hamas
Ad altrettante domande sull'efficacia della tregua, sulle questioni non risolte e sui vincitori della guerra
Giovedì sera Israele e Hamas, il gruppo radicale palestinese che governa di fatto la Striscia di Gaza, hanno annunciato di avere raggiunto un accordo per un cessate il fuoco dopo undici giorni di guerra, durante i quali sono stati uccisi 232 palestinesi e 12 israeliani. Il cessate il fuoco, che è stato mediato dall’Egitto, è entrato in vigore questa notte alle 2 ora locale (l’una ora italiana), e per il momento sembra reggere: per capire la sua importanza, e le sue possibili conseguenze, ci sono da tenere a mente quattro cose.
Quanto sarà efficace e rispettato?
Per il momento il cessate il fuoco sta funzionando: da questa notte non ci sono più stati lanci di razzi dalla Striscia verso Israele, né bombardamenti israeliani sulla Striscia. Non è detto però che questa situazione sia definitiva, per due ragioni.
La prima è che i cessate il fuoco sono per definizione accordi limitati alla sospensione dei combattimenti, di solito adottati come primo passo verso un qualche tipo di risoluzione più ampia del conflitto: sono quindi molto precari e anche una piccola violazione di una delle due parti potrebbe provocare la ripresa dei combattimenti.
La seconda è che sia Israele che Hamas hanno già messo in chiaro che la situazione potrebbe cambiare rapidamente. L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, della destra nazionalista, ha specificato che «la realtà sul campo di battaglia determinerà il proseguo della campagna [militare]», alludendo quindi alla possibilità di riprendere i combattimenti, se dovessero esserci le circostanze. In maniera simile, uno dei portavoce di Hamas, Taher al Nono, ha detto che «la resistenza palestinese rispetterà l’accordo fino a che lo rispetterà l’occupante [Israele]».
Chi ha vinto?
Sia Israele che Hamas hanno sostenuto di avere vinto la guerra, e in un certo senso, se si considerano i limitati obiettivi delle due parti all’inizio del conflitto, potrebbe essere vero.
Il governo israeliano si era prefissato di ridurre in maniera significativa sia l’arsenale di Hamas e del Jihad Islamico, altro gruppo armato palestinese, sia la loro capacità di costruire armi in autonomia nel territorio della Striscia. Dall’ultima guerra, combattuta nel 2014, Hamas era infatti riuscito a espandere in maniera significativa il suo arsenale, grazie soprattutto all’appoggio di Siria e Iran. Israele ha detto di avere colpito diverse fabbriche di armi e di avere danneggiato pesantemente l’estesa rete di tunnel che si sviluppa sotto la Striscia, usata per il trasferimento di beni e armi, oltre che come rifugio per i leader dei gruppi armati locali. Ha sostenuto inoltre di avere ucciso decine di leader dei gruppi palestinesi.
Dal canto suo, Hamas ha usato il conflitto per consolidare la propria posizione all’interno della politica palestinese, mettendo ai margini Fatah, la fazione moderata che di fatto controlla l’Autorità Palestinese, che governa in Cisgiordania.
Era stato Hamas a infiltrarsi nelle proteste a Gerusalemme contro gli sfratti delle famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, e ad alimentare gli scontri successivi al violento intervento della polizia israeliana alla moschea di al Aqsa nel complesso della Spianata delle Moschee; ed era stato sempre Hamas a lanciare i primi razzi verso Gerusalemme, superando una specie di “linea rossa” imposta da Israele. In altre parole, Hamas aveva cercato la guerra pur sapendo di non poterla vincere dal punto di vista militare (la superiorità militare israeliana infatti è netta), perché il suo obiettivo principale era un altro: imporsi come prima forza all’interno del movimento palestinese.
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Hamas dovrà comunque occuparsi della ricostruzione di Gaza, e non sarà facile, anche a causa del durissimo embargo imposto da Israele sulla Striscia che limita l’importazione di beni e materiali da costruzione.
Netanyahu ne è uscito più forte di prima?
La risposta più immediata è “sì”, anche se ci sono da fare due osservazioni.
“Sì” perché prima dell’inizio della guerra, Netanyahu non stava passando un gran momento: aveva appena fallito nei suoi tentativi di formare un governo e i suoi rivali stavano cercando un accordo per far diventare nuovo primo ministro Naftali Bennet, leader del partito Yamina. Inoltre, con l’apertura dei tribunali dopo le restrizioni imposte per la pandemia da coronavirus, stava per riprendere a pieno ritmo il processo contro di lui per corruzione. In questo senso la guerra è stata una grande opportunità politica per Netanyahu, perché ha costretto molti dei suoi avversari politici ad appoggiare pubblicamente l’azione militare decisa dal suo governo, e allo stesso tempo ha trovato sostegno nella rabbia della destra israeliana, che da tempo domina il dibattito nel paese.
Ci sono comunque due cose da tenere a mente. La prima è che la guerra ha accelerato e intensificato tensioni già presenti in Israele, che si sono trasformate in aperta violenza negli ultimi giorni: cioè quelle tra arabi ed ebrei israeliani, che hanno sorpreso il governo Netanyahu e che potrebbero avere conseguenze ben al di là della fine del conflitto. La seconda è che l’accordo sul cessate il fuoco ha attirato sul primo ministro le critiche feroci della destra più radicale israeliana, molto influente nel paese, che ha accusato Netanyahu di avere interrotto i bombardamenti troppo presto.
Sono rimaste aperte delle questioni?
Praticamente tutte le questioni aperte all’inizio della guerra sono rimaste tali, come del resto si aspettava la stragrande maggioranza degli esperti e analisti. In particolare erano due le cause scatenanti della guerra: l’intervento violento della polizia israeliana dentro e fuori la moschea di al Aqsa e lo sfratto di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est.
Le due questioni sono legate a conflitti più profondi, non risolvibili tramite una guerra come quella appena combattuta. Lo status quo nella Spianata delle Moschee è una delle ragioni più importanti di scontro tra ebrei e palestinesi, ed è stato messo in discussione più volte negli ultimi anni: la più celebre avvenne quando l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon entrò nella Spianata delle Moschee in segno di provocazione, provocando nel 2001 la seconda intifada, una ribellione di massa dei palestinesi contro l’occupazione israeliana. Anche lo sfratto delle famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah è legato a complesse dispute territoriali che vanno avanti da decenni, a loro volta legate all’enorme tema del “diritto di ritorno”, cioè il diritto di rientrare in possesso delle proprie case che si era stati costretti a lasciare nel 1948 durante la prima guerra arabo-israeliano (diritto garantito da una legge israeliana in vigore dal 1970 agli ebrei israeliani, ma vietato ai palestinesi).
Dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Hamas ha sostenuto che Israele aveva accettato di fermare le operazioni di polizia nella Spianata delle Moschee e di rinunciare agli sfratti delle famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah. Israele ha però negato e un funzionario egiziano ha detto ad Associated Press che le tensioni a Gerusalemme verranno affrontante in un secondo momento (ma non è detto che avverrà).