All’Occidente piacciono troppo le sanzioni
Sono diventate uno dei principali strumenti di politica estera, ma il loro utilizzo indiscriminato ne sta mettendo a rischio l’efficacia
Negli ultimi decenni le sanzioni economiche sono diventate uno dei principali strumenti di politica estera dell’Occidente. Il numero dei soggetti sanzionati (individui, istituzioni, aziende) è aumentato a livelli mai raggiunti prima, così come la quantità di dispute internazionali in cui i governi occidentali hanno usato le sanzioni per raggiungere obiettivi disparati: dalle pressioni politiche alla rappresaglia fino alla deterrenza contro futuri attacchi. Ma nonostante la loro popolarità, attorno alle sanzioni c’è scetticismo crescente. Benché siano uno strumento potente, il loro utilizzo indiscriminato ne sta mettendo a rischio l’efficacia.
Per i governi occidentali le sanzioni economiche sono uno strumento apparentemente perfetto: consentono di mettere in atto una politica estera aggressiva e di esercitare pressioni su un altro stato in situazioni in cui la diplomazia tradizionale è insufficiente ma l’intervento militare sarebbe esagerato, o troppo rischioso. Per questo le sanzioni sono diventate l’arma più utilizzata in tutte le principali questioni internazionali che vedono l’occidente contrapposto ad altri paesi: dall’Iran alla Russia, fino a Corea del Nord, Venezuela e Cina.
Le sanzioni tuttavia raramente raggiungono gli obiettivi che i governi si sono prefissati: in Venezuela il dittatore Nicolás Maduro è ancora al potere nonostante le sanzioni americane contro di lui, la Corea del Nord prosegue indisturbata il suo programma nucleare e missilistico e la Russia non ha limitato le sue ambizioni espansionistiche benché sia stata colpita a più riprese da sanzioni economiche molto dure nel corso degli ultimi anni.
Il dibattito sull’efficacia delle sanzioni è piuttosto acceso ormai da molto tempo, ma è diventato più urgente negli ultimi anni perché se ne fa ricorso in maniera sempre più frequente e pervasiva. In quattro anni al governo, l’amministrazione statunitense di Donald Trump ha disposto il doppio delle sanzioni rispetto a quelle ordinate dal suo predecessore Barack Obama in otto anni, e il presidente Joe Biden, in carica da gennaio, sembra intenzionato a non tornare indietro: in pochi mesi ha imposto nuove e pesanti sanzioni contro la Russia e contro il regime militare in Myanmar, e ha coinvolto l’Unione Europea, il Regno Unito e altri paesi nell’imposizione di sanzioni contro la Cina.
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Il numero di individui, aziende e organizzazioni inserite nella lista dei soggetti sanzionati del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti negli ultimi anni è cresciuto costantemente: erano circa 6.000 nel 2014, circa 8.000 nel 2019 e oggi sono poco meno di 10.000. Questo ha fatto sì che le sanzioni, nate come strumento di pressione economica che aveva come fine l’ottenimento di risultati precisi, siano diventati un sistema complesso e burocratizzato, che secondo alcuni esperti è in parte inefficace.
Breve storia delle sanzioni, e perché piacciono all’Occidente
Le sanzioni economiche hanno una storia antichissima: come ha ricordato di recente l’Economist, le prime furono usate nel 432 a.C. nell’antica Grecia, quando l’impero ateniese bandì i commercianti della città di Megara dai suoi mercati e dai suoi porti. Le sanzioni, spesso sotto forma di embargo economico, hanno avuto ruoli notevoli in vari momenti della storia, dalle guerre napoleoniche alla Seconda guerra mondiale, ma sono diventate un elemento fondamentale nella politica estera soltanto a partire dalla seconda metà del Novecento.
Le sanzioni moderne sono inoltre uno strumento quasi esclusivamente occidentale, anzi, quasi esclusivamente statunitense. La loro efficacia dipende infatti dal controllo che chi le impone ha sul sistema economico e finanziario mondiale, e quello degli Stati Uniti è stato quasi totale dalla fine della Seconda guerra mondiale: ancora oggi il dollaro è la principale valuta di riserva in tutto il mondo, senza il quale è praticamente impossibile condurre commerci internazionali. Perdere l’accesso all’economia statunitense è un danno gravissimo e potenzialmente irreparabile, ed è per questo che mentre gli Stati Uniti e i loro alleati sono piuttosto prodighi nell’emettere sanzioni, lo stesso non vale per altri paesi che hanno meno influenza sull’economia – anche se le cose stanno cambiando, specie a causa dell’ascesa della Cina come seconda potenza economica mondiale.
Per questa ragione la storia delle sanzioni nella seconda metà del Novecento è quasi tutta americana, o al massimo di alleati americani, con qualche incursione da parte dell’ONU. Le sanzioni furono abbastanza usate dagli Stati Uniti durante la Guerra fredda, come per esempio negli anni Sessanta a Cuba, ma il loro utilizzo indiscriminato è più recente, e comincia dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, quando con l’approvazione del Patriot Act, una famosa e contestata legge sulla sicurezza nazionale, il Congresso garantì al presidente enormi poteri e strumenti di pressione economica, che George W. Bush utilizzò piuttosto liberamente.
Lo stesso fece Barack Obama nelle varie crisi della sua presidenza, dalla guerra in Siria a quella in Ucraina, e in particolare contro l’Iran: la sua amministrazione adottò contro l’Iran una strategia di “massima pressione” e aumentò enormemente le sanzioni per costringere il regime islamico ad aprire un negoziato per limitare la proliferazione nucleare. Ci riuscì, anche se poi Donald Trump fece fallire il patto sul nucleare stipulato nel 2015.
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Le cose sono degenerate definitivamente con Donald Trump, che ha fatto delle sanzioni e degli altri metodi di pressione economica, come i dazi, praticamente il suo unico strumento di politica estera. Durante il suo mandato Trump ha applicato sanzioni contro circa mille soggetti all’anno, come ha scritto Bloomberg, circa il doppio dei suoi predecessori, e le ha usate per scopi disparati: dal contenimento di Iran e Corea del Nord alla guerra commerciale contro la Cina, fino al tentativo fallito di far cadere la dittatura di Nicolás Maduro in Venezuela.
C’è una sanzione per tutto
Nel corso degli ultimi vent’anni i governi occidentali hanno inoltre mostrato una notevole creatività nell’imposizione di nuove sanzioni. Se durante la Guerra fredda e fino agli anni Novanta erano misure piuttosto ampie, che miravano a colpire grandi settori dell’economia di un paese, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 sono diventate sempre più mirate e specifiche. Il Patriot Act aveva tra i suoi obiettivi quello di colpire le risorse finanziarie dei gruppi terroristici o perfino dei singoli terroristi, e per questo il Congresso formulò una serie di sistemi sanzionatori molto raffinati, che facevano leva non tanto sui grandi scambi commerciali tra stati ma sul sistema finanziario, per impedire l’accesso ai circuiti bancari a terroristi o a enti che sostenevano il terrorismo.
Queste sanzioni, cosiddette “mirate” o “smart”, sono diventate uno degli strumenti preferiti dei governi occidentali, e sono diventate nel tempo così sofisticate che per esempio possono impedire a un individuo l’accesso a certi asset finanziari, mantenendone liberi altri. In questo modo, anziché colpire un paese intero, cosa che potrebbe avere gravi effetti collaterali sulla popolazione, è possibile colpirne i suoi leader, oppure le istituzioni finanziarie e politiche considerate responsabili di una violazione.
Un’ulteriore evoluzione è avvenuta circa dieci anni fa, quando l’amministrazione Obama ha cominciato a fare largo uso (soprattutto contro l’Iran) delle cosiddette “sanzioni secondarie”, che non penalizzano direttamente il soggetto sanzionato ma chiunque faccia affari con lui. Quando un ente è colpito da sanzioni secondarie (per esempio: le Guardie rivoluzionarie iraniane) sono penalizzati ed effettivamente soggetti a sanzione tutti coloro con cui l’ente intrattiene rapporti economici. Nel caso delle Guardie rivoluzionarie, possono essere le banche che ospitano i conti correnti dei leader del gruppo, i donatori internazionali o i rivenditori di armi e altro materiale.
L’obiettivo delle sanzioni secondarie è isolare e strangolare economicamente chi le subisce, e affinché abbiano efficacia è necessario che chi le impone abbia una grande influenza sull’economia globale: una banca in qualunque parte del mondo, costretta a decidere se fare affari con gli Stati Uniti o con le Guardie rivoluzionarie, sceglierà gli Stati Uniti.
Queste sanzioni sempre più raffinate sono autorizzate negli Stati Uniti da vari dispositivi legali, alcuni dei quali contenuti in leggi approvate dal Congresso (come il Patriot Act) e altri – la maggior parte – tramite ordini esecutivi approvati dal presidente.
Tante sanzioni, molti problemi
Come ha scritto di recente l’Economist, è molto difficile stimare l’efficacia delle sanzioni economiche, tanto che perfino il dipartimento del Tesoro americano non ha strumenti di valutazione ufficiali. Il fatto che il loro utilizzo sia diventato spesso indiscriminato e a volte controproducente si può dedurre tuttavia da diversi elementi, anzitutto dal fatto che, come ha scritto l’anno scorso Edward Fishman sul sito Lawfare, gli obiettivi che gli stati occidentali cercano di ottenere con l’imposizione delle sanzioni sono spesso difficili da comprendere.
Gli Stati Uniti hanno attivi decine di programmi di sanzioni, alcuni dei quali in corso da molti anni (come per esempio sanzioni contro chi «minaccia gli sforzi internazionali di stabilizzazione dei Balcani occidentali», risalenti al 2001), che in buona parte hanno perso il loro scopo iniziale e sono diventati strumenti di pressione generica, che finiscono per deteriorare le relazioni bilaterali senza ottenere risultati significativi.
Questa incertezza si è accentuata con l’amministrazione Trump, che ha cominciato a usare le sanzioni confusamente, in maniera esagerata, per rispondere a obiettivi di politica estera già spesso imprecisi: una delle lamentele principali del governo cinese durante la guerra commerciale era proprio il fatto che era difficile capire che cosa Trump volesse nello specifico dalla Cina.
Un altro serio problema è che, specie con l’utilizzo delle sanzioni secondarie, gli stati occidentali hanno cominciato a far fare ai privati il lavoro sporco. Se le Guardie rivoluzionarie iraniane sono soggette a sanzioni secondarie, infatti, spetta alle singole banche e istituzioni finanziarie assicurarsi di non avere affari in corso con loro, e questo è difficilissimo e costoso, perché chi è soggetto a sanzioni fa spesso ricorso a stratagemmi astuti (intermediari, l’aiuto di paesi amici e così via) per evitare di essere colpito. Il dirigente di una banca internazionale ha detto all’Economist che, dopo aver ricevuto una multa per la violazione di sanzioni, è stata costretta a spendere «un paio di miliardi» di dollari in nuove assunzioni e nuova tecnologia per assicurarsi che tutti i suoi processi fossero in regola con l’ampio regime sanzionatorio.
La progressiva complessità delle sanzioni, inoltre, le ha messe a rischio di contestazioni legali. Alcune salvaguardie legali contro le sanzioni esistono da decenni: per esempio, fin dagli anni Novanta l’Unione Europea ha istituito una serie di garanzie (note come “blocking statute”) per proteggere le sue aziende dalla possibilità di essere coinvolte nelle sanzioni americane contro Cuba e l’Iran. Il dibattito sui “blocking statute” si è riaperto di recente sempre a proposito dell’Iran, quando l’amministrazione Trump ha cominciato a voler colpire le aziende europee che cercavano di fare affari con l’Iran sulla base dell’accordo sul nucleare del 2015, da cui Trump era uscito.
Altri enti colpiti da sanzioni hanno semplicemente fatto causa e hanno vinto. Uno degli esempi più noti è TikTok, colpito da sanzioni americane l’anno scorso ma esentato in più di un’occasione da vari tribunali negli Stati Uniti.
Questo non significa che le sanzioni siano inutili e non ottengano mai gli obiettivi prefissati. In molti casi, anche recenti, hanno avuto grande efficacia: Obama con la sua strategia della “massima pressione” riuscì ad aprire il negoziato sul nucleare con l’Iran, e le sanzioni alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina hanno fatto in modo che il presidente russo Vladimir Putin accettasse i negoziati di Minsk, che sono la base, per quanto traballante, dello status quo attuale. Donald Trump, con un mix di sanzioni e altri strumenti di pressione economica, è riuscito a ridurre enormemente la presenza sul mercato occidentale dell’azienda tecnologica cinese Huawei, considerata dagli Stati Uniti un pericolo per la sicurezza.
Non tutte le sanzioni però sono efficaci, e spesso i risultati ottenuti, come nel caso dell’accordo sul nucleare iraniano, sono soltanto temporanei: dopo l’uscita dall’accordo da parte dell’amministrazione Trump, l’Iran ha ricominciato ad arricchire uranio, e finora nessuna nuova sanzione è riuscita a fermarlo.
Non è più un mondo solo americano
Un altro serio problema al regime delle sanzioni occidentali è il fatto che il dominio degli Stati Uniti sull’economia globale, sebbene sia ancora molto solido, sta lentamente ma costantemente regredendo. La risposta della Cina alla guerra commerciale dell’amministrazione Trump, per esempio, è stata piuttosto indicativa da questo punto di vista. Anzitutto, la Cina non si è limitata a subire le sanzioni (e i dazi e le altre misure di coercizione economica), ma ha risposto in maniera piuttosto energica, provocando danni considerevoli all’economia americana.
La Cina sta anche approfittando delle sanzioni americane per fare accordi commerciali molto convenienti con i paesi che ne sono vittima, come l’Iran.
Infine, ha avviato un processo che gli esperti chiamano “decoupling”, cioè dissociazione, che mira a rendersi indipendente dalla tecnologia e dal sistema finanziario statunitense. Uno degli elementi più importanti del “decoupling” è la creazione di uno yuan virtuale e di un circuito finanziario separato da quello internazionale dominato dagli Stati Uniti, che quindi sarebbe meno vulnerabile alle sanzioni. Per ora si tratta soltanto di progetti: lo yuan, virtuale o no, è usato appena per il 2,4 per cento dei pagamenti a livello internazionale, contro il 38 per cento del dollaro, che è ancora la valuta di riferimento per tutti i principali commerci del mondo, come quello del petrolio.
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