Quante emissioni causano i bitcoin
La criptovaluta più usata è anche quella che consuma più energia e che probabilmente immette più CO2 nell'atmosfera, visto che viene "estratta" per il 70% in Cina
Elon Musk ha sospeso la possibilità di acquistare le automobili di Tesla con i bitcoin meno di due mesi dopo averla introdotta dicendo di essere preoccupato per le emissioni di gas serra – la causa del cambiamento climatico – prodotte dalla più popolare tra le criptovalute. Il sistema Bitcoin funziona grazie a decine di migliaia di computer e server che sono impegnati tutto il giorno in calcoli complicati e necessitano di impianti di raffreddamento per non surriscaldarsi, dunque consuma grandi quantità di energia. Non si sa di quante emissioni sia responsabile con esattezza, perché questi computer si trovano in zone del mondo diverse, in cui l’energia è prodotta in vari modi: ma si sa che molti sono in Cina dove una delle fonti di energia più usate è il carbone, il combustibile fossile più inquinante.
Perché i bitcoin consumano molta energia
Tra tutte le criptovalute quelle che consumano più energia sono proprio i bitcoin, perché sono le più usate e popolari, ma anche perché le loro specifiche modalità di funzionamento richiedono un particolare dispendio di energia. Secondo le stime dell’Università di Cambridge, nel 2019 il consumo di elettricità dei bitcoin è stato di poco superiore a quello dell’intero Egitto e di poco inferiore a quello della Polonia.
A usare l’energia sono le migliaia di computer che formano la blockchain, il sistema di controllo che valida le transazioni in bitcoin: come una specie di grande libro mastro, registra tutte le transazioni mai fatte con questa valuta digitale. Perché nuove transazioni possano essere registrate, tutti i dispositivi che fanno parte della rete del sistema Bitcoin devono controllare che i bitcoin coinvolti appartengano davvero a chi li sta spendendo. Perché questo processo di verifica sia proficuo per chi lo svolge, ai dispositivi della blockchain viene anche sottoposto un problema crittografico, lo stesso per tutti: il primo che riesce a risolverlo emette un avviso per gli altri, cosa che al tempo stesso valida le nuove transazioni e assegna al risolutore una certa quantità di nuovi bitcoin.
I problemi crittografici su cui è basato il sistema richiedono un’enorme potenza di calcolo e un grande consumo di energia per essere risolti: dato che tutti i computer della blockchain ci provano, il meccanismo – chiamato “proof of work” – è poco efficiente dal punto di vista energetico.
Non sono solo le transazioni in bitcoin che richiedono energia, ma anche la semplice creazione dei bitcoin. Infatti si possono creare nuovi bitcoin, in gergo tecnico “estrarre”, anche senza validare nuove transazioni, ma comunque svolgendo computazioni simili a quelle già descritte. La maggior parte dell’energia consumata dal sistema Bitcoin è quella spesa per queste estrazioni, e non per le transazioni. E con l’aumento dell’uso dei bitcoin e del loro valore l’energia richiesta è sempre di più, sia perché i problemi crittografici da risolvere diventano più difficili, sia perché sono sempre di più le persone che provano a ottenere profitti dai bitcoin.
Consumo di energia e produzione di emissioni non sono la stessa cosa
Data la crescente complessità dei problemi crittografici, oggi possono riuscire a risolverli solo computer con grandi capacità di calcolo e dunque maggior bisogno di energia. E per ottenere dei profitti estraendo bitcoin servono grandi stanze piene di server che si occupano solo di questo, con impianti di ventilazione che impediscano il surriscaldamento dei computer – una ragione indiretta aggiuntiva per cui i bitcoin richiedono un grande consumo di energia. I bitcoin si possono estrarre ovunque nel mondo, ovviamente, ma conviene farlo dove l’energia costa meno, cioè dove si spende meno per ottenere un singolo bitcoin.
Quante emissioni si producono per estrarli e validare le transazioni però dipende dal tipo di energia usata per farlo, e quindi dal paese in cui si trovano i server che se ne occupano. Ogni paese ha il suo “mix energetico”, cioè produce energia con apporti diversi da combustibili fossili (che dunque emettono gas serra), e da fonti rinnovabili, cioè da impianti fotovoltaici, eolici, idroelettrici e geotermici, ad esempio.
Dunque se è relativamente semplice fare una stima del consumo energetico dei bitcoin, è ben più difficile stimare le emissioni che causano, spiega bene un articolo pubblicato di recente sull’Harvard Business Review. Per provarci si analizzano i mix energetici dei paesi dove si trova la maggior parte degli stabilimenti per l’estrazione di bitcoin. Secondo una stima risalente al dicembre 2019, il 73 per cento dell’energia consumata dal sistema Bitcoin non produceva emissioni grazie al grande uso di energia idroelettrica nel sud-est della Cina e nei paesi scandinavi. Una stima successiva, risalente allo scorso settembre, ha ipotizzato una percentuale comunque significativa ma molto minore: il 39 per cento.
Quest’ultima è stata fatta dal Cambridge Center for Alternative Finance (CCAF) dell’Università di Cambridge, grazie alla collaborazione di una serie di grossi mining pool, cioè gruppi di persone che lavorano insieme per estrarre bitcoin in modo più proficuo, che hanno fornito una banca dati di geolocalizzazioni di “fabbriche di bitcoin” rese anonime. L’analisi del CCAF è sicuramente la più affidabile in circolazione ma non è completa, perché non comprende tutti gli stabilimenti che si occupano di bitcoin ed è aggiornata all’aprile 2020.
Quindi cosa sappiamo delle emissioni dovute ai bitcoin?
È impossibile avere una stima precisa delle emissioni di gas serra dovute ai bitcoin, ma si possono fare alcune considerazioni. La prima è che, secondo i dati del CCAF aggiornati all’aprile del 2020, circa il 70 per cento dei bitcoin viene estratto in Cina.
Una buona parte viene creata nelle regioni del Sichuan e dello Yunnan, dove si trovano grandi dighe. Sono regioni in cui l’energia idroelettrica è estremamente economica: sono zone relativamente poco popolate, in cui la domanda locale di elettricità è abbondantemente superata dall’offerta. Dato che le attuali tecnologie per le batterie non consentono di metterla da parte in modo pratico ed efficiente per i momenti di bisogno, molta dell’energia elettrica che si potrebbe produrre non viene prodotta: per chi si occupa di bitcoin realizzare degli stabilimenti vicino alle dighe è stata ed è un’ottima occasione.
L’abbondanza di energia idroelettrica tuttavia varia a seconda del periodo dell’anno, e in Cina è molto maggiore nella stagione umida: in quei mesi il 50 per cento dei bitcoin del mondo sono estratti nel Sichuan e nello Yunnan; nel resto dell’anno solo il 10 per cento. Il problema è che quando e dove l’energia idroelettrica non è disponibile, in Cina si usano molto i combustibili fossili, e per la maggior parte il carbone.
E poi ci sono regioni della Cina dove i bitcoin vengono sempre estratti usando energia prodotta dal carbone: è il caso dello Xinjiang, dove si stima che sia prodotto circa un terzo di tutti i nuovi bitcoin. Questa stima è stata fatta solo il mese scorso: all’inizio di aprile una grande miniera di carbone dello Xinjiang è stata inondata e di conseguenza per alcuni giorni non ha rifornito le centrali elettriche locali. Contemporaneamente a questa improvvisa carenza di energia l’estrazione di nuovi bitcoin è diminuita del 35 per cento: per questo gli esperti del settore hanno potuto stimare quanti fossero estratti nello Xinjiang.
Ha senso produrre emissioni per i bitcoin?
La risposta a questa domanda varia molto a seconda delle opinioni sull’utilità dei bitcoin e delle altre criptovalute, che per molti nelle loro attuali applicazioni servono principalmente al riciclaggio di denaro e alla speculazione fine a se stessa, e che però nelle intenzioni originali dovevano creare un sistema monetario alternativo a quello delle banche e quindi più libero e trasparente.
Se si considerano le transazioni fatte attraverso il circuito Visa, uno dei più importanti fornitori di carte di credito al mondo, le emissioni per transazione sono decine di migliaia di volte minori di quelle dovute a una transazione in bitcoin, ma il sistema Bitcoin si propone come un’alternativa all’intero sistema finanziario mondiale, e quindi comprende molti più processi di quelli imputabili e Visa.
Tuttavia si possono sicuramente confrontare tra loro gli sforzi di produrre più o meno emissioni dei diversi sistemi di criptovalute. Ethereum, il secondo sistema più usato dopo Bitcoin, ha detto che cercherà di passare dal meccanismo di validazione delle transazioni “proof of work”, inevitabilmente inefficiente, a un meccanismo detto “proof of stake”: compensa chi estrae nuove unità di valuta – che nel caso di Ethereum si chiamano ether – sulla base della ricchezza che già detiene in quella valuta (“stake” significa “interesse”). Dunque non richiede a tutti i dispositivi della blockchain di lavorare a vuoto per mantenere il sistema, potenzialmente abbattendo gli sprechi.
Al momento il sistema Bitcoin non sembra intenzionato a fare un cambiamento del genere, né a prendersi altri impegni per diventare più sostenibile. Dato che le fonti di energia come l’eolico e il fotovoltaico sono per loro natura intermittenti, e invece l’attività di estrazione dei bitcoin si fa a tutte le ore del giorno, continuamente, la transizione energetica a queste fonti è poco conveniente per chi lavora con i bitcoin.