Cos’è questa storia del vino annacquato per colpa dell’Europa
Nasce da una serie di bellicose prese di posizione delle associazioni di categoria italiane, e riguarda un complesso negoziato ancora in corso nelle istituzioni europee
Negli ultimi giorni in Italia è nato un dibattito intorno a un complesso negoziato in corso nelle istituzioni dell’Unione Europea sulla regolamentazione dei vini dealcolati, che cioè contengono un basso o nullo quantitativo di alcol. Il dibattito è stato innescato da una serie di dichiarazioni e comunicati molto bellicosi di Coldiretti, la potente e ascoltata associazione di categoria degli agricoltori italiani, secondo cui le nuove regole dell’Unione Europea sui vini dealcolati sono «un grosso rischio ed un precedente pericolosissimo e che metterebbe fortemente a rischio l’identità del vino italiano e europeo».
In realtà la questione è più complessa di come sembra, tanto che altre associazioni di categoria come l’Unione italiana vini (UIV) e la Federazione europea dei vini a denominazione di origine (EFOW) hanno espresso pareri più prudenti. Il negoziato in sede europea inoltre è ancora in corso, e al momento è difficile prevedere quale sarà l’esito.
I negoziati si stanno svolgendo nell’ambito della nuova Politica Agricola Comune europea (PAC), cioè la strategia pluriennale che i paesi dell’Unione Europea concordano per sostenere e indirizzare il settore agroalimentare europeo. La nuova PAC dovrebbe entrare in vigore nel 2023, dato che quella attualmente in vigore è stata prorogata fino al 2022. È un piano che mobilita miliardi di euro – per il bilancio pluriennale dal 2021 al 2027 sono circa 350 – e da cui dipendono decine di migliaia di agricoltori, pescatori e allevatori in tutta Europa.
Una componente importante della PAC è la cosiddetta Organizzazione comune dei mercati (CMO), un insieme di regole che riguardano soprattutto la commercializzazione e l’etichettatura dei prodotti agricoli. Sulla spinta di alcuni paesi, nel nuovo CMO si sta discutendo se includere alcune norme che permetterebbero di estendere le etichette delle denominazioni di origine – come DOP e IGP – anche ai vini dealcolati, cioè privati dell’alcol durante il processo di produzione: una pratica che si ottiene in vari modi, fra cui aumentando la quantità di acqua rispetto ai vini tradizionali.
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La proposta arriva soprattutto da alcuni paesi del Nord Europa, dove le bevande analcoliche sono sempre più diffuse per via delle preoccupazioni su dieta e salute in generale, ed è sostenuta anche dai produttori medio-grandi, desiderosi di accedere per esempio agli enormi mercati di paesi a maggioranza musulmana come Arabia Saudita e Indonesia, dove il consumo di alcolici è molto ridotto (e quindi anche dei vini europei).
Un Barolo o uno Champagne analcolico con un’etichetta europea di origine controllata aprirebbe molte prospettive per i produttori dei vini europei di eccellenza: sia sul mercato estero sia probabilmente, in minor parte, anche in Europa. Difficilmente però i produttori più piccoli potrebbero competere con quelli più grandi su questo nuovo ipotetico mercato, che potrebbe portare alla contrazione di quello attuale.
Paolo De Castro, europarlamentare del Partito Democratico e fra i più esperti e influenti sulle politiche agricole, ha spiegato a Repubblica che inizialmente il Parlamento Europeo aveva proposto di conservare la denominazione di “vino” ai vini dealcolati da tavola, escludendo i vini di eccellenza: «Mi sembrava una proposta più equilibrata, sulla quale ci potrà essere ancora dibattito», spiega De Castro: «In ogni caso non ne farei una questione troppo grossa perché l’accordo non obbligherà nessuno: ogni Stato avrà la possibilità di recepire questa opportunità o di scrivere una norma più restrittiva e in ogni caso la parola finale spetterà alle singole denominazioni e quindi ai consorzi».
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La posizione di De Castro è più o meno in linea con quella di Matilde Poggi, presidente della Federazione italiana vignaioli indipendenti, secondo cui la dealcolizzazione andrebbe permessa solo ai vini non protetti dalle denominazioni di origine: «Eliminare del tutto l’alcol significa usare del vino come base per fare bevande industriali che rispondono alla domanda di un certo tipo di consumatori, ma che non hanno nulla a che fare con il prodotto di partenza e con il nostro mondo».
L’UIV invece si dice più aperta a permettere la dealcolizzazione dei vini di eccellenza, anche «per evitare che possano divenire business di altre industrie estranee al mondo vino, e che dunque siano le imprese italiane a rispondere alle richieste di mercato».
La discussione in sede europea riguarda anche i metodi per realizzare il processo di dealcolizzazione: ce ne sono alcuni percepiti come estranei alla cultura vinicola come l’aggiunta di acqua a processo quasi concluso – sulla Stampa di sabato il fondatore di Slow Food Carlo Petrini l’ha definita «una frode» – e altri più tradizionali che permettono di ridurre drasticamente la gradazione alcolica di un vino senza annacquarlo. Fonti della Commissione Europea hanno detto al Corriere della Sera che al momento la bozza di negoziato «non contiene alcun riferimento all’aggiunta di acqua nel vino».
L’Italia è il primo produttore di vino al mondo, quindi anche nell’Unione Europea, e il parere della sua industria conta parecchio in negoziati come questi. Il compromesso finale del negoziato fra Parlamento, Commissione e Consiglio dell’Unione Europea – atteso fra la fine di maggio e l’inizio di giugno – dipenderà anche da come andranno le trattative su altri temi: per esempio sulle nuove regole del CMO sull’aggiunta di zuccheri ad alcuni tipi di vino, una pratica in uso da secoli nel Nord Europa ma poco diffusa al Sud, specialmente in Italia.
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