Sandali, certose, pietre, assetati, santi e demoni
«Mandel’štam scrive che noi italiani, quando parliamo, muoviamo le labbra in un modo stranissimo, usando soprattutto la punta della lingua, e facciamo sfoggio di una fonetica puerile, che rende la nostra lingua meravigliosamente infantile»
Quando, tanti anni fa, ho letto quel che Bazarov, il protagonista di Padri e figli di Turgenev, dice dei russi – «La cosa migliore dei russi è la pessima opinione che hanno di sé stessi» – ho pensato che questa cosa valeva anche per gli italiani. Noi italiani, di noi stessi, parliamo malissimo, di solito.
Anche per questo, credo, fin dalla prima volta in cui son stato in Russia, nel 1991, sono stato molto colpito dal modo in cui i russi guardano all’Italia.
Una volta mi sono trovato sulla Piazza Rossa di Mosca di fianco a un gruppo di turisti italiani che, guidati da una guida russa, stavano per andare a visitare le chiese del Cremlino. Siccome non le avevo mai visitate, ho chiesto alla guida se potevo unirmi al gruppo e la guida, gentilissima, mi ha detto di sì e mi ha chiesto di dov’ero.
«Sono italiano», le ho risposto io.
«Sì, avevo capito», mi ha detto lei, «ma italiano di dove?».
«Italiano di Parma», le ho detto io.
«Ah, Parma», mi ha detto lei, «che città meravigliosa!».
«C’è stata?», le ho chiesto io.
«No», mi ha risposto lei, «ma ho letto La certosa di Parma».
Come quella guida, anche Aleksandr Puškin, che parla dell’Italia come di una terra beata, dove il cielo si colora di un indicibile azzurro, una terra magica, gioconda, ispirante, che scrive «Adriatiche onde! Oh, Brenta!», ecco, Puškin, il mare adriatico, il Brenta, e il cielo italiano, non li ha mai visti in vita sua, e Fëdor Michajlovic Dostoevskij, quando, quindicenne, arriva a Pietroburgo, in una delle prime lettere che scrive al padre gli scrive che, a Pietroburgo, «il clima è meraviglioso: italiano».
Dostoevskij, allora, non era ancora mai stato in Italia, ma, per lui, l’aggettivo «italiano» era sinonimo di «meraviglioso», come per Puškin e come per la mia guida che non era mai stata a Parma.
Ma anche russi che in Italia ci sono stati, come Nikolaj Gogol’, invece di essere delusi dal confronto tra la loro altissima opinione e la realtà sono di solito confermati, dall’incontro con i cieli italiani, nel loro pregiudizio positivo (Gogol’ definisce l’Italia «la patria della mia anima»).
E quando, due anni fa, ho letto il primo volume di Immagini dell’Italia, di Pavel Muratov, mi sono detto «Ma come siamo belli!»
Dante, il Trecento, il Quattrocento (un secolo che «amava la terra più d’ogni altra cosa» «la cui essenza si riduce in una formula: ‘vivere nel mondo’»), ma che meraviglia! Ma siamo davvero così?, mi sono chiesto.
Io adesso, da vent’anni ormai, vivo a Bologna, a 35 minuti di treno da Firenze, e quando ho letto quel che Muratov dice di Firenze, quando ho letto che Muratov trova «affinità tra la percezione di Firenze e l’impressione tratta dalla lettura della Divina Commedia» e che per lui hanno «entrambe la stessa armonia – l’armonia di un albero rigoglioso –, con la stessa chiarezza e compiutezza, con la stessa, geniale levità malgrado l’imponenza», quando ho letto che Muratov scrive «Le pietre con cui è costruita Firenze sembrano più leggere di quelle delle altre città», mi son detto «Cosa aspetti, asino? Vai a Firenze immediatamente!».
E quando Marco Pierini, il direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria, mi ha chiesto di presentare la mostra che sto presentando in questo modo, mi rendo conto, così singolare, sono andato a prendere il terzo volume, di Immagini dell’Italia, e ho letto le pagine che Muratov dedica a Perugia, il capoluogo della «dolce Umbria», popolata «da santi e da demoni», e ai suoi tesori, che saranno prossimamente a Pietroburgo, per esempio all’Assetata di Arnolfo di Cambio, parte di quella «fontana degli assetati che è come un racconto incantevole, un romanzo cavalleresco, una miniatura medievale alla quale Nicola Pisano, suo figlio Giovanni e Arnolfo di Cambio hanno lavorato nei giorni in cui viveva Dante» tra il 1277 e il 1281, allora mi son ricordato del saggio di Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, nel quale Mandel’štam si chiede «quanti sandali Dante deve aver consumato durante la sua fatica poetica, peregrinando sui sentieri da capra dell’Italia», e nel quale ho trovato il più bel discorso sulla lingua italiana che abbia mai letto: «magnifica» scrive Mandel’štam «è la fame di versificazione dell’italiano, il suo appetito animalesco, da adolescente, per l’armonia, il suo desiderio sensuale di rima», e poi scrive che noi italiani, quando parliamo, muoviamo le labbra in un modo stranissimo, usando soprattutto la punta della lingua, e facciamo sfoggio di una fonetica puerile, che rende la nostra lingua meravigliosamente infantile, e «la più dadaista delle lingue romanze». E, a pensare che queste cose le ha scritte quel grande poeta, autore tra l’altro di una poesia dedicata alla città «meravigliosa» che ospita questa mostra (Sono tornato nella mia città, che conosco fino alle lacrime […] Pietroburgo, adesso non voglio morire. Tu hai ancora i miei numeri di telefono. Pietroburgo, io ho gli indirizzi, e con loro le voci dei morti riesco a trovare) mi viene ancora da chiedermi «Ma davvero l’italiano è così bello?» e, a fronte di tutta questa ammirazione, mi vien da pensare che pagherei, per vedere le facce dei russi che, all’Ermitage, dal 18 maggio al 22 agosto del 2021 vedranno i capolavori della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia.
Che invidia.