Cosa vuol dire “cancel culture”
Un'espressione discussa da anni negli Stati Uniti sembra infine arrivata nel dibattito italiano, spesso sovrapposta alla questione del “politicamente corretto”
L’espressione
Come è successo in parte anche all’estero, il dibattito sulla “cancel culture” si è sovrapposto a quello sul cosiddetto “politicamente corretto”, un’espressione familiare a molte più persone che però negli ultimi anni è arrivata a indicare un fenomeno molto più complesso e sfaccettato di quello per cui era usata qualche decennio fa. È un discorso estesissimo che tiene dentro un sacco di cose, dai libri ritirati dal commercio per le controversie sui loro autori alle sempre più frequenti proteste sui social network quando in tv vengono dette cose razziste o sessiste. E che ha al centro le nuove e sempre più diffuse sensibilità sui linguaggi da adottare, sulle parole da evitare e su quelle invece da introdurre nel lessico comune per essere più rispettosi delle cosiddette minoranze e delle persone in generale.
Per “cancel culture”, traducibile con “cultura della cancellazione”, negli Stati Uniti e in generale nel mondo anglosassone si intende oggi quel fenomeno per cui gruppi più o meno organizzati di persone esercitano pressioni su un datore di lavoro, committente, collaboratore o socio perché punisca o interrompa i rapporti con un dipendente o un partner professionale per via di certe cose che ha fatto, detto o scritto. Non è detto che queste pressioni vengano necessariamente esercitate sui social network, ma è molto spesso così.
In origine, nel gergo dei social, l’espressione “cancelled” indicava una presa di posizione prevalentemente personale riguardo a qualcuno che aveva detto o fatto qualcosa ritenuto disdicevole. Negli anni Dieci guadagnò popolarità e iniziò a introdurre nuove dinamiche nella responsabilizzazione dei personaggi famosi, e a dare visibilità a posizioni provenienti da gruppi di persone che prima avevano meno spazio nel dibattito. Col tempo però l’espressione “cancelled” assunse un significato diverso. Oggi viene usata principalmente in quei casi in cui decine, centinaia o migliaia di utenti scrivono a un’università, a un editore, a una casa di produzione cinematografica o a un’azienda, chiedendo che un professore venga allontanato, che il libro di uno scrittore non venga pubblicato, che un attore venga escluso da un film o che un dirigente venga licenziato per un determinato motivo.
Questi motivi possono essere vari, più o meno gravi, possono avere rilevanza penale oppure rientrare legalmente nella libertà di espressione ma essere comunque considerati inaccettabili da chi chiede provvedimenti, nel momento in cui provengono da persone con molta visibilità o in posizione di potere. Talvolta queste pressioni non hanno conseguenze, altre volte – e succede principalmente negli Stati Uniti – vengono assecondate dal datore di lavoro coinvolto.
Uno degli esempi di “cancel culture” più famosi riguarda il regista Woody Allen, che negli anni Novanta fu notoriamente accusato dall’ex moglie Mia Farrow di aver violentato la figlia adottiva Dylan. Nonostante le accuse fossero note da decenni, e nonostante diverse indagini abbiano indicato l’assenza di prove, negli ultimi anni le rinnovate campagne contro Allen hanno spinto Amazon ad annullare un importante accordo di distribuzione per i suoi nuovi film, e la casa editrice Hachette a non fare uscire la sua autobiografia A proposito di niente negli Stati Uniti. Se negli Stati Uniti le conseguenze professionali per Allen sono state considerevoli, in Europa è successo in misura molto minore: in generale è stata finora meno interessata da casi come questo.
Il meccanismo alla base, insomma, è diverso dai più tradizionali boicottaggi, perché si manifesta non tanto nella decisione collettiva di non comprare un libro o non pagare il biglietto di un film al cinema, quanto nell’esplicita richiesta e nelle successive pressioni affinché il libro o il film, per restare a questi esempi, vengano ritirati dal commercio o dalla circolazione e diventino quindi non fruibili per tutti. Partecipare a questo tipo di pressioni è molto più facile – basta un social network – e può farlo anche chi non è un abituale consumatore di quel tipo di prodotto, categoria invece a cui è riservata l’arma del boicottaggio tradizionale.
Spesso però le cose assumono contorni più difficili da definire. Un esempio è la recente decisione della casa editrice WW Norton and Company di ritirare una biografia di Philip Roth scritta da Blake Bailey, su cui erano emerse accuse di abusi sessuali (Einaudi ha deciso invece di procedere con la pubblicazione in Italia). Si è trattato nei fatti di una decisione aziendale dovuta a un’analisi costi-benefici, che ha concluso che tenerlo in commercio sarebbe stato un problema e avrebbe danneggiato l’immagine della casa editrice. Ma in tanti ritengono sia stata anche questa una forma di “cancel culture” preventiva, perché il clima culturale attuale rende decisioni di questo tipo inevitabili, al di là dei giudizi sulle opere e in certi casi (non quello di Bailey, ma per esempio quello di Allen) anche delle informazioni disponibili sulla solidità delle accuse.
Questo contesto ha un ruolo sempre più importante nelle decisioni aziendali o editoriali, anche quando sono poi concretamente ascrivibili ai funzionamenti del libero mercato. Ma del resto, non è un fenomeno di per sé nuovo che le aziende si adattino alle sensibilità dei loro clienti, guidando di conseguenza le loro decisioni. Questa ambiguità in ogni caso fa sì che, anche negli Stati Uniti, sia oggetto di discussione quanto effettivamente la “cancel culture” sia un fenomeno diffuso, tra chi tende a vederla ovunque – anche nella semplice critica a un’opinione o un comportamento altrui – e chi nega del tutto la sua esistenza.
Oltre a quello dei media e dell’intrattenimento, in ogni caso, un campo in cui il dibattito è particolarmente rilevante è quello accademico. Negli Stati Uniti, negli ultimi due o tre anni si sono verificati un certo numero di casi di docenti o ricercatori licenziati – o che sono stati spinti alle dimissioni – perché avevano detto qualcosa che i loro studenti avevano giudicato inopportuno o discriminatorio, oppure perché avevano sostenuto direttamente o indirettamente opinioni ritenute transfobiche o razziste, secondo criteri però in molti casi quantomeno discutibili.
Spesso i suddetti professori sono stati difesi da colleghi secondo cui le proteste erano state pretestuose o esagerate, e sono in corso estese riflessioni sulla possibilità che il clima raggiunto in certe università possa finire col fare più danni che altro all’attività didattica e alla ricerca scientifica. In California, per fare un esempio, un professore è stato sospeso per aver spiegato durante una lezione di comunicazione aziendale il significato dell’intercalare cinese nei ge, il cui suono ricorda un’espressione razzista in inglese. Se ne era parlato in mezzo ad altre cose in una ormai famosa e discussa lettera aperta di accademici, intellettuali e scrittori alla rivista Harper’s Bazaar, nel luglio del 2020.
Un altro problema nell’inquadramento di questo contesto è la grande varietà di fenomeni che sono gli sono stati più o meno correttamente associati: dalle pressioni rivolte verso i personaggi pubblici affinché prendano le distanze da altri colleghi o conoscenti accusati di qualcosa, fino alle proteste perché certe tracce o opere del passato siano contestualizzate meglio per descriverne i loro aspetti discriminatori, oppure in certi casi più estremi proprio eliminate (è un grande capitolo a parte).
La “cancel culture” ha critici a destra (praticamente tutta la destra) e anche a sinistra, ma è rivendicata come strumento di attivismo e di lotta politica da un popolare progressismo contemporaneo, soprattutto giovane e di matrice statunitense, a cui si fa spesso riferimento con l’espressione woke (cioè, più o meno, “consapevole”), usata soprattutto spregiativamente.
Chi difende questo fenomeno, magari anche ammettendo che le sue manifestazioni possano essere talvolta sbrigative e sommarie, sostiene sia un mezzo per combattere le diseguaglianze razziali, di genere e anche economiche, e che l’esistenza stessa di questa discussione dipenda da fattori positivi. E cioè che persone e gruppi che a lungo non hanno avuto la possibilità di intervenire nel dibattito pubblico e culturale stanno acquisendo crescenti spazi e influenza. E li stanno usando per fare pressioni affinché chi ha avuto per decenni gli spazi e il potere subisca infine le conseguenze di quelle parole e azioni che discriminano le minoranze.
Da destra, solitamente, le critiche sostengono che la “cancel culture” e tutto quello che si porta dietro comporti gravi limitazioni alla libertà di espressione. Molti conservatori però hanno iniziato a usare l’espressione per descrivere pretestuosamente un gran numero di rivendicazioni e proteste sui diritti civili, sfruttandola per sminuire e liquidare molte questioni come capricci dei giovani progressisti.
Da sinistra le obiezioni sono invece più varie: spesso riguardano a loro volta la libertà d’espressione, con un accento sul rischio di impoverire il dibattito intellettuale stabilendo criteri troppo rigidi su quello che si può e non si può dire, a prescindere dal contesto, o di travolgere sfumature e differenze. Ma possono anche riguardare i metodi (quando per esempio sono violenti o intimidatori), i contenuti (quando le polemiche sono pretestuose) oppure i concetti dietro alla “cancel culture”. Un ricorrente argomento mette in discussione per esempio l’idea che una singola cosa detta o fatta, per quanto disdicevole, possa definire interamente una persona e il suo futuro personale e professionale. Dato che, in certi casi, la persona oggetto delle proteste perde la possibilità di svolgere il suo lavoro.
La sovrapposizione dell’espressione “cancel culture” con il “politicamente corretto”, e una frequente confusione quando si parla di questo dibattito, esiste negli Stati Uniti ed è ancora più accentuata in Italia.
Il vero dibattito che sembra essere in corso in questi giorni, per esempio, è proprio quello che viene generalmente associato al concetto di “politicamente corretto”, un’espressione nata negli anni Ottanta per descrivere un modo di esprimersi che sostituisse vecchi termini offensivi con altri più rispettosi (“handicappato” e “disabile”, per esempio). Un approccio che è stato adottato come stile di comportamento e linguaggio più nel mondo anglosassone che in molti paesi europei, Italia compresa. Politically correctness, abbreviato spesso in PC, è un concetto al centro di discussioni anche negli Stati Uniti, pur essendo secondo molti troppo superato e semplicistico per descrivere efficacemente il grande dibattito di questi anni sulle questioni identitarie e sulle funzioni della lingua nel mantenere e legittimare le diseguaglianze.
Le discussioni che negli ultimi giorni si sono sviluppate tra i social network, le pagine degli editoriali dei principali quotidiani e i programmi televisivi – quella su Biancaneve e quella su Pio e Amedeo – non riguardavano tanto la “cancellazione” di determinati personaggi, quanto la questione di ciò che sarebbe opportuno dire, fare o rappresentare riguardo alle molte questioni su cui stanno cambiando le sensibilità collettive, in un senso che include punti di vista diversi da quello storicamente prevalente (bianco, maschile, eterosessuale, cisgender).
È una discussione che ha provocato estesi allarmi riguardo alla presunta “censura” imposta agli interessati. L’obiezione più comune è che generalmente chi ne è interessato continua a disporre di programmi e pagine per esprimersi – Pio e Amedeo hanno detto quello che volevano in prima serata su uno dei canali più visti del paese – e che linguaggi discriminatori continuano a essere tollerati e sdoganati in moltissimi contesti, dentro e fuori dai media.
I punti più rilevanti e interessanti del dibattito sono probabilmente più sfumati e complessi. Uno dei principali riguarda la possibilità – già concreta per qualcuno, potenziale per altri, e trascurabile per altri ancora – che la pretesa che chi gode di visibilità sia più attento alle conseguenze di cosa fa e cosa dice sia esercitata con metodi che finiscono per compromettere un dibattito produttivo e sereno, spingendo le persone a rinunciare a esprimere certi argomenti per il timore di sanzioni sproporzionate e non giustificate.
Oppure che la diffusa e urgente richiesta di un linguaggio pubblico più inclusivo e rispettoso non sia accompagnata da un’efficace comunicazione delle sue ragioni e dei suoi criteri. A lungo il dibattito in questione è stato infatti elitario, riservato alle persone che lavorano nei media, a quelle più istruite oppure a quelle più aggiornate sulla cultura anglosassone. Vista la consolidata rilevanza internazionale della discussione, e visto che tutto lascia supporre che sarà sempre più importante, in molti segnalano la necessità di comunicare e spiegare meglio le posizioni e gli argomenti del “politicamente corretto”. Evitando insomma un approccio rigidamente prescrittivo, per prevenire il rischio che la maggior parte delle persone rimanga generalmente confusa, tendenzialmente scettica e quindi conseguentemente esclusa dal dibattito.