I molti compromessi di Apple col governo cinese
L'azienda ha costruito il suo successo sulla Cina, che ora presenta un conto salato in termini di privacy e diritti umani
Apple è diventata una delle aziende più ricche e potenti al mondo grazie alla Cina, dove produce buona parte dei propri prodotti e dove genera circa un quinto dei propri ricavi. Ogni giorno centinaia di migliaia di nuovi iPhone, iPad e Mac vengono assemblati nelle fabbriche cinesi per essere poi distribuiti in tutto il pianeta. Il sistema produttivo è stato affinato e potenziato da Apple negli ultimi 20 anni, ma ciò ha comportato avere rapporti sempre più stretti con il governo cinese e la necessità di trovare compromessi sulle richieste di censura e di controllo delle attività degli utenti in Cina.
Un lungo articolo del New York Times mostra come negli ultimi anni Apple abbia fatto numerose concessioni al governo cinese, accogliendo richieste di censura e riducendo le garanzie per impedire che i dati dei suoi utenti in Cina possano essere controllati dalle autorità del paese. L’azienda sostiene di applicare semplicemente le leggi locali, ma nel farlo viene comunque meno ai principî che promuove in Occidente sulla libertà di espressione e la tutela della privacy e dei dati personali.
Senza alternativa
Tra i primi a ritenere indispensabile la Cina per il futuro di Apple ci fu Tim Cook, uno dei più stretti collaboratori del cofondatore dell’azienda Steve Jobs e suo successore come CEO. Dopo i successi dei primi modelli degli iPhone, Cook lavorò per potenziare la capacità produttiva in Cina, sfruttando la forte espansione del settore industriale nel paese resa possibile dai grandi investimenti governativi. Affidando alle aziende cinesi la produzione dei dispositivi in tempi molto rapidi, Cook fu in grado di riorganizzare il sistema di distribuzione e vendita, passando a un modello in cui i prodotti sono assemblati e venduti velocemente senza la necessità di avere magazzini di grandi dimensioni.
Nessun altro paese avrebbe potuto offrire simili capacità produttive a prezzi così convenienti, ma negli anni Apple si sarebbe trovata in una posizione via via più scomoda: consapevole della stretta dipendenza dell’azienda dalla Cina, le autorità cinesi iniziarono a chiedere via via più concessioni e compromessi, andando spesso contro le politiche sostenute dalla stessa Apple.
Negli ultimi anni l’azienda ha provato a estendere la propria produzione avviando stabilimenti in altri paesi asiatici e in India, ma i più grandi e importanti siti produttivi per i suoi iPhone e gli altri dispositivi continuano a essere in Cina, senza contare le notevoli opportunità di mercato per la vendita dei prodotti e dei servizi online nel paese.
Controllo dei dati
Le prime serie difficoltà emersero intorno al 2016, quando il governo cinese approvò una legge che rendeva obbligatoria la conservazione in Cina di tutte le informazioni personali degli utenti raccolte sul territorio cinese. Il problema riguardava tutte le aziende straniere attive nel paese, ma era particolarmente sentito da Apple visti gli stretti rapporti commerciali e la dipendenza dagli stabilimenti cinesi per la produzione dei suoi dispositivi.
Dopo un confronto interno, Apple acconsentì a trasferire tutti i dati dei propri utenti cinesi in Cina, affidando la gestione di questi ultimi a una società appaltatrice cinese controllata dal governo. La scelta, secondo la ricostruzione del New York Times, derivò dal fatto che le leggi statunitensi impediscono di cedere dati alla Cina, divieto che Apple avrebbe evitato coinvolgendo un’altra società registrata direttamente nel paese.
I server del centro dati sono impiegati per gestire gli account cinesi di iCloud, il servizio di Apple per salvare online i propri contatti, le fotografie e gli stessi backup degli iPhone e degli altri dispositivi Apple. A differenza di quanto fa negli altri paesi, l’azienda ha inoltre acconsentito a mantenere le chiavi per decodificare i salvataggi negli stessi centri dati in Cina, la cui gestione è affidata a un’azienda di proprietà del governo.
Secondo diversi esperti e alcuni dipendenti di Apple, queste concessioni rendono di fatto possibile il controllo dei dati degli utenti cinesi da parte delle autorità della Cina, senza che sia necessario un intervento diretto da parte dell’azienda. Apple ha negato questa circostanza, dicendo di avere comunque il controllo delle chiavi per la decodifica dei file e di non avere «compromesso» la sicurezza dei dati per gli utenti in Cina.
Apple ha dichiarato di avere fornito in nove casi informazioni su altrettanti account iCloud, in seguito ad alcune richieste da parte del governo cinese. Non è però chiaro quante siano state le richieste ricevute negli ultimi anni, né se in altre circostanze il governo cinese abbia provveduto in autonomia ad accedere ai dati per i quali aveva interesse. La richiesta di informazioni su singoli account viene formulata spesso dai governi anche in Occidente, ma le aziende tecnologiche hanno maggiori garanzie per opporsi alle richieste che non ritengono motivate, coinvolgendo poi la magistratura per risolvere i casi più controversi.
App Store
Oltre alle concessioni sull’accessibilità ai dati, Apple in questi anni ha elaborato una propria burocrazia interna per bocciare o rimuovere le applicazioni dal suo App Store che potrebbero violare le regole del governo cinese, o causare irritazioni tra i suoi funzionari. Gli impiegati che si occupano della versione cinese dell’App Store ricevono una formazione per badare a particolari caratteristiche delle applicazioni. Oltre ai contenuti di norma vietati da Apple in tutti i paesi, come quelli pornografici, nel caso della Cina sono previste limitazioni per le app che si occupano delle violente repressioni di piazza Tienanmen, dell’indipendenza del Tibet, dei contenziosi con Taiwan e di particolari movimenti religiosi.
Apple sembra mantenere un ruolo per lo più proattivo, teso ad anticipare le richieste del governo cinese, in modo da non avere direttamente problemi con la censura. Nel 2018, comunque, il governo della Cina chiese ad Apple di non approvare un’applicazione sviluppata da Guo Wengui, un miliardario che aveva accusato i funzionari cinesi di corruzione. I dirigenti di Apple decisero di inserire Guo in una lista di «contenuti sensibili per la Cina», che viene utilizzata dai software dell’azienda per controllare che particolari termini e argomenti non siano presenti sulle applicazioni che vengono destinate al mercato cinese.
In una circostanza il filtro non funzionò a dovere, rendendo possibile il download di un’applicazione realizzata da Guo. I dirigenti di Apple se ne accorsero, rimossero rapidamente l’app e poi avviarono un’indagine che portò al licenziamento di un impiegato che si era occupato della revisione prima dell’approvazione.
In generale, la quantità di applicazioni rimosse dall’App Store cinese non sembra avere pari rispetto alle normali attività di controllo esercitate in altri paesi dall’azienda. Il New York Times ha stimato che dal 2017 siano sparite almeno 55mila applicazioni dall’App Store in Cina, nonostante molte di queste continuino a essere disponibili negli altri paesi. Oltre 35mila di queste app erano giochi per i quali la Cina richiede un’approvazione dalle autorità, mentre le altre 20mila coprivano diverse categorie, comprese applicazioni per gestire e organizzare manifestazioni, app per incontri, per scambiarsi messaggi e per leggere notizie pubblicate da testate estere.
Apple sostiene che in diversi casi siano stati gli stessi sviluppatori a rimuovere le loro applicazioni, e ha inoltre segnalato di avere ricevuto molte meno richieste di rimozione da parte delle autorità cinesi di quanto emerga dalle stime del New York Times. La discrepanza dei dati è probabilmente dovuta dal fatto che Apple fornisce solo statistiche sulle richieste di rimozione da parte dei governi, mentre non offre molte informazioni sulle applicazioni che decide di rimuovere direttamente, anche in assenza di una richiesta dall’esterno.
Rapporti difficili
Spesso descritta come “la fabbrica del mondo”, la Cina è un partner commerciale essenziale per molte aziende occidentali che producono negli stabilimenti cinesi buona parte dei loro prodotti. Molte di queste, come Apple, hanno una stretta dipendenza dal paese per condurre i loro affari e negli ultimi anni il governo cinese ha sfruttato la circostanza per fare richieste e imporre condizioni, sapendo di poter fare leva sugli interessi economici e in alcuni casi sulle stesse possibilità di esistenza delle aziende che hanno spostato in Cina buona parte della loro produzione.
Per la maggior parte delle società i problemi sono per lo più legati alla violazione dei diritti dei lavoratori da parte delle aziende cui affidano la produzione dei loro prodotti, mentre per altre a questi temi si aggiungono quelle della tutela della privacy e dei diritti umani dei loro clienti. Lo sanno bene alcune grandi aziende tecnologiche occidentali come Google, che nel 2010 ha deciso di non censurare più i contenuti sulla versione cinese del proprio motore di ricerca, portando di fatto alla sua messa al bando nel paese. Da allora la società ha cercato più volte di riattivare alcuni servizi, ma senza particolari progressi e incontrando una forte resistenza da parte dei propri impiegati.