Sheikh Jarrah non è un posto come gli altri
Le proteste degli ultimi giorni a Gerusalemme ruotano intorno a un quartiere che ha una storia nella storia, ingarbugliata e controversa
Ogni sera, nell’ultima settimana, decine di attivisti per i diritti dei palestinesi hanno sfilato in un piccolo quartiere di Gerusalemme nei pressi della Città Vecchia, il centro storico della città, per protestare contro lo sfratto di tre famiglie palestinesi su cui lunedì 10 maggio dovrà esprimersi in via definitiva la Corte Suprema Israeliana.
Manifestazioni del genere avvengono quasi ogni mese a Gerusalemme, la città al centro della disputa territoriale più complessa al mondo fra israeliani e palestinesi. Ma i cortei dei giorni scorsi hanno poco di ordinario, sia per il periodo dell’anno in cui ci troviamo – la fine del Ramadan, il mese sacro per i musulmani che spesso coincide con affollatissime manifestazioni di protesta – sia per il luogo in cui sono ambientate: Sheikh Jarrah, un quartiere che ha una storia nella storia ancora più ingarbugliata e controversa.
Il quartiere deve il proprio nome a una leggenda secondo cui il medico personale di Saladino, il capo militare curdo che nel 1187 riconquistò Gerusalemme sconfiggendo i Crociati, fu sepolto in quest’area. Il medico si chiamava Hussam al Din ma nel corso della sua carriera si era guadagnato il titolo di Jarrah, che in arabo significa “guaritore”. Il quartiere rimase ai margini della vita della città fino all’Ottocento, quando alcune numerose e benestanti famiglie arabe si trasferirono qui per scappare dalle trafficatissime vie della Città Vecchia, che si trova un chilometro più a sud.
Ancora durante l’epoca di dominazione inglese, nel quartiere di Sheikh Jarrah vivevano importanti notabili della comunità araba di Gerusalemme come il gran mufti Amin al Husseini e il sindaco Raghib al Nashashibi.
Ma a Sheikh Jarrah è esistita da sempre una piccola presenza della comunità ebraica. Secondo la tradizione ebraica in una grotta ai margini del quartiere è sepolto Simeone il Giusto (Shimon Hatzadik), un importante rabbino vissuto fra il terzo e il quarto secolo a.C. che secondo la Bibbia fu la persona che accolse Alessandro Magno quando entrò per la prima volta a Gerusalemme. La tomba è meta di pellegrinaggio fin dal Medioevo e alcuni storici della tradizione ebraica ricordano che fino all’Ottocento nei pressi della grotta si teneva una festa annuale organizzata dalla comunità ebraica ma aperta a tutta la città.
Per garantire maggiore solidità alla presenza ebraica nel quartiere, nel 1876 alcuni capi della comunità comprarono il terreno dove è situata la tomba di Simeone il Giusto e alcuni terreni intorno, costruendoci degli alloggi per alcune povere famiglie di ebrei. Nel 1916, pochi anni prima che iniziassero le tensioni fra la comunità araba e quella ebraica, nel complesso abitavano 45 persone.
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Durante la guerra del 1948 che portò alla formazione dello Stato di Israele tutto il quartiere di Sheikh Jarrah fu evacuato a causa dei combattimenti. Scapparono sia gli abitanti arabi del quartiere sia i pochi residenti ebrei della comunità ebraica. Alla fine della guerra il quartiere passò sotto il controllo della Giordania, come tutta la parte est di Gerusalemme, abitata prevalentemente da arabi: la green line, la linea di confine di Israele tracciata dall’ONU nel 1948, passava proprio ai confini del quartiere. Nel 1956 il governo giordano decise di trasferire nei pressi della Tomba di Simeone, quindi sui terreni che prima appartenevano alla comunità ebraica, 28 famiglie di sfollati palestinesi fra le centinaia di migliaia generati dal conflitto, e che la Giordania non sapeva bene come gestire.
I nuovi residenti furono sistemati in un nuovo complesso costruito con l’assenso dell’ONU, che ai tempi agiva da mediatore fra il neonato stato israeliano e la coalizione di paesi arabi che si erano scontrati nella guerra del 1948. Ai residenti il governo giordano garantì un complicato accordo che prevedeva che entro alcune decine di anni sarebbero diventati a tutti gli effetti proprietari dei terreni su cui erano state costruite le loro case. Nel 1967 però Israele riconquistò Gerusalemme Est durante la Guerra dei Sei Giorni, e da allora la occupa militarmente nonostante il parere contrario della maggior parte della comunità internazionale.
Dal 1970 Israele ha una legge che permette a tutti i profughi ebrei provocati dalla guerra del 1948 di tornare nelle proprie case: anche se si trovano al di là dei confini riconosciuti dall’ONU, come nel caso di Sheikh Jarrah.
Da allora i discendenti dei profughi palestinesi che si sono trasferiti nel 1956 nei pressi della tomba di Simeone il Giusto cercano di resistere ai tentativi di sfratto. La battaglia legale – che riguarda meno di 500 persone – ha assunto una portata più ampia quando negli anni Novanta la proprietà nominale dei terreni intorno alla tomba è stata venduta a Nahalat Shimon, un’organizzazione radicale religiosa di coloni israeliani che ha come obiettivo esplicito quello di ridurre la presenza araba a Gerusalemme Est, per complicare la sua annessione in un futuro stato palestinese.
In un’intervista data al New York Times, il vicesindaco di Gerusalemme ed esponente della destra religiosa Aryeh King ha detto che «certamente» la battaglia legale portata avanti da Nahalat Shimon fa parte di una più ampia campagna per «circondare di strati di ebrei» Gerusalemme Est.
La tesi di Nahalat Shimon è che i terreni siano stati acquistati legalmente dai precedenti proprietari nel 1876, e che quindi vadano restituiti ai legittimi proprietari. La comunità palestinese di Gerusalemme Est fa notare invece che i terreni fanno parte di un’area che la comunità internazionale assegna al futuro stato palestinese, e che inoltre le richieste dei coloni ignorano il fatto che le famiglie palestinesi che abitano nei pressi della Tomba di Simeone si sono trasferite su indicazione dello stato che in quel momento deteneva la sovranità dell’area, cioè la Giordania, per di più con l’assenso dell’ONU.
La questione non riguarda soltanto una manciata di case ma un tema delicatissimo e molto sentito dalla comunità palestinese, come il diritto al ritorno. La legge israeliana impedisce che i profughi palestinesi possano tornare a vivere nei territori che oggi fanno parte dello Stato di Israele. Al contempo però se ai coloni di Nahalat Shimon fosse permesso di sfrattare i residenti palestinesi nei pressi della Tomba di Simeone, sarebbe di fatto garantita una forma di diritto al ritorno, anche se su base etnica e a danno della popolazione che vive in un territorio occupato, come quella di Sheikh Jarrah.
La decisione, peraltro, in futuro potrebbe aprire quello che il quotidiano israeliano Haaretz ha definito «un vaso di pandora»: «secondo una stima conservativa circa il 30 per cento delle case di Gerusalemme Ovest [la parte della città che spetta a Israele, secondo l’ONU], prima della guerra del 1948 era di proprietà di persone arabe». In altre parole: cosa accadrebbe se la tradizione giuridica israeliana garantisse un consolidato diritto di ritorno per i proprietari di case prima della guerra del 1948, e i tribunali fossero invasi da richieste di proprietari di etnia araba?
Anche per questa ragione alcuni dei più moderati sostenitori della negazione al diritto di ritorno spiegano che dovrebbe essere negato in qualsiasi forma, sia agli israeliani sia ai palestinesi (che comunque formano la stragrande maggioranza dei profughi della guerra del 1948): soprattutto in un territorio che formalmente non fa nemmeno parte di Israele. Altri politici, più radicali, sostengono che il carattere discriminatorio delle leggi israeliane sia in qualche modo inevitabile. «Questo è un paese ebraico. Ne esiste uno solo. È ovvio che ci siano alcune leggi che alcune persone considerato pro-ebrei», ha detto King al New York Times.
Negli anni scorsi i tribunali israeliani in alcune isolate decisioni avevano dato ragione ai coloni, e ordinato lo sfratto di alcune singole famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah. Ma si stima che 13 famiglie, per un totale di circa 300 persone, abbiano ricevuto un dispositivo di sfratto dai tribunali israeliani che sarà eseguito nei prossimi mesi. Nahalat Shimon ha già annunciato l’intenzione di demolire le case dei palestinesi e costruire appartamenti da destinare a circa 200 coloni. La Corte aveva lasciato spazio alle parti per un eventuale accordo extra-giudiziale, che per esempio avrebbe potuto prevedere una serie di protezioni legali per i residenti palestinesi, in cambio del riconoscimento che i terreni dove abitano appartengono a Nahalat Shimon. Un compromesso, però, non è stato raggiunto.
La decisione di lunedì della Corte Suprema, in un senso o nell’altro, potrebbe diventare un caso di scuola per successivi casi simili in tutta Gerusalemme.