Paralizzata dalla bellezza
«Il lockdown ha denudato il re: Firenze è una città immobile che rischia di morire per il troppo movimento. Non è un ossimoro. Otto milioni e mezzo di turisti ogni anno creano un moto perpetuo di sandali e sneakers lungo alcune vie e piazze del centro. Sempre le stesse, avanti e indietro, seguendo i tracciati classici e la guida con l’ombrellino alzato. Con la pandemia il movimento è sparito ed è rimasta l’immobilità»
“Sei a Firenze? Chissà com’è bella ora che non ci sono i turisti” dice la mia amica al telefono. “No”, rispondo. “Per niente bella. È triste. Anzi, mette l’angoscia”. “Ma come? Firenze è bella sempre… Voi fiorentini non siete mai contenti. Quando ci sono i maledetti turisti non vi va bene perché la città soffoca. Quando non ci sono, perché la città è morta. Siete insopportabili”. Questo è sicuro, che i fiorentini sono insopportabili. Eppure, è così. Firenze, come credo altre città d’arte, come Venezia, sono dannate. Imprigionate dalla loro bellezza, che è la loro fortuna e la loro maledizione.
Sono nata a Firenze (quindi probabilmente insopportabile), me ne sono andata quando avevo vent’anni, prima a Roma, poi a Milano, poi a Londra, ma a Firenze torno appena posso. Un po’ perché mia madre ultraottantenne vive lì e c’è ancora la casa di famiglia. Un po’ perché Firenze è una dannazione eterna, chi ci è nato e cresciuto, ritenendola la città più bella del mondo (i fiorentini oltre che insopportabili sono anche presuntuosi e campanilisti) non riesce mai a liberarsi fino in fondo di quella bellezza che pensa sia sua, ma che con la pandemia ti rendi conto di quanto sia inutile, se non è condivisa con il resto del mondo.
Quindi, anche durante gli ultimi mesi, tra un lockdown e l’altro, facendo gli slalom tra le regioni semaforo, ci sono tornata. E ho camminato per le strade tristi del grande animale ferito, perché così mi è sembrata Firenze senza i turisti. La vedevo – in quei giorni – come una metafora dell’Italia: anche lei così bella e così dannata.
Ho camminato per il centro storico, alla ricerca dei luoghi del cuore, che per me sono spesso anche luoghi dello stomaco. Il trippaio del Porcellino, un baracchino che vende trippa e lampredotto proprio dietro piazza della Signoria, era chiuso. Mi sono allungata fino al Vinaino di via Vacchereccia, che non è neppure un negozio, ma una vetrina con il bancone sulla strada: si beve un bicchiere di rosso, accompagnato da pane e finocchiona, o pecorino di Pienza o soprassata. Sono tutti i sapori antichi dell’infanzia e della giovinezza, delle “forche” a scuola (a Firenze si chiamano così, e all’epoca – senza telefonini e registri elettronici a controllarci – si poteva usufruire di qualche libera uscita non autorizzata). Anche il Vinaino era chiuso. Ho camminato a lungo, in cerca di gelaterie. Anche il mitico Vivoli con la sua crema di riso era chiuso. Saracinesche abbassate, senza neppure il cartello “chiuso per Covid”, tanto era ovvio.
Altri invece il cartello l’avevano: affittasi, cedesi attività, chiuso per sempre. Almeno durante l’alluvione del 1966 i fiorentini riuscivano a sfoderare il loro sarcasmo. Ho sempre in mente quella che per me rimane la foto simbolo di quel disastro: sulla saracinesca di un bar allagato un cartello scritto a mano, tutto storto, avvisava “Chiuso per nervoso”. Ora anche quello spirito si è perso.
Il lockdown ha denudato il re: Firenze è una città immobile che rischia di morire per il troppo movimento. Non è un ossimoro. Otto milioni e mezzo di turisti ogni anno creano un moto perpetuo di sandali e sneakers lungo alcune vie e piazze del centro. Sempre le stesse, avanti e indietro, seguendo i tracciati classici e la guida con l’ombrellino alzato. Con la pandemia il movimento è sparito ed è rimasta l’immobilità. Il vuoto immobile, un vuoto diverso da quello di una città come Londra, per esempio. Anche il centro di Londra o la City erano vuoti, ma si sentiva il fermento, la brace sotto la cenere. Come hanno riaperto i negozi, Londra ha ripreso a vivere. Le strade si sono riempite di londinesi, perché i londinesi esistono. I fiorentini anche, ma sono pochi, sempre meno e Firenze senza i turisti è una città monca, che non potrebbe sopravvivere. Ma ora i turisti sono evaporati: sette turisti e mezzo ogni dieci, dicono le statistiche, erano internazionali. E chissà quando torneranno. Molti, stranieri o italici, sono turisti ciabattoni di giornata (non è un’offesa, è una citazione letteraria degli Alpinisti ciabattoni di Achille Giovanni Cagna), i mangia-e-fuggi, quelli che si mettono in coda agli Uffizi e poi si mettono in coda all’Accademia per vedere il David, poi si fanno il selfie su Ponte Vecchio o sul campanile di Giotto e finiscono la giornata in coda per una pizza o un gelato. Poi ripartono a bordo dei loro torpedoni, per rimettersi in coda in altri luoghi con altri loro consimili.
A Firenze li odiano, ma non possono fare a meno di loro. Il turismo ciabattone è la mano che uccide la città, ma al tempo stesso la nutre. I fiorentini hanno la fortuna di sedere sulla loro rendita di posizione, sulla bellezza che non hanno creato loro, ma che è tramandata nei secoli, scritta in ogni pietra, in ogni palazzo, chiesa, galleria e opera d’arte. La fortuna di Firenze, e la sua dannazione, si chiama Dante, Boccaccio, Botticelli, Brunelleschi, Michelangelo, Donatello, Leonardo, Giotto, Cimabue, Verrocchio, Raffaello, Masaccio, Botticelli, Filippo Lippi, Ghirlandaio. C’è troppa storia in questa città. Da Savonarola a Machiavelli e Francesco Guicciardini, da Amerigo Vespucci a Galileo Galilei, da Cosimo de’ Medici a Lorenzo il Magnifico. Sono ancora tutti lì, pesanti e ingombranti come antenati nella galleria dei ritratti di famiglia, scrutano occhiuti i discendenti che inconsapevolmente si sentono giudicati. Quando hai antenati di questo tipo, è difficile scrollarsi il passato dalle spalle.
Ogni tanto penso che sotto sotto i fiorentini invidino i cinesi. Non quelli di Prato, che hanno colonizzato il distretto tessile e si sono mangiati le loro fabbriche e le loro attività. No, penso che invidino la velocità e la libertà con cui i cinesi costruiscono nuove città, nuovi ponti, nuove possibilità. Anche a Londra è così: certi quartieri, se ci torni dopo un po’ di tempo, non li riconosci neppure. Demoliscono, ricostruiscono, spostano. I cambiamenti sono vitali, l’immobilità distrugge. Noi abbiamo il Ponte Vecchio e c’è così tanta storia anche su quel ponte che neppure i nazisti ebbero il coraggio di farlo saltare per aria, come fecero con gli altri ponti della città durante la ritirata verso nord. A Firenze ogni pietra è tutelata dalle Belle Arti. Ogni vicolo, ogni angolo, ogni finestra, per parlare delle cose minime e non dei “monumenti” in senso stretto, è stato fotografato, ha un aneddoto, è intoccabile. Meno male, non vorrei essere fraintesa. Non voglio far saltare il Ponte Vecchio e neppure abbattere la cupola del Duomo.
Ma la bellezza spesso uccide i luoghi e le persone che li abitano. Li uccide lentamente, come il veleno di quel serpente (o forse è un ragno?) che provoca una lenta paralisi.
I pochi mutamenti che Firenze ha subito sono stati sempre verso il peggio. Quello più visibile è l’avanzata dei grandi marchi globalizzati della moda che colonizzano i centri storici delle grandi città e li rendono tutti uguali. Via Tornabuoni, che era il “salotto buono” un po’ provincialotto, è diventata un non luogo, con vetrine uguali a quelle di Dubai, o degli aeroporti e delle strade del lusso delle capitali. Loro riapriranno, zoppicando e un po’ ammaccati, ma riapriranno. Speriamo solo che questa sospensione innaturale, questo anno di immobilità vera, faccia riflettere su come in futuro accogliere il turismo senza per forza snaturarsi e concedergli tutto.
A me interessa intanto che riaprano il mio trippaio e il vinaio e tutti gli artigiani e i piccoli negozietti. Senza di loro e senza i maledetti turisti, tutta quella bellezza è inutile.