Alle multinazionali della carne ora piace anche quella vegetale
Le prime due del settore hanno aumentato la produzione di alternative vegane, confermando che qualcosa sta cambiando
Negli ultimi tempi alcune enormi multinazionali che si occupano di produzione e distribuzione di carne hanno deciso di incrementare significativamente la produzione della cosiddetta “carne vegetale”, come – ma non solo – i “finti hamburger”. Cioè quegli alimenti che ricordano nell’aspetto, nella consistenza e talvolta nel gusto la carne, ma che sono interamente a base vegetale. Lo hanno fatto nel giro di poche settimane la brasiliana JBS e la statunitense Tyson Food Inc., prima e seconda multinazionale al mondo nel settore della carne.
Per queste aziende, proporre prodotti sostitutivi della carne non è soltanto un’opportunità per allargare il proprio mercato ma è anche una questione di sopravvivenza: il consumo e la richiesta di sostituti della carne a base vegetale sono in forte crescita, e l’importanza di ridurre i derivati animali nelle proprie diete è percepita da sempre più persone nel mondo. L’allevamento è una delle fonti primarie di emissioni di gas serra, la causa del cambiamento climatico. Le multinazionali della carne si stanno rendendo conto dell’irreversibilità di queste abitudini e della diffusione di queste sensibilità, e temono di rimanere indietro rispetto alle aziende che già producono esclusivamente prodotti vegetali che ricordano la carne, un mercato nuovo e ancora relativamente piccolo, ma in forte espansione.
Poche settimane fa l’azienda brasiliana JBS, il primo produttore di carne al mondo, ha annunciato che rileverà per 341 milioni di euro l’azienda di prodotti vegetali olandese Vivera BV, che ha una linea di 50 articoli venduti in 25 paesi europei. Lunedì 3 maggio, la multinazionale statunitense Tyson Food Inc., il secondo produttore mondiale di carne, ha invece introdotto la sua linea di prodotti a base vegetale, tra cui un burger, un tipo di wurstel e un tipo di salsiccia che non contengono ingredienti di origine animale, dunque adatti per le persone vegane.
Già due anni fa la multinazionale americana Kellogg aveva ampliato la sua linea di prodotti per vegetariani e vegani iniziando a produrre carne vegetale col marchio MorningStar Farms e lo stesso aveva fatto Hormel Foods, conosciuta soprattutto per la Spam e altri tipi di carne in scatola o surgelati; lo scorso settembre Hormel ha peraltro iniziato a produrre anche il salame vegetale a base di soia per sostituire uno degli ingredienti della pizza più amati negli Stati Uniti (la pizza “pepperoni” è quella col salame piccante, appunto).
Sia JBS che Tyson avevano iniziato a introdursi nel mercato della carne vegetale nel 2019 senza troppo successo, ma gli ultimi piani per incrementarne la produzione sono più strutturati. Se dapprima le industrie della carne bovina avevano cercato di ostacolare i produttori di carne di origine vegetale chiedendo che non usassero la parola “carne” per commercializzare i loro prodotti, sostenendo che potesse confondere i consumatori, adesso le cose sono cambiate.
We’re excited to announce the creation and launch of plant-forward meat alternative HAPPY LITTLE PLANTS™ brand: https://t.co/A0jwFDuNem $HRL pic.twitter.com/XG3w01FzjD
— Hormel Foods (@HormelFoods) September 4, 2019
La carne vegetale può essere molte cose diverse, ma quella su cui si stanno concentrando i maggiori e più recenti sforzi delle multinazionali ha un aspetto, un sapore e un profumo molto simili a quelli della carne vera, con la differenza che per la sua produzione vengono impiegate molte meno risorse ambientali. Per fare un esempio, la carne a base vegetale di Impossible Foods – uno dei principali produttori – è fatta da grano, olio di cocco, patate ed eme (in inglese “heme”), un composto organico che contiene ferro e che si trova nell’emoglobina del sangue.
Un burger di Impossible Foods viene prodotto emettendo l’87 per cento di gas serra in meno rispetto a un hamburger di bovino, usando il 75 per cento di acqua in meno e il 95 per cento di terra in meno. Il tutto, ovviamente, senza gli allevamenti intensivi con i quali sono cresciuti gli animali destinati all’industria alimentare. La carne vegetale è pertanto un prodotto che consente di assumere proteine e di limitare il consumo di carne derivata dagli allevamenti intensivi, e allo stesso tempo contribuisce a contenere i consumi e le emissioni collegate.
Pleased to “meat” you, @incogmeato. https://t.co/annrMKnA4p
— MorningStar Farms (@MorningStrFarms) February 12, 2020
Negli Stati Uniti la carne vegetale si può trovare un po’ dappertutto, dai supermercati alle catene di fast food come Burger King e McDonald’s, che in tempi più recenti hanno incominciato a introdurla anche in Italia, dove però può essere ancora complicato trovarla in commercio. I suoi consumi sono in costante crescita, specialmente nei paesi occidentali.
Come ha stimato il Good Food Institute (GFI), un’organizzazione non profit, nel 2020 più della metà delle famiglie americane ha comprato prodotti a base vegetale che imitano quelli a base animale e il 18 per cento di loro (circa 23 milioni di famiglie) ha acquistato almeno una volta carne vegetale, il 4 per cento in più rispetto all’anno precedente.
Secondo il recente rapporto della Plant Based Food Association, uno dei maggiori gruppi che sostengono il consumo di prodotti alternativi alla carne, nel 2020 le vendite di carne vegetale negli Stati Uniti sono aumentate del 45 per cento rispetto al 2019, raggiungendo un giro di affari pari a 1 miliardo e 400 milioni di dollari (circa 1 miliardo e 115 milioni di euro) contro i 962 milioni di dollari del 2019 (800 milioni di euro). Inoltre, una ricerca della società di consulenza Kearney, citata da Bloomberg, ha stimato che nel 2040 il mercato della carne vegetale rappresenterà un quarto del mercato della carne vera.
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Il vice presidente della divisione “proteine alternative” di Tyson Foods, David Ervin, ha detto a Bloomberg che l’azienda ha visto una «crescita incredibile» dei suoi prodotti vegetali eppure sa di aver «agito molto in superficie». Adesso l’obiettivo di Tyson è realizzare prodotti che abbiano il sapore della carne vera soprattutto per convincere i clienti curiosi a provarli e allargare ulteriormente la platea dei consumatori, espandendosi sia nel mercato europeo che in quello del sud-est asiatico e australiano.
Per Gilberto Tomazoni, amministratore delegato di JBS, Impossible Foods e Beyond Meats sono partite in una posizione di vantaggio, ma questo è «l’inizio di una gara sul lungo periodo». Nel 2020 le vendite dei prodotti vegetali di JBS a marchio Ozo negli Stati Uniti sono aumentate del 300 per cento, e secondo Tomazoni con l’acquisizione di Vivera l’azienda diventerà il terzo produttore di cibi a base vegetale alternativi alla carne in Europa.
Secondo Dennis Woodside, presidente di Impossible Foods, più che tra produttori di carne vegetale, la competizione è tra carne vegetale e carne vera, che si trova a un costo inferiore rispetto ai prodotti a base vegetale, cosa che talvolta ha portato aziende come Impossible Foods ad abbassare i prezzi.
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Uno dei problemi principali è che, per ragioni etiche, alcune persone vegane o vegetariane potrebbero non voler comprare prodotti a base vegetale di multinazionali della carne, ha spiegato Kory Zelickson, responsabile del supermercato vegano online canadese Vejii. Allo stesso tempo, secondo Zelickson sarebbe opportuno che i consumatori «considerassero il quadro in generale» della situazione e capissero meglio le conseguenze delle loro scelte, così come le decisioni dei produttori di carne.
A ogni modo, il Good Food Institute ha evidenziato che nel 2020 il mercato delle proteine vegetali ha raccolto investimenti per oltre 3,1 miliardi di dollari (circa 2 miliardi e 600 milioni di euro): tre volte in più rispetto a quello che era stato raccolto nel 2019 e quattro e volte e mezzo in più rispetto al 2018. Secondo l’esperta di investimenti del GFI Sharyn Murray, questo dimostra che sempre più imprenditori «vedono il potenziale di successo delle proteine alternative e allo stesso tempo riconoscono il loro impatto positivo sulla sostenibilità alimentare e il benessere globale», utili anche nell’ottica di raggiungere le cosiddette “emissioni zero” entro il 2050, come previsto dall’accordo sul clima di Parigi del 2015.