La vittima è l’eroe del nostro tempo
«Il 3 ottobre ricordiamo i morti. Ma non ci chiediamo mai chi siano quelle vite. Compassionevoli, non essendo riusciti a salvare quelle vite, abbiamo istituito per loro una giornata del ricordo, perché dobbiamo rievocare, serbare memoria affinché non si ripetano le tragedie del passato, ci ammonisce la storia. Compassionevoli tendiamo la mano ma non abbiamo un progetto comune del bene da condividere. Abbiamo imparato a memoria la poesia, ma non l’abbiamo capita»
La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subíto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto.
(Daniele Giglioli, Critica della Vittima, Nottetempo, 2014)
Dal 21 aprile scorso 130 persone risultano disperse nel Mediterraneo. Erano partite su un gommone dalle coste libiche e, dopo l’ennesimo naufragio, sono diventate numeri sulla lista delle vittime del Mediterraneo. Numeri e commozione, questa è la formula ragionieristica del nostro osservare il mare. Ragioneria come contabilità dei cadaveri senza nome e senza storia. E ragioneria dei sentimenti che è opportuno provare nella replica dello schema stimolo-risposta. A un naufragio corrispondono manifestazioni di sdegno (i trafficanti carnefici e senza scrupoli che consegnano a morte certa centinaia di persone, ergo: Basta!) e manifestazione di solidarietà e compassione (povere vittime, anime risucchiate dalle onde e ammazzate anche dalla nostra complicità con i trafficanti carnefici, ergo: Basta!). Prendiamo atto della morte, ci indigniamo, ci commuoviamo, ricordiamo di ricordare, forse anche a questo naufragio corrisponderà un’altra giornata della memoria, chissà. Soprattutto, di fronte ai morti in mare, noi tutti proviamo compassione.
Saremmo ugualmente commossi, proveremmo la stessa compassione, se anziché 130 persone migranti fossero annegati cavalli, mucche, o gattini?
Temo di sì, ci commuoveremmo altrettanto.
Qualche anno fa Daniele Giglioli, docente di Letterature Comparate all’Università di Bergamo, ha scritto Critica della vittima, un libro che ha definito un esperimento con l’etica, un breve testo pensato, per dirla con le sue parole, «non da letterato ma da cittadino» di fronte agli effetti della preoccupante diffusione del dispositivo vittimario.
Giglioli parte dall’assunto che la vittima abbia preso il posto dell’eroe. Che eroe sia oggi non più colui che attraverso il proprio agire diventa esemplare, ma che sia piuttosto diventato esemplare ciò che si attesta di aver subito. Assistiamo a un ribaltamento, dunque: non è il comportamento ad agire, incidere e diventare stimolo per gli altri, a indicare un valore per il bene collettivo. L’universo dei valori è, al contrario, indicato dal torto subito. L’exemplum non è fondato a partire dall’agire per rivendicare un diritto, cambiare uno stato di ingiustizia, ma è rappresentato dal fardello, dal danno che un singolo o una comunità hanno sofferto.
Un’etica funerea stabilita dal male ricevuto e non dal bene prodotto.
La vittima non vuole essere vittima, nota giustamente Giglioli, e allora come siamo arrivati a una tale centralità di questa griglia etica? E quali sono le conseguenze? Nell’interpretazione della realtà che viviamo, Giglioli cita alcuni passaggi storici, e certamente parlando di vittime e di Novecento non può prescindere dall’Olocausto. Cita Elie Wiesel, testimone di Auschwitz e premio Nobel per la Pace. In un discorso del 1967 in occasione della conferenza annuale della rivista Judaism, Wiesel, che non vuole pensare all’ebreo come sofferente ma come a un soggetto che può vincere la sofferenza, dice: «Perché pensiamo all’Olocausto con vergogna? Perché non lo rivendichiamo come un capitolo glorioso della nostra storia eterna? Dopotutto, ha mutato l’uomo e il mondo. Ha addirittura avuto il potere di cambiare il linguaggio. I quartieri dei neri vengono chiamati ghetti; Hiroshima viene spiegata attraverso Auschwitz. Resta il più grande evento del nostro tempo. Perché ne abbiamo vergogna?». Sulla scia di queste parole all’epoca quasi inascoltate – «Perché dovremmo vergognarci dell’esperienza che ci è capitata?» – Giglioli si domanda come si è potuti passare dalla vergogna dei sopravvissuti all’orgoglio della vittima. Perché, cioè, la condizione di vittima sia diventata desiderabile, quasi un titolo di merito al punto da generare un paradosso, una meritocrazia della sfortuna, ben espressa dal saggio di Jean-Michel Chaumont La concorrenza delle vittime: una disputa tra eredi di genocidi, una sorta di riconoscimento ereditario per i dolori degli avi, un’oppressione per discendenza che anziché tematizzare l’esperienza della memoria rischia di seppellirla.
La vittima è innocente per definizione, lo dice la sua biografia. Ha subito, non fatto. Quindi la sfera di vittima è anche una condizione di inattività, se fai sbagli se subisci no. Se sei passivo sei nel bene. Se resti passivo hai un’identità definita dallo stato di minorità e non sei responsabile, qualcun altro lo è al posto tuo.
Così ha agito anche la politica, negli ultimi anni. Rivendicandolo.
La vittima non deve diffidare, della vittima non si deve diffidare, la vittima è innocente e contribuisce alla dicotomia bene-male, la divisione tra chi ha subito e chi è carnefice. Un’opposizione che costruisce, che crea identità. Un’identità collettiva su cui nessuno può disputare, perché l’identità delle vittime non si discute. Si compatisce. E si sfrutta.
La condizione di vittima legittima azione e inazione, tutto è concesso a chi ha subito, e chi ha subito costruisce un immaginario, una macchina mitologica, un’identità che si fa instrumentum regni, una condizione di minorità che si fa potere.
Un potere fondato non più sul Che fare? Ma sul Chi sono?
Un’identità usata dal potere, perché la sofferenza dà dei diritti.
Perché la sofferenza genera potere.
Perché la sofferenza si controlla meglio: chi soffre si può plasmare, manipolare.
Un tale ribaltamento del piano etico ai nostri giorni è frutto, nella tesi del libro, di una paralisi della politica che, incapace di proporre un exemplum, un modello che rappresenti il bene comune, compensa questa mancanza nell’esaltazione di chi ha subito, e non di chi ha operato per cambiare. Dove i luoghi dell’agire politico sembrano danneggiati e zoppi, la macchina mitologica della vittima rischia di prevalere.
La prosopopea della vittima rafforza i potenti e indebolisce i subalterni. Svuota l’agency. Perpetua il dolore. Coltiva il risentimento. Incorona l’immaginario. Alimenta identità rigide e spesso fittizie. Inchioda al passato e ipoteca il futuro. Scoraggia la trasformazione. Privatizza la storia. Confonde libertà e irresponsabilità. Inorgoglisce l’impotenza, o la ammanta di potenza usurpata. Se la intende con la morte mentre fa mostra di compiangere la vita. Copre il vuoto che soggiace a ogni etica universale. Rimuove e anzi rigetta il conflitto, grida scandalo alla contraddizione. Impedisce di cogliere la vera mancanza, che è un difetto di prassi, di politica, di azione comune. […] La mitologia vittimaria è una subalternità che perpetua il dominio.
Torniamo al Mar Mediterraneo.
Ogni anno, dal 2013, il 3 ottobre commemoriamo il naufragio di Lampedusa che ha provocato 368 morti e almeno venti dispersi.
Molte cose sono cambiate dal 2013, tra le due sponde del Mediterraneo. La missione navale di salvataggio Mare Nostrum, iniziata dopo la strage del 3 ottobre, ha lasciato lentamente il posto all’esternalizzazione dei confini, ai Memorandum con le fragili autorità libiche, ai respingimenti per procura. È cambiato il lessico, in poco meno di dieci anni.
Nella narrazione diffusa le prima celebrate missioni umanitarie si sono trasformate in taxi del mare, gli operatori delle Ong impegnate nei salvataggi sono stati trasformati in complici degli scafisti e dunque dell’invasione (presunta) delle coste italiane, e così i porti sono stati chiusi, le navi bloccate da perquisizioni costanti.
Si sono, nel tempo, sviluppate e cristallizzate due macchine mitologiche della vittima, due proiezioni opposte ma che si sono mutuamente alimentate. Da un lato l’impianto teorico dell’invasione, la costruzione simbolica di un’emergenza umanitaria che minacciava la stabilità del paese, e dall’altra la rivendicazione di chi, in mare e a terra, salva vite umane, una costruzione simbolica a sua volta d’emergenza. L’emergenza di chi, sicuramente in buona fede, risponde alla retorica dell’invasione con una retorica opposta, quella della tragicità delle vittime del mare, il “paradigma umanitario”.
Due impianti vittimari dunque. Siamo vittime dell’invasione VS aiutiamo le vittime in mare.
In entrambi i casi il fenomeno migratorio è privato di una tematizzazione, di una riflessione più estesa, e dunque della possibilità di domandarsi – e pertanto chiedere alla politica – un Che fare? che duri nel tempo. Che gestisca e non tamponi.
Se esiste un fenomeno da gestire – o meglio, per dirla col lessico corrente se esiste un’emergenza da fronteggiare – non lo si sta inquadrando in un contesto storico fatto di dati, statistiche, avvenimenti prevedibili e dunque governabili. No, i fenomeni (le crisi) si fotografano col filtro della vittima. In mare non c’è un fenomeno da regolare, ma due poli opposti ai lati delle tifoserie: un invasore da rispedire a casa, o una vittima da salvare. Anche loro, anche le persone migranti che attraversano il Mediterraneo, esistono solo in quanto hanno subito.
È il catalogo delle disgrazie che hanno attraversato che garantirà loro, o le priverà, del diritto dell’approdo. Chi arriva e viene accolto, non viene accolto in quanto essere umano che può fare qualcosa, proporre un’idea di vita cui aspira, ma viene accolto in quanto vittima da soccorrere, soggetto subalterno alla compassione, dunque generosità, di chi apre le porte al suo dolore e lo compensa con l’unico mezzo che ha: la compassione.
In questo modo la vittima-salvata smette di essere un attore politico e non diventerà mai portatore di un progetto, portatore di un desiderio (che parola spaventosa la parola desiderio), il suo corpo – che arrivi vivo oppure morto – esiste solo in qualità di testimonianza di una tragedia: una guerra, uno stupro, una persecuzione politica, il viaggio nel deserto, le carceri libiche, l’esperienza del mare, un naufragio eventuale.
Ecco dunque che arriviamo alle domande: nel Mediterraneo vanno salvati solo coloro che scappano o anche i soggetti attivi che desiderano una vita diversa, non necessariamente migliore?
Va salvato chi, in quanto vittima, e dunque subalterno alla nostra compassione, non snaturi né alteri la nostra scala valoriale, non la metta in discussione, oppure merita rispetto anche chi arriva proponendo un universo di valori che eventualmente non ci corrisponda e che talvolta fatichiamo ad accettare?
Questo interrogativo resterà senza risposta finché continueremo a ricordare le esperienze delle persone migranti senza tematizzarle, a parlare di loro solo quando sono sul punto di morire annegati, cioè sempre troppo tardi, senza aver mai domandato loro non solo come fosse la vita da cui arrivavano ma anche – forse soprattutto – quella che si aspettavano di trovare.
Senza aver chiesto alle persone migranti se volessero essere considerate vittime-eroi-del-nostro-tempo, o soggetti e corpi politici, portatori di istanze, contraddizioni, conflitti.
Temo che non lo capiremo mai finché di loro mostreremo solo la mano nera arrendevole aiutata dalla mano bianca compassionevole e misericordiosa.
Accettarli come soggetti attivi e desideranti terrorizza, espone, bracca.
Considerarli vittime è più semplice, perché non sono muniti di voce ma solo di dolore.
Non sono presente, sono destinati a diventare memoria, generalmente luttuosa.
Il 3 ottobre ricordiamo i morti. Ma non ci chiediamo mai chi siano quelle vite. Compassionevoli, non essendo riusciti a salvare quelle vite, abbiamo istituito per loro una giornata del ricordo, perché dobbiamo rievocare, serbare memoria affinché non si ripetano le tragedie del passato, ci ammonisce la storia. Compassionevoli tendiamo la mano ma non abbiamo un progetto comune del bene da condividere. Abbiamo imparato a memoria la poesia, ma non l’abbiamo capita.
Celebriamo la sofferenza senza comprendere, su questo punto ci inchioda Giglioli, in conclusione del suo esperimento con l’etica: non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo.