Storia di un libro femminista rivoluzionario
"Our Bodies, Ourselves", pubblicato 50 anni fa da un collettivo americano, spiegò per la prima volta a tantissime donne come funzionavano i loro corpi
Il libro Our Bodies, Ourselves, diventato un successo con il titolo con cui è conosciuto ancora oggi nel 1971, cinquant’anni fa, è considerato un classico femminista ed è stato definito «la Bibbia per la salute delle donne». Ha venduto più di 4 milioni di copie nel mondo, è stato tradotto in trentatré lingue e ha portato alla nascita di un’organizzazione che, ancora oggi, si occupa di salute sessuale e riproduttiva. Per molte generazioni fu un testo rivoluzionario: raccontava, per la prima volta, la verità sui corpi delle donne e superava e metteva in discussione il sapere medico intorno alla sessualità femminile. Era stato scritto, soprattutto, da donne per donne.
Il Guardian ha raccontato in un recente articolo la nascita del libro a partire da una delle sue autrici, Wendy Sanford. Nel 1969, Sanford era sposata e viveva a Cambridge, nel Massachusetts (Stati Uniti), con il marito e il figlio appena nato. Due anni prima si era laureata con il massimo dei voti e la lode al prestigioso Radcliffe College, ma «la strada davanti a lei era segnata»: focolare, cura della casa, cucina. Sanford andò in crisi e decise di rivolgersi al suo medico, il quale le consigliò di trovare pace e felicità nel suo essere moglie e madre. Le suggerì anche di cominciare ad usare il diaframma come strumento contraccettivo, e quando lei gli chiese quando avrebbe dovuto metterlo il medico le rispose: cena, piatti, diaframma.
Quando il figlio aveva nove mesi, scrive il Guardian, Sanford venne invitata da un’amica a un incontro sulla salute delle donne al Massachusetts Institute of Technology (MIT), una delle più importanti università di ricerca al mondo con sede a Cambridge. Lei andò e non trovò affatto quel che si aspettava: la sala era piena di donne che parlavano di clitoride, orgasmo e masturbazione, tutte cose che lei e molte come lei non avevano mai sentito pronunciare ad alta voce. A un certo punto dell’incontro, racconta Sanford, venne mostrata l’immagine a grandezza naturale di una donna con le gambe divaricate, per mostrare la posizione della clitoride e per spiegare come, contrariamente al pensiero freudiano, medico e popolare, fosse l’organo principale del piacere femminile. «Chi lo sapeva?» venne chiesto al gruppo: «Dovremmo sapere queste cose. Questi sono i nostri corpi». Sanford dice che quell’incontro cambiò la sua vita, e che da lì in poi si dedicò al movimento per la salute delle donne.
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Le origini del libro iniziarono alcuni mesi prima dell’incontro al MIT a cui partecipò Sanford. Nel maggio dello stesso anno, mentre i movimenti delle donne stavano crescendo e diventando sempre più forti, si tenne una conferenza femminista all’Emmanuel College di Cambridge. Al seminario, intitolato “Le donne e il loro corpo”, le partecipanti cominciarono a condividere le loro esperienze, la loro relazione con i medici e con il sapere medico e la loro frustrazione per quanto poco conoscessero del funzionamento dei loro corpi. Nei mesi successivi alcune di loro, che avevano tra i 23 e i 39 anni, formarono un gruppo e portarono avanti scambi ed esperienze.
Nel 1970, decisero di trovare un formato accessibile per diffondere i loro saperi condivisi e pubblicarono un opuscolo di 193 pagine fatto di carta da giornale intitolato Women and Their Bodies (PDF). Costava 75 centesimi. L’anno dopo decisero di cambiare il titolo in Our Bodies, Ourselves per mettere al centro del discorso l’autodeterminazione delle donne sul loro corpo. E il libro divenne rapidamente un successo, funzionando con il passaparola: ne vendettero 225 mila copie al prezzo di 30 centesimi (meno di due euro, rapportati a oggi).
Il successo dell’opuscolo attirò l’attenzione della casa editrice Simon&Schuster che nel 1973 pubblicò la prima edizione commerciale aggiornata, di 276 pagine, di Our Bodies, Ourselves. Nel collettivo che l’aveva scritto – e che nel frattempo aveva formato il Boston Women’s Health Book Collective, organizzazione senza scopo di lucro che ora si chiama Our Bodies Ourselves – vi fu una lunga discussione per arrivare a questa decisione. Alla fine, spinte dal desiderio di raggiungere un pubblico più ampio, le autrici accettarono di consegnare il loro lavoro a una casa editrice, a patto di mantenere il pieno controllo editoriale della pubblicazione, di poter garantire uno sconto del 70 per cento sul libro se ad acquistarlo fossero stati i centri sanitari no profit e a condizione che il testo venisse tradotto in spagnolo. Nello stesso anno dell’uscita, Christopher Lehmann-Haupt recensì il libro per il New York Times.
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Our Bodies, Ourselves parla di salute sessuale, di orientamento sessuale, di mestruazioni, maternità, menopausa, depressione post partum, di aborto (quando l’aborto era ancora illegale in gran parte degli Stati Uniti), di violenza e abusi contro le donne, di identità di genere, di controllo delle nascite e di desiderio.
Le autrici sono dodici: Wendy Sanford, Ruth Bell Alexander, Pamela Berger, Joan Ditzion, Vilunya Diskin, Paula Doress-Worters, Miriam Hawley (che aveva organizzato l’incontro da cui era nato il libro), Elizabeth MacMahon-Herrera, Judy Norsigian, Jane Pincus, Norma Swenson e Sally Whelan. Ognuna di loro si occupò di un argomento specifico, facendo ricerche e poi scrivendone. E nessuna aveva precise competenze mediche, anche se diversi medici furono interpellati. Oltre a una serie di informazioni, il libro aveva delle illustrazioni e, seguendo la tradizionale pratica femminista del “partire da sé”, riportava molte storie di donne raccontate in prima persona. Il tono era informale e divenne ben presto un libro da tramandare di madre in figlia.
«Per generazioni di ragazze, Our Bodies, Ourselves è stato uno “starter pack” per l’età adulta, un manuale di istruzioni che ti spiegava se la tua vulva aveva un aspetto strano (non lo aveva), che tipo di contraccezione avresti dovuto scegliere e se eri l’unica che aveva un rapporto speciale con il proprio cuscino (non lo eri, assicurato)», ha scritto ad esempio la giornalista femminista Jessica Valenti sul New York Times. Miriam Hawley, una delle autrici, ha spiegato che le donne non erano mai state incoraggiate a fare domande sul loro corpo e sulla loro sessualità, dovendo dipendere completamente dai cosiddetti esperti: «Non avere voce in capitolo ci ha frustrate e fatte arrabbiare. Non avevamo le informazioni di cui avevamo bisogno, quindi abbiamo deciso di trovarle da sole».
Le autrici hanno spiegato di essere state spinte da quattro ragioni principali: le esperienze personali sono una pratica preziosa per comprendere il proprio corpo al di là dei semplici dati che gli esperti possono fornire; questo tipo di apprendimento dava anche una preparazione e il potere di confrontarsi o di valutare le istituzioni mediche incaricate di soddisfare le necessità delle donne legate alla loro salute; la storica mancanza di conoscenza di sé sul corpo femminile «aveva avuto una conseguenza importante: la gravidanza» e attraverso una maggiore informazione le donne avrebbero avuto maggiori capacità di fare scelte consapevoli sulla maternità; infine, quello sul proprio corpo è un sapere fondamentale che ha ripercussioni anche nel riequilibrio delle disuguaglianze di genere.
La radicalità di Our Bodies, Ourselves stava soprattutto nel fatto che era un libro scritto da donne per donne, che rimetteva in discussione la medicalizzazione sui corpi femminili e che si basava sulla presa di coscienza che anche la medicina, fin dalle sue origini, aveva avuto un’impostazione androcentrica, relegando gli interessi per la salute femminile ai soli aspetti specifici correlati alla riproduzione. Le donne, ancora oggi, restano sotto-rappresentate nella ricerca biomedica e nella sperimentazione, che continuano a fondarsi sul tacito presupposto che donne e uomini siano fisiologicamente simili in tutto.
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Questo falso presupposto ha avuto enormi conseguenze sulla diagnosi e il trattamento delle malattie, ma ha avuto conseguenze che sono andate ben oltre tali ambiti. Uno degli stereotipi più radicati sul femminile e sul maschile è quello che associa le donne all’irrazionalità e al disordine, e gli uomini alla razionalità e alla stabilità. E nasce dall’aver concatenato, fin dall’inizio, le propensioni mentali delle donne alla loro fisiologia riproduttiva. Basti pensare all’origine del termine “isteria”, riconducibile alla parola che nella Grecia antica indicava l’utero, Hustéra: già Platone descriveva l’utero come una bestia nel corpo delle donne, che si placa solamente quando viene “riempito”. La visione platonica dell’utero femminile come un animale vagante, capace di scatenare nella donna crisi isteriche che conducevano sino alla morte, permane identica anche nei testi di medicina del Settecento e persiste oggi in diffusi pregiudizi.
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«Noi donne stiamo ridefinendo la competenza», si dice nell’edizione degli anni Settanta di Our Bodies, Ourselves: «Un medico che si comporta in modo maschilista non è competente, anche se ha capacità mediche. Abbiamo deciso che la salute non può più essere definita da un gruppo d’élite di uomini bianchi della classe medio-alta. Deve essere definita da noi».
Il libro ha ricevuto negli anni anche diverse critiche: piuttosto scontate («è spazzatura») alcune, da parte di uomini e rappresentanti religiosi con visioni molto conservatrici. Più fondate, altre. Si disse, ad esempio, che le donne del collettivo erano tutte bianche, abili e ben istruite. Le edizioni successive, curate da un gruppo che si era molto allargato, sono state giudicate più inclusive.
Il libro è stato aggiornato nove volte, l’ultima edizione è del 2011, ha venduto più di 4 milioni di copie ed è disponibile in trentatré lingue. Come sempre accade, i movimenti femministi con contenuti sostanzialmente omogenei prendono pieghe e tensioni diverse a seconda dei contesti nazionali. Così, quando il libro ha cominciato a diffondersi in tutto il mondo non è stato semplicemente tradotto, ma adattato ai vari contesti. Tra questi adattamenti, dice il Guardian, c’è l’edizione ugandese del 2017, curata da Diana Namumbejja Abwoye, 35 anni, infermiera, parte del consiglio di amministrazione di Our Bodies, Ourselves, che ha dovuto trovare delle strategie per parlare, nel suo paese, di aborto e relazioni omosessuali.
Dal 2011 non ci sono più state nuove edizioni cartacee di Our Bodies, Ourselves e anche l’omonima organizzazione, per motivi finanziari, si è dovuta ridimensionare (ora, ad esempio, ci lavorano solo volontarie). Ma gli aggiornamenti e la diffusione del libro in altri paesi proseguono online. Il collettivo ha nel frattempo pubblicato altri libri, sulle persone trans, ad esempio, ma continuando a tenere ben fermo un principio: non partire dai saperi medici, ma dai saperi, dalle esperienze e dalle vite dei soggetti coinvolti.
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