L’epidemiologia nelle fogne
Nell'ultimo anno centinaia di progetti sono stati avviati per studiare la diffusione del coronavirus analizzando le acque di scarico, anche in Italia e con risultati sorprendenti
In almeno 50 paesi in giro per il mondo sono in corso ricerche e programmi di rilevazione per analizzare la diffusione del coronavirus attraverso gli impianti fognari. Questo sistema era stato esplorato da alcuni ricercatori nella primavera dello scorso anno, ma negli ultimi mesi è diventato molto più diffuso e ha offerto la possibilità di avere dati sull’andamento dei focolai e dell’epidemia, rendendo possibile l’adozione di restrizioni e altri provvedimenti per ridurre i nuovi contagi in alcuni paesi.
Il sito della rivista scientifica Nature ha stimato che dalle poche decine di progetti sulle fogne avviati nel 2020 si è passati a circa 200 iniziative negli ultimi mesi. L’aumento è diventato significativo quando sono emerse prove convincenti sulla permanenza delle particelle virali o del materiale genetico del coronavirus nelle feci, e sulla possibilità di rivelarli e di dedurre la presenza di un focolaio in una data area geografica raggiunta dai servizi fognari.
L’analisi delle acque reflue per motivi di salute pubblica non è una novità e viene utilizzata di frequente per vari scopi. In passato era stata impiegata per verificare l’efficacia delle vaccinazioni contro la poliomielite o per studiare l’abuso di antibiotici, che in alcune circostanze può portare alcuni batteri per noi nocivi a diventare più resistenti ai farmaci. In diversi paesi le acque fognarie sono periodicamente analizzate per quantificare l’impiego delle sostanze stupefacenti tra la popolazione, per identificare le aree geografiche dove il loro consumo è più marcato.
Nel caso dell’attuale coronavirus, l’estensione delle analisi e gli scopi con cui sono portate avanti varia enormemente a seconda dei paesi. In alcuni casi il fine è prettamente di ricerca, per esempio per capire quanto materiale del coronavirus sia espulso con le feci dai positivi, mentre in altre circostanze lo scopo è provare a prevenire il più possibile nuovi focolai di COVID-19.
A Hong Kong le acque reflue vengono analizzate periodicamente in varie parti della città, alla ricerca di eventuali tracce del coronavirus. Questo sistema ha permesso a inizio gennaio di risalire a due complessi abitativi dove si sospettava si stesse sviluppando un focolaio. Le analisi sui residenti hanno poi portato all’identificazione di nove asintomatici, che avrebbero potuto contagiare altri individui.
Un sistema analogo viene impiegato presso l’Università della California (San Diego), dove periodicamente sono effettuate analisi del sistema fognario dei quasi 350 edifici che formano il campus universitario. Nel caso in cui venga rilevata la presenza di materiale genetico del coronavirus, l’Università avvia campagne di test negli edifici a rischio in modo da isolare il più velocemente possibile eventuali positivi. Questa soluzione si rivela più pratica ed economica di svolgere ciclicamente test per tutti i 10mila studenti nel campus e, secondo i responsabili dell’iniziativa, ha finora permesso di identificare circa l’85 per cento dei casi positivi emersi nel campus.
Negli Emirati Arabi Uniti, invece, si è scelto di analizzare le acque reflue non degli impianti fognari, ma delle cisterne delle toilette degli aerei di linea. L’iniziativa dovrebbe consentire di identificare eventuali voli con individui positivi provenienti da altri paesi, in modo da ridurre il rischio che si sviluppino nuovi focolai a causa dei viaggiatori.
I Paesi Bassi furono tra i primi a sviluppare sistemi di controllo sulla diffusione del coronavirus, impiegando alcune soluzioni già adottate per l’analisi delle reti fognarie. I progetti di ricerca hanno portato a iniziative più strutturate, che consentono di avere dati importanti sull’andamento dell’epidemia tra gli abitanti. Le analisi consentono di fare stime su dove e come si stia diffondendo il contagio, offrendo informazioni preziose alle autorità sanitarie e al governo per decidere se mantenere o ridurre i lockdown a seconda dei casi.
Il vantaggio di questo approccio è che consente di rilevare non solo il materiale genetico del coronavirus emesso con le feci dai malati, ma anche dagli asintomatici solitamente più difficili da identificare. Un microbiologo ha ricordato a Nature che «non tutti vengono sottoposti a test, ma tutti vanno in bagno: è bello avere uno strumento oggettivo che non dipende dalla volontà dei singoli di sottoporsi a un tampone».
Identificare le tracce del coronavirus negli impianti fognari non è comunque sempre semplice, soprattutto nei contesti in cui la densità abitativa non è molto alta o si verificano comunque pochi casi di contagio in rapporto a ciò che avviene in altri paesi. I ricercatori in Australia hanno dovuto fare i conti con questo imprevisto e si sono dovuti ingegnare per trovare una soluzione per migliorare il sistema dei prelievi. Quello classico, infatti, consiste sostanzialmente nell’affondare un recipiente nella rete fognaria per raccogliere le acque reflue, che saranno poi esaminate in laboratorio.
I ricercatori australiani hanno sperimentato diversi materiali, porosi e spugnosi, per estendere il periodo del prelievo da qualche minuto a intere giornate, aumentando quindi la probabilità di raccogliere qualche eventuale frammento di coronavirus nelle fogne. I progetti per realizzare uno di questi sistemi sono liberamente consultabili online e sono stati impiegati da altri centri di ricerca e di analisi, in diverse aree del mondo.
Il problema di questo e degli altri approcci è che richiede la disponibilità di risorse e investimenti per attrezzare i laboratori e condurre le analisi. Per i paesi ricchi la spesa è tutto sommato marginale, mentre può essere proibitiva per quelli in via di sviluppo. Circa il 70 per cento delle iniziative di ricerca del coronavirus nelle fogne è stato finora organizzato nei paesi con economie sviluppate.
In India, il paese interessato più duramente dalla pandemia nelle ultime settimane, i ricercatori sono riusciti a mettere in piedi alcuni progetti, seppure tra molte difficoltà. Una iniziativa prevede l’analisi delle acque reflue prodotte dagli ospedali di due stati nella parte settentrionale del paese. Lo scopo non è solamente identificare la presenza del coronavirus, ma anche sperimentare sostanze che possano neutralizzarlo in vista di estenderne l’utilizzo nel resto del territorio nazionale per ridurre i problemi legati alle contaminazioni dell’acqua.
In Italia da luglio dello scorso anno è attivo un progetto coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità per la sorveglianza epidemiologica del coronavirus attraverso le acque reflue urbane (SARI, Sorveglianza Ambientale Reflue in Italia). L’iniziativa era partita con una prima fase dedicata alle località turistiche, visto il periodo estivo nel quale era stata avviata, e in seguito ha raccolto l’adesione di diverse strutture territoriali come le ASL, le agenzie per la protezione dell’ambiente (ARPA), le università e altri centri di ricerca. In molti casi gli accordi hanno interessato i gestori della fornitura idrica nelle città, che si occupano di prelevare i campioni e di fornirli ai laboratori per le analisi.
Un gruppo di lavoro dell’ISS all’inizio di quest’anno ha ulteriormente affinato i sistemi di analisi, riuscendo a rilevare le cosiddette “variante inglese” e “variante brasiliana” nelle acque reflue di Perugia e di alcuni centri abitati in Abruzzo. La presenza delle varianti è stata riscontrata conducendo le analisi in aree geografiche dove erano stati rilevati casi tramite i test tradizionali con tampone. Il risultato è importante perché dimostra la possibilità di stimare la diffusione non solo del coronavirus in generale, ma di alcune specifiche sue varianti in una determinata area geografica.
Nell’ultimo anno la pandemia ha contribuito a rendere più frequente il ricorso alle tecniche di analisi epidemiologica tramite le acque reflue, un campo di applicazione che finora non aveva ricevuto grandi attenzioni. I nuovi sviluppi potrebbero essere l’opportunità per potenziare il settore sfruttandolo non solo per studiare la diffusione delle malattie, ma anche diverse altre abitudini tra la popolazione, compreso il consumo di sostanze come stupefacenti, caffè e farmaci.