In India la pandemia si espande
I contagi stanno aumentando anche al sud e nelle aree più rurali, mentre le vaccinazioni vanno a rilento e le autorità non impongono lockdown
La gravissima seconda ondata di contagi da coronavirus che sta interessando l’India da due mesi si sta spostando dalle grandi città e dagli stati più popolosi del nord e dell’ovest verso quelli rurali del sud, che stanno incontrando le stesse enormi difficoltà riscontrate nel resto del paese in queste settimane: mancanza di ossigeno, difficoltà nel monitorare l’andamento dell’epidemia, e un altissimo numero di morti che si accumulano senza che le procedure di cremazione riescano a tenere il passo.
Gli stati continuano a non imporre dei lockdown come quelli – molto efficaci – adottati nella prima ondata, un anno fa. La percentuale di persone che hanno ricevuto almeno una dose di vaccino è molto bassa, sotto al 10 per cento della popolazione (in Italia, per confronto, è vicina al 30 per cento). E i primi studi sulla variante che si è diffusa localmente, la B.1.617, suggeriscono sia più contagiosa. Mercoledì sono stati registrati 4.205 morti per COVID-19, il dato quotidiano più alto dall’inizio della pandemia, e 348.421 contagi. Ma si suppone che i valori reali siano molto più alti, per i limiti del sistema di test nel paese: secondo certe stime i decessi potrebbero essere fino a cinque volte più alti.
Uno dei problemi principali causati dalla pandemia in India è stata la difficoltà di reperire abbastanza ossigeno per gli ospedali delle città più colpite dal virus. L’ossigeno è infatti fondamentale nella cura delle persone malate di COVID-19 ricoverate in ospedale con insufficienze respiratorie, e la carenza è stata registrata soprattutto in alcuni stati del nord e dell’ovest del paese, dove ci sono le città più popolose del paese. La maggior parte degli impianti che producono ossigeno si trova però negli stati dell’est e del sud dell’India, e il trasporto delle riserve da una parte all’altra dell’India è stato particolarmente problematico per motivi logistici.
Gli stati dell’est e del sud avevano potuto esportare le proprie scorte di ossigeno perché finora i numeri dei contagi in queste zone erano stati relativamente bassi, ma con l’aggravarsi della situazione la condivisione dell’ossigeno è stata rimessa in discussione. Le autorità dello stato del Kerala, e quelle del Tamil Nadu, nel sud del paese, hanno detto che non possono più spedire ossigeno agli stati del nord perché hanno bisogno dell’intera fornitura per le proprie crescenti esigenze.
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Oltre alla carenza di ossigeno, un problema che sta riguardando le zone rurali dell’India, sia al sud che al nord, è la mancanza di legna per l’allestimento delle pire funerarie per la cremazione tradizionale indù, e il generale sovraffollamento dei siti dove vengono bruciati i cadaveri. È successo quindi che molte persone abbiano gettato i corpi dei propri familiari nelle acque del fiume Gange, che scorre attraverso alcune delle aree più popolose delle pianure settentrionali.
Nella zona del confine tra gli stati del Bihar e dell’Uttar Pradesh sono stati trovati almeno 71 cadaveri che galleggiavano lungo il fiume. Le autorità locali hanno detto che l’avanzato stato di decomposizione dei corpi fa pensare che quelle persone fossero morte da diversi giorni, ma che non è stato possibile appurare la causa della morte. In India la pratica religiosa di lasciare i corpi nel Gange esiste, ma è piuttosto rara e limitata ai casi – bambini e donne incinte, per esempio – in cui non vengono cremati perché si ritiene non abbiano bisogno di essere purificati dal fuoco. Le decine di corpi rinvenuti negli ultimi giorni fanno pensare che appartenessero molto probabilmente a persone morte di COVID-19 e gettate in acqua perché non era stato possibile cremarle.
Il sovraffollamento dei siti crematori ha provocato anche un aumento del costo per la cremazione dei cadaveri, un fatto che avrebbe incentivato le persone più povere a gettare i cadaveri nel fiume. Krishna Dutt Mishra, un autista di ambulanze a Chausa, nello stato del Bihar, ha raccontato al New York Times che il prezzo delle cremazioni è salito da 2mila rupie (circa 22 euro) a 15mila rupie (circa 17o euro), una cifra che la maggior parte delle famiglie della zona non può permettersi.
Nonostante la situazione sia sempre più grave ormai da diverse settimane, il governo del primo ministro Narendra Modi finora non ha voluto imporre un lockdown nazionale, come successo lo scorso anno all’inizio della pandemia, quando era stato deciso uno dei sistemi restrittivi nazionali più estesi al mondo. Applicato in poche ore, aveva contribuito a rallentare la diffusione della prima ondata del coronavirus, causando però un sostanziale blocco dell’economia indiana. Anche per questo motivo quest’anno Modi ha più volte detto che non avrebbe imposto un lockdown nazionale, lasciando ai governi degli stati federali la decisione di imporre restrizioni locali. «Nella situazione odierna, dobbiamo salvare il paese dal lockdown. Chiederò agli stati di utilizzare un lockdown come ultima opzione», aveva detto a fine aprile.
Le restrizioni locali maggiori sono state imposte a fine aprile nel territorio di Delhi, quello che comprende la capitale Nuova Delhi, e rinnovate attualmente fino al 17 maggio. Altre città e stati, come l’Uttarakhand e il Jammu e Kashmir, hanno imposto invece dei coprifuochi notturni, ma l’Indian Medical Association (IMA), la più grande associazione di medici del paese, ha detto che misure sporadiche come queste non servono a molto, e ha chiesto al governo di imporre un lockdown nazionale come quello dello scorso anno.
A proposito delle misure del governo indiano per contrastare la pandemia da coronavirus, l’immunologo statunitense Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID, il più importante istituto di ricerca americano sulle malattie infettive), ha detto al canale televisivo ABC che un lockdown nazionale in India è necessario per fermare la «catena di trasmissione», e che il governo indiano avrebbe dovuto imporlo già da tempo.
Nonostante l’India ospiti il Serum Institute, il principale produttore di vaccini del mondo, la campagna nazionale per immunizzare la popolazione avviata a gennaio procede al rilento. Le motivazioni sono in parte demografiche (una popolazione enorme e spesso difficile da raggiungere) e in parte di organizzazione, ma principalmente dipendono dalla grave mancanza di dosi. Il paese ha bloccato l’esportazione dei vaccini prodotti nel paese, su licenza del brevetto del farmaco di AstraZeneca, e il Serum Institute è sotto accusa per non aver mantenuto gli obiettivi di produzione promessi. Il CEO Adar Poonawalla ha attribuito le responsabilità ai gravi ritardi e sottovalutazioni negli ordini decisi dal governo l’anno scorso, e alla mancanza di materie prime dovuta in parte all’embargo imposto dagli Stati Uniti.
Nel frattempo stanno continuando gli studi sulla cosiddetta “variante indiana” del virus (B.1.617). Non si sa ancora se e quanto abbia contribuito a rendere la situazione nel paese così critica, ma nel suo ultimo aggiornamento settimanale sull’andamento dell’epidemia l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha detto che la variante è stata rilevata finora in 44 paesi, e ha spiegato che dagli studi preliminari svolti finora sembra avere una maggiore trasmissibilità, cosa che potrebbe spiegare l’alto numero di contagi in India.
L’OMS ha specificato però che gli studi sono ancora in fase iniziale e che il contributo della variante ai contagi in India non è quantificabile. L’OMS ha detto anche che nell’aumento dei contagi potrebbero avere avuto un ruolo anche «diversi raduni di massa religiosi e politici», facendo riferimento ai comizi politici tenuti dal partito di Narendra Modi in vista delle elezioni locali che si sono tenute tra fine marzo e inizio aprile in cinque stati, e al Kumbh Mela, una festa religiosa induista che ha radunato milioni di persone provenienti da tutto il paese, il cui svolgimento era stato concesso proprio da Modi, presumibilmente a fini elettorali.