In Polonia piacciono le comunità residenziali chiuse
Sono più diffuse che nel resto d'Europa e alcune sono pensate per persone “simili”, cosa che molti esperti giudicano problematica
Negli ultimi trent’anni in Polonia si sono diffuse significativamente le comunità residenziali chiuse, ovvero complessi abitativi isolati dall’esterno per mezzo di recinzioni e barriere (conosciute anche come “gated community”). Alcune di queste residenze sono state pensate per essere abitate da persone che condividono gli stessi interessi: secondo gli architetti che le progettano, questo può contribuire a far sentire i residenti più protetti, ma secondo altri esperti e critici li farebbe sentire ancora più isolati, creando notevoli problemi nell’interazione con chi abita all’esterno ed esacerbando disparità che erano già state osservate da tempo.
Le comunità residenziali chiuse si potrebbero definire “comunità all’interno delle comunità”: sono quartieri recintati composti da palazzi, ville o villette a schiera che al loro interno hanno aree o servizi comuni, come parchi e impianti sportivi, ma anche bar, ristoranti o farmacie. Nella maggior parte dei casi sono presidiate da personale di sicurezza, che regola l’accesso dei residenti e dei loro ospiti e controlla quello che succede al loro interno. Sono molto diffuse negli Stati Uniti e ce ne sono alcune anche in Italia, come Borgo di Vione, vicino a Milano, e Olgiata, poco fuori Roma. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991, hanno cominciato gradualmente a diffondersi in diversi paesi dell’Europa dell’Est e oggi sono molto comuni in particolare in Polonia.
Gli studiosi Setha Lowe, Edward Blakely e Mary Gail Snyder, citati dal giornale accademico dell’Università svedese Södertörn, Baltic Worlds, hanno suddiviso le comunità residenziali chiuse sostanzialmente in tre tipi: quelle basate sullo stile di vita, quelle incentrate sul prestigio e quelle che sono state realizzate per dare più sicurezza a chi ci abita.
Negli ultimi anni in Polonia stanno nascendo sempre più comunità del primo tipo, create per persone che condividono gli stessi interessi: come ha raccontato il giornale tedesco DW, sono per esempio state progettate comunità per le famiglie molto religiose, in cui ogni casa ha al suo interno una piccola cappella o spazi per conservare le reliquie di famiglia, oppure quelle dove non sono ammessi i bambini, per persone che preferiscono “non essere disturbate”, per così dire.
In ogni caso, per dare l’idea, nella capitale polacca Varsavia ci sono più di 400 comunità residenziali chiuse. Il fenomeno si è esteso così tanto che secondo i dati citati da Baltic Worlds nel 2013 il 75 per cento delle nuove costruzioni in vendita nell’area di Varsavia era composto da comunità residenziali chiuse o comunque sorvegliate. Negli ultimi anni la loro popolarità è cresciuta anche nelle vicinanze delle altre maggiori città polacche, come Danzica, Cracovia, Poznań e Katowice, così come vicino a città più piccole.
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Una delle gated community più note in Polonia è quella di Marina Mokotów, che si trova nel sud di Varsavia: al suo interno ci sono 1.800 unità abitative, un parco con un lago artificiale, un ristorante, alcuni negozi di alimentari, una banca, un salone di bellezza e altri servizi. Baltic Worlds ha spiegato che dopo esserci entrati – superando il controllo del personale di sicurezza – si possono percorrere normalmente le strade che sono segnalate su qualsiasi mappa cittadina, senza indicazioni che suggeriscano che sono comprese in una comunità a cui non si può accedere liberamente.
Il problema secondo diversi esperti ed accademici è che se già il sistema delle comunità residenziali chiuse può creare esclusione e alimentare le iniquità tra chi ci vive dentro e chi ne sta fuori, la divisione basata sugli interessi degli abitanti può peggiorare ulteriormente questo tipo di disparità, creando una sorta di ghettizzazione e ponendo serie questioni etiche riguardo al contributo in termini di polarizzazione delle identità e di costruzione di un senso di comunità locale.
La sociologa Dominika Polanska, professoressa dell’Università svedese di Uppsala, ha spiegato che il fenomeno delle comunità residenziali chiuse non è del tutto nuovo per la Polonia, perché nell’Europa orientale gli alti rappresentanti del Partito Comunista abitavano molto spesso in contesti simili. Tuttavia, dalla fine degli anni Ottanta, con il dissolvimento dell’Unione Sovietica, c’è stato un trasferimento del potere dallo stato centrale alle comunità locali, e in questo contesto gli imprenditori privati hanno trovato l’opportunità di «dettare le “regole”» nell’ambito dello sviluppo urbano, ha notato Polanska.
Allo stesso tempo, ha influito anche la crescita economica della Polonia, che soprattutto negli ultimi vent’anni ha portato sempre più persone a scegliere di abbandonare le città per trasferirsi in case più ampie e confortevoli, magari a pochi chilometri di distanza dai grandi centri urbani, e spesso a prezzi più convenienti. In uno studio del 2010 Polanska aveva spiegato che la maggior parte di loro sono persone relativamente giovani, tra i 30 e i 40 anni, con un buon grado di istruzione.
Molti studiosi, però, evidenziano da tempo le implicazioni di questo tipo di abitazione.
Riprendendo le parole di Rowland Atkinson, professore di Studi urbani e pianificazione all’Università di Sheffield (Regno Unito), Polanska ha spiegato che le comunità residenziali chiuse danno una «dimensione fisica ai livelli di segregazione che già esistono». Detto in altre parole, possono essere esempi di “esclusione volontaria” dalla società e avere un impatto negativo sulla coesione sociale, funzionando un po’ come dei ghetti.
Il problema era stato osservato già nel 2010 da una ricerca finanziata dall’Unione Europea, secondo cui lo sviluppo delle comunità residenziali chiuse poteva creare qualche preoccupazione e doveva essere approfondito.
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Secondo Aleksandra Kunce, ricercatrice di Scienze culturali dell’Università di Katowice, l’identità di una comunità dovrebbe evolversi in maniera organica, e avere per vicini di casa persone con interessi simili e una simile visione del mondo potrebbe rendere i complessi residenziali chiusi «caricature» di una comunità. Kunce ha detto che vivere in questi contesti è un po’ «come stare in un bunker»: ci si sente sicuri ma allo stesso tempo «si sta attenti ai nemici», cioè chi vive all’esterno, e questo potrebbe far aumentare i livelli di ansia e la sensazione di non avere alcun rifugio.
Tra le altre cose, secondo Kunce, il boom delle gated community in aree come Varsavia non può essere spiegato dai livelli di criminalità, che sono piuttosto bassi, e presto gli abitanti di queste comunità finiranno col sentirsi più limitati che protetti.
Anche l’architetto Katarzyna Rokicka-Müller, che negli ultimi 20 anni ha progettato diverse comunità residenziali chiuse, ha detto a DW che le persone che ci abitano vivono «in gabbie». Rokicka-Müller ha spiegato di aver sempre incoraggiato gli investitori a creare «spazi aperti, in modo che le persone possano entrare in contatto le une con le altre», perché la società polacca «è già abbastanza divisa»: tuttavia, nella sua carriera non ha mai progettato una comunità residenziale che non fosse chiusa.
Come aveva osservato il ricercatore dell’Università di Salisburgo Christian Smigiel, quella delle comunità residenziali chiuse è una situazione abitativa che mette di fronte a diversi paradossi: per esempio quanto sia davvero esclusiva se diventa lo standard, e quanto si possa essere davvero liberi se si sceglie di vivere confinati.