Trent’anni fa i croati votarono per l’indipendenza
In un referendum dall'esito schiacciante che fu un ulteriore passo verso la dissoluzione della Jugoslavia, e le guerre che seguirono
Il 19 maggio 1991, trent’anni fa, i croati furono chiamati a votare per un referendum. Nei quesiti non si faceva un riferimento troppo esplicito all’indipendenza dalla Jugoslavia, a cui allora la Croazia era unita insieme alle altre repubbliche socialiste balcaniche, ma la questione venne presentata come una scelta tra rimanere nella federazione e formare una confederazione, cioè un’alleanza di stati sovrani insieme alle altre repubbliche socialiste. Il 22 maggio la commissione elettorale contò i voti di oltre 3 milioni di croati che risposero con una maggioranza schiacciante – il 93,24 per cento – di sì al primo quesito, che si trovava su una scheda blu e recitava:
Sei tu favorevole alla Repubblica di Croazia che, da stato sovrano e indipendente, garantisce autonomia culturale e tutti i diritti civili ai serbi e alle altre nazionalità in Croazia e sia libera di formare un’associazione di stati sovrani con le altre ex repubbliche jugoslave?
La causa principale che spinse a indire il referendum il presidente croato Franjo Tudjman, eletto il dicembre dell’anno prima e leader di un partito nazionalista, fu ciò che era avvenuto pochi mesi prima in Slovenia, dove a seguito di un’altra consultazione popolare il parlamento sloveno aveva dichiarato di volersi separare dalla Jugoslavia nel giro di sei mesi. Ma tanto il referendum sloveno quanto quello croato ebbero a loro volta cause legate alla complessa situazione dei Balcani di quel periodo storico, in cui si stava preparando la dissoluzione della Jugoslavia.
La Jugoslavia comunista esisteva dalla fine della Seconda guerra mondiale, costituita in sostituzione del vecchio regno jugoslavo in seguito alle elezioni vinte dalla Lega dei Comunisti di Jugoslavia, ed era composta da sei repubbliche e due province autonome. Fino al 1980 era apparsa un’entità compatta grazie alla guida del maresciallo e dittatore Tito, ma dopo la sua morte le antiche divisioni etniche, culturali, religiose e sociali che caratterizzavano la regione balcanica da centinaia di anni riemersero con forza.
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Oltre alle sotterranee divisioni storiche tra i popoli slavi, contribuirono anche altri fattori: la progressiva perdita di rilevanza a livello internazionale del comunismo, che fino a quel momento era stato il principale collante tra le repubbliche socialiste balcaniche, e una grave crisi economica iniziata tra gli anni Settanta e Ottanta e mai risolta; per tutte queste ragioni alcuni partiti locali colsero l’occasione per concretizzare le loro istanze indipendentiste, trovando però la feroce opposizione del presidente della Jugoslavia, il serbo Slobodan Milosevic.
Il 25 giugno 1991 il parlamento croato dichiarò l’indipendenza, in accordo con l’esito del referendum del mese precedente. La reazione di Milosevic non si fece attendere: mandò l’esercito jugoslavo a invadere la Croazia, la quale aveva messo insieme un esercito raffazzonato con l’aiuto dell’intelligence americana e acquistando armi dall’Ungheria. All’esercito si arruolarono migliaia di volontari, tra cui l’intellettuale Slobodan Praljak, che fu subito nominato generale e inviato al confine con la repubblica serba, dal quale l’esercito nazionale jugoslavo si preparava all’invasione con i suoi aerei e i suoi mezzi pesanti.
Sulla carta lo scontro avrebbe dovuto avere un esito scontato: un esercito regolare dotato di armamenti moderni contro una milizia popolare, raccolta in tutta fretta e armata con equipaggiamenti di seconda mano. Fin dal primo momento però l’esercito jugoslavo, formato soprattutto da coscritti serbi e montenegrini, subì un numero altissimo di diserzioni. Il morale delle truppe era bassissimo e in pochi avevano voglia di farsi uccidere in nome della Jugoslavia, uno stato che sembrava già condannato. L’esercito jugoslavo non riuscì a sfondare e dopo circa tre mesi di combattimenti il fronte divenne stabile.
La guerra continuò a intermittenza e a bassa intensità negli anni successivi, anche perché il cuore delle ostilità si era spostato in un altro luogo, in Bosnia-Erzegovina, dove c’erano i maggiori conflitti etnici della regione, intrecciati anche a questioni religiose. All’inizio della guerra, nel 1991, i croati e i musulmani bosniaci, i bosgnacchi, erano alleati contro i serbi. Ma nel corso del 1992 una serie di tensioni iniziarono a svilupparsi tra il governo della Repubblica di Bosnia, dominato dai bosgnacchi, e i leader delle comunità croato-bosniache nella parte occidentale del paese.
Dopo una serie di incidenti, il conflitto divenne aperto e le milizie della comunità croato-bosniaca (HVO), appoggiate dall’esercito regolare croato, iniziarono a scontrarsi con l’esercito e le milizie bosgnacche. Gli scontri furono particolarmente brutali: nell’attaccare le città, i croato-bosniaci fecero spesso un uso indiscriminato dell’artiglieria, colpendo obiettivi militari e civili. Viene particolarmente ricordato, per esempio, il bombardamento dell’antico ponte della città di Mostar, che era stato costruito nel 1557 e venne distrutto il 9 novembre 1993. Per le atrocità commesse durante i combattimenti, nel 2017 Praljak fu condannato dal Tribunale internazionale dell’Aia. Subito dopo la condanna si uccise ingerendo una fiala di veleno.
Il conflitto in Bosnia-Erzegovina si concluse nel 1995, anche per via dell’intervento della NATO, con gli Accordi di Dayton a cui parteciparono Tudjman, Milosevic e il presidente della Repubblica di Bosnia-Erzegovina Alija Izetbegovic. Gli Accordi comunque non risolsero i conflitti: Sarajevo rimase sotto assedio fino al 29 febbraio 1996.
Tudjman viene spesso ricordato dalla retorica nazionalista croata come l’uomo a cui i croati devono l’indipendenza, e infatti nel paese è diventato un’icona e ci sono vari monumenti che lo ricordano. Tuttavia il giudizio di molti, in particolare gli storici che ne hanno studiato l’esperienza politica, è più critico, a causa del suo atteggiamento autoritario e del ruolo che ebbe la Croazia nella guerra in Bosnia-Erzegovina. Ivo Goldstein, professore all’Università di Zagabria, lo accusa di aver preferito lo «sciovinismo» a un più sano «nazionalismo», e parlando con il sito Balkan Insight ha spiegato: «In merito al perseguimento dei valori che hanno tutte le democrazie liberali, Tudjman ci ha sempre portati indietro invece che avanti».
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