Quelli contro la Convenzione di Istanbul
Diversi paesi, tra cui Turchia e Polonia, sono sempre più ostili all'importante trattato europeo che contrasta la violenza contro le donne: ed è una storia che riguarda anche noi
di Giulia Siviero
Da diversi mesi la Convenzione di Istanbul è finita al centro di molte discussioni in Europa, che hanno coinvolto sia le istituzioni europee che diversi stati nazionali. La Convenzione, che è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica, è stata attaccata soprattutto da governi semi-autoritari dell’Europa dell’Est e della Turchia, e dalle organizzazioni del conservatorismo cattolico, antifemministe, antiabortiste e contro i diritti delle persone LGBT+.
Questi governi hanno sostenuto che la Convenzione vada contro un presunto “ordine naturale” garantito dai valori della famiglia tradizionale e più di recente hanno avviato tentativi per sostituire il testo – che è stato ratificato da diversi stati dell’Europa, Italia compresa – con un trattato internazionale alternativo. Il nuovo trattato dovrebbe negare i diritti delle persone non eterosessuali e l’autodeterminazione e le libertà delle donne.
In un recente articolo, Politico ha spiegato come la Convenzione di Istanbul abbia assunto grande importanza nel dibattito attuale sulle libertà in Europa, e sia diventata un motivo di ulteriore distanziamento tra paesi governati da forze conservatrici – come i paesi dell’Europa orientale – e quelli guidati da forze progressiste, al cui interno ci sono però partiti di estrema destra e movimenti che esercitano grandi pressioni: «La Convenzione di Istanbul è diventata un simbolo delle guerre culturali in Europa», ha scritto Politico.
Cos’è la Convenzione di Istanbul
La Convenzione del “Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, conosciuta più brevemente come Convenzione di Istanbul”, è un trattato internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. È stata approvata il 7 aprile del 2011 ed è entrata in vigore nell’agosto del 2014. Inizialmente è stata firmata dai 45 paesi membri del Consiglio d’Europa, organizzazione che non c’entra con l’Unione Europea, e che include paesi extracomunitari come Russia e Turchia. Negli anni successivi è stata ratificata da 34 stati (l’Italia l’ha fatto nel 2013), mentre i restanti l’hanno solo firmata: è solo tramite il processo di ratifica che un paese diventa obbligato ad adeguare le proprie leggi interne alle regole previste dal testo dell’accordo.
La Convenzione introduce regole vincolanti con l’obiettivo di «proteggere le donne contro ogni forma di violenza», tra cui le molestie sessuali, lo stalking e i matrimoni forzati. Propone una serie di interventi molto concreti per prevenire le discriminazioni di genere, per tutelare chi subisce abusi e per punire i colpevoli, tra le altre cose, diventando anche per molti governi un modello giuridico a cui guardare per sviluppare la propria legislazione sul tema.
La Convenzione individua le radici della violenza nei confronti delle donne nella diseguaglianza tra uomini e donne, affermando come essa sia strutturale e abbia le sue radici nei cosiddetti “ruoli di genere”, i ruoli che tradizionalmente vengono assegnati a maschi e femmine. Ruoli che sono stati dunque socialmente e storicamente costruiti e intorno ai quali si sono poi sviluppati una serie di stereotipi. La Convenzione precisa che con «il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini». I ruoli di genere, premette il trattato, contribuiscono e sostengono la violenza contro le donne.
La questione del “gender” è il punto intorno al quale si è sviluppata buona parte della discussione di oggi intorno alla Convenzione di Istanbul, in maniera per lo più strumentale.
Le più grandi critiche alla Convenzione di Istanbul sono emerse soprattutto per le posizioni adottate di recente da Polonia e Turchia: il ministro della Giustizia polacco, Zbigniew Ziobro, ha definito il testo «una fantasia e un’invenzione femminista volta a giustificare l’ideologia gay», mentre il governo turco ha annunciato il ritiro dal trattato a partire dal prossimo luglio, causando grandi manifestazioni e proteste in tutto il paese.
Già in precedenza alcuni paesi dell’Unione Europea – Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lituania, Lettonia, Slovacchia – non avevano ratificato l’accordo o l’avevano giudicato incostituzionale; e questo è il motivo per cui la stessa Unione Europea come blocco l’ha solo sottoscritta (nel 2017), ma non l’ha ancora ratificata nel suo complesso.
La Polonia
Uno dei paesi che più hanno attaccato la Convenzione di Istanbul è stata la Polonia. Il paese è governato dal 2015 da Diritto e Giustizia, partito di estrema destra radicale, populista e sostenuto attivamente da parte delle influenti gerarchie ecclesiastiche.
Negli ultimi anni, e in diverse occasioni, il governo della Polonia ha tentato di limitare i diritti delle donne: ha cercato ad esempio di criminalizzare l’educazione sessuale (che è invece riconosciuta come uno degli strumenti principali contro la violenza di genere, contro la trasmissione di malattie, e per la riduzione di gravidanze indesiderate e della mortalità materna) ed è riuscito attraverso una sentenza del Tribunale Costituzionale a ridurre le già limitatissime situazioni in cui una donna, nel paese, può ricorrere legalmente all’aborto.
Uno degli esponenti del governo polacco che più hanno attaccato la Convenzione di Istanbul è stato Zbigniew Ziobro, ministro della Giustizia.
Ziobro aveva citato il concetto di “genere”, che secondo lui negherebbe la differenza di sesso tra uomini e donne e aveva sostenuto che la Convenzione violasse «i diritti dei genitori» chiedendo alle scuole di insegnare ai bambini che il sesso è una scelta. Ziobro aveva fatto dunque riferimento alla cosiddetta “ideologia gender”, oggetto di critiche da parte del Papa, delle associazioni cattoliche e dei movimenti conservatori e di estrema destra di tutto il mondo, e che viene presentata, in modo del tutto falso e infondato, come una tesi che pretende di negare la differenza biologica tra uomini e donne.
– Leggi anche: Che cos’è e cosa non è l’ideologia gender
Lo scorso luglio Ziobro aveva detto che avrebbe presentato una richiesta al ministero della Famiglia per iniziare il processo formale di ritiro del suo paese dall’accordo. Parallelamente, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki aveva deciso di deferire la Convenzione al Tribunale Costituzionale per accertarne la compatibilità con la Costituzione del paese. Il tribunale non ha ancora emesso una sentenza.
Alla richiesta di Ziobro, e in attesa della pronuncia del Tribunale, si è aggiunta anche un’iniziativa dell’associazione fondamentalista e ultraconservatrice Ordo Iuris, promotrice delle varie iniziative contro l’aborto. Ordo Iuris ha presentato un progetto di legge civico sostenuto da 150 mila firme chiamato “Si alla famiglia, no al gender”. Il progetto di legge chiede al presidente polacco Andrzej Duda di ritirare la Polonia dalla Convenzione di Istanbul e di istituire un organo consultivo che, nei prossimi tre anni, sviluppi i principi di base di una convenzione internazionale sostitutiva alla Convenzione e basata «sui diritti della famiglia» (un procedimento di questo tipo è previsto dalla Costituzione).
Nel testo si parla di una situazione in cui le famiglie sono «minacciate» e hanno bisogno dunque di ulteriore protezione; si rifiuta l’idea che la causa principale della violenza domestica sia la disuguaglianza strutturale tra uomini e donne, premessa della Convenzione di Istanbul; si dice – riprendendo una legge russa – che le cause della violenza domestica sono alcune «patologie» come l’alcolismo, la pornografia, l’indebolimento dei legami familiari e la sessualizzazione delle donne nello spazio pubblico; si parla infine di «protezione della vita fin dal concepimento».
Il disegno di legge è stato discusso lo scorso 30 marzo alla Camera bassa del parlamento polacco, il Sejm: i movimenti femministi erano contrari al testo, ma i deputati hanno deciso di rimandarlo in commissione.
Una Convenzione alternativa sui “diritti della famiglia”
Il Balkan Investigative Reporting Network (BIRN, una rete di organizzazioni non governative che promuove la libertà di espressione e i valori democratici) ha rivelato lo scorso anno che il ministero della Giustizia polacco aveva inviato ad almeno quattro paesi – Croazia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia – una lettera in cui proponeva un nuovo trattato internazionale sui «diritti della famiglia», alternativo alla Convenzione di Istanbul.
La proposta, che doveva poi essere inoltrata ad altri governi, conteneva gli stessi temi inclusi nel testo dell’iniziativa di Ordo Iuris.
Si parlava per esempio di «minacce» alla famiglia e di patologizzazione della violenza domestica, che sarebbe causata da fattori come l’abuso di alcol e droghe, la dipendenza dal sesso e «la sessualizzazione dell’immagine delle donne nei mass media». Il termine “sesso”, si diceva nel testo, «dovrebbe essere inteso come un insieme di caratteristiche biologiche, comprese le caratteristiche genetiche, che consentono la distinzione oggettiva tra una donna e un uomo».
Si evidenziava inoltre l’autonomia della famiglia rispetto allo Stato, si insisteva sul fatto che il «bambino» dovesse avere dei diritti fin dal concepimento e si introduceva il concetto di «delitti contro la famiglia»: tra questi erano inclusi la violenza fisica e psicologica, la violenza sessuale, e il matrimonio forzato. Si specificava però che l’elenco dei delitti contro la famiglia non era esaustivo e si chiedeva di integrarlo anche con l’aborto e il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Marcelina Zawisza, parlamentare del partito di sinistra polacco Razem, ha spiegato di non essere rimasta stupita dal contenuto della lettera: «Ripetono costantemente che il crollo del modello familiare tradizionale è ciò che causa la violenza domestica e che i diritti delle persone LGBT stanno minacciando le famiglie». Secondo Zawisza, il governo non avrebbe voluto pubblicizzare la lettera perché sapeva che il suo contenuto avrebbe causato «non solo un dibattito nella società polacca, ma una profonda opposizione da parte del movimento delle donne, del movimento LGBTQI+ e di tutti coloro che hanno a cuore i diritti umani».
L’iniziativa parlamentare di Ordo Iuris potrebbe richiedere del tempo per l’approvazione, ma intanto l’associazione e i suoi sostenitori potrebbero avere già raggiunto un loro obiettivo: cioè quello di attaccare pubblicamente la Convenzione di Istanbul, allargare le fila di chi vi si oppone e creare un ambiente ostile che potrebbe consentire più facilmente al Tribunale Costituzionale polacco di dichiarare “incostituzionale” la Convenzione. «La stessa cosa che è successa con l’aborto», ha avvertito Zawisza.
Perché tutto questo ci riguarda
La Polonia non è un caso isolato. Le studiose e gli studiosi dei movimenti antiabortisti e “no gender” denunciano da tempo come questi stessi movimenti cerchino di muoversi in modo coordinato attraverso reti transnazionali molto ben organizzate, capillari e ben finanziate. Le loro connessioni politiche, i loro obiettivi e le loro strategie sono state mostrate e raccontate da diverse inchieste giornalistiche pubblicate di recente anche in Italia, come quella di Luisa Betti Dakli su DonnexDiritti, e da due report in particolare: “Ristabilire l’ordine naturale” e “Modern-day crusaders in Europe”.
I due report sono stati scritti da Neil Datta, segretario dell’European parliamentary forum for sexual and reproductive rights (EPF, un gruppo di parlamentari europei con base a Bruxelles).
Datta spiega come uno degli obiettivi di queste reti sia ristabilire un presunto “ordine naturale”, opporsi al divorzio, all’accesso ai contraccettivi, all’aborto, ai matrimoni tra persone dello stesso sesso e limitare le ratifiche alla Convenzione di Istanbul. Uno dei metodi per arrivare a tutto questo è far entrare dei loro rappresentanti o sostenitori nei governi nazionali, nelle istituzioni e anche nelle organizzazioni internazionali per proporre delle leggi specifiche e influenzarne le legislazioni.
Ordo Iuris, la principale promotrice dei vari progetti di legge contro l’aborto in Polonia e per l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, ha formato organizzazioni simili in altri paesi, nel 2017 ha ottenuto lo status consultivo presso le Nazioni Unite e nello stesso anno ha registrato una sede nel distretto dell’Unione Europea a Bruxelles, ha spiegato Datta.
L’organizzazione ha legami con le reti antiabortiste, antifemministe e anti-LGBT+ che hanno organizzato a Verona, nel 2019, il Congresso Mondiale delle Famiglie (WCF) a cui erano presenti tre ministri dell’allora governo italiano. Ha connessioni con il gruppo internazionale Agenda Europe, rete creata a Londra nel 2013 di cui fanno parte leader politici e funzionari governativi di tutta Europa.
In Italia, come ha spiegato Luisa Betti Dakli, Agenda Europa è legata a Luca Volonté, l’ex parlamentare dell’UdC vicino a Comunione e Liberazione coinvolto, tra le altre cose, nello “scandalo Azerbaijan” al Consiglio d’Europa. Volonté è tra i fondatori dell’associazione Novae Terrae, che lavora con il Congresso Mondiale delle Famiglie e nel cui direttivo era presente anche il senatore della Lega Simone Pillon, uno dei portavoce in Italia delle principali battaglie dell’integralismo cattolico e promotore di un disegno di legge molto contestato in materia di diritto di famiglia, separazione e affido condiviso dei e delle minori.
Ordo Iuris è infine riconducibile al movimento Tradition, Family and Property (TFP) che, ha spiegato Datta, «è nato come movimento ultracattolico (…) e da anni di complicità con l’estrema destra». Dall’America Latina, TFP si è diffuso anche in Europa «dove, a partire dalla morte del suo fondatore alla fine degli anni ’90, come molti altri movimenti anti-gender internazionali, ha iniziato un processo di rinnovamento, diventando una tra le reti più attive in Europa contro i diritti sessuali e riproduttivi delle donne e delle persone LGBTQI+. Oltre al caso dell’aborto in Polonia, negli ultimi anni abbiamo osservato il verificarsi di altri eventi riconducibili all’azione di TFP».
Queste reti hanno diversi legami anche con l’Italia e con i movimenti cosiddetti pro-vita e antigender locali.
Hatewatch (un blog che monitora e racconta le attività della destra radicale americana) ha pubblicato un’inchiesta molto approfondita sui contatti e gli intrecci tra il WCF, i gruppi anti-LGBT+ con sede negli Stati Uniti, la Fondazione spagnola antiabortista CitizenGo, alcuni influenti movimenti italiani (Generazione Famiglia, Comitato Difendiamo i Nostri Figli e ProVita) e alcuni partiti politici (la Lega di Matteo Salvini, oltre che formazioni di estrema destra come Forza Nuova).
«In Italia nessuno ha attaccato direttamente la Convenzione di Istanbul», ha spiegato Eleonora Cirant, che da tempo si occupa della questione: «Ma sia il diritto all’aborto che i contenuti della Convenzione «sono nel mirino dei sostenitori della “famiglia naturale”».
Negli ultimi mesi, i movimenti e i gruppi che si oppongono all’aborto e ai diritti riproduttivi delle donne hanno intensificato la loro propaganda con varie (e contestate) campagne comparse in numerose città italiane. Parallelamente, Lega e Fratelli d’Italia – che governano in diverse regioni e che con questi gruppi conservatori e cattolici hanno espliciti legami – ne hanno portato avanti in modo concreto il programma politico: per limitare l’accesso all’aborto farmacologico, andando contro le nuove linee di indirizzo del ministero della Salute, o per sostenere formalmente natalità e maternità attraverso delle precise proposte di legge, portando avanti però implicite finalità antiabortiste.
– Leggi anche: Le regioni che cercano di limitare l’accesso all’aborto
Marta Lempart, attivista femminista di Women’s Strike che dal 2016 guida le proteste contro il governo polacco, in un’intervista pubblicata lo scorso 8 marzo ha sollecitato l’intervento concreto degli altri paesi europei: «Non abbiamo bisogno (…) che piangano le loro lacrime per le vite tristi delle donne polacche e facciano dichiarazioni populiste. Abbiamo bisogno che (…) agiscano».
Come potrebbe andare
A inizio aprile, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel sono stati in Turchia dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan (è stato l’incontro in cui è avvenuto l’incidente della sedia mancante). Durante una conferenza stampa tenuta dopo l’incontro, von der Leyen e Michel hanno parlato anche della Convenzione di Istanbul, dicendo di essere molto preoccupati dalla decisione del ritiro della Turchia.
Il timore delle istituzioni europee, ha scritto Politico, è che altri paesi possano seguire l’esempio della Turchia e ritirarsi dal trattato, facendo così fallire lo sforzo dell’Unione Europea di ratificarlo come blocco. Ma visto che quest’ultimo obiettivo sembra diventare sempre più irraggiungibile, la Commissione Europea sta pensando a un piano alternativo.
Lo scorso 26 aprile, alla plenaria del Parlamento europeo, Ursula von der Leyen ha detto che il ritiro di uno dei membri fondatori del Consiglio d’Europa dalla Convenzione di Istanbul «è un segnale terribile»: «Lo sapete tutti: diversi stati membri dell’UE non hanno ancora ratificato la Convenzione. E altri stanno pensando di ritirarsi. Questo non è accettabile. (…) Questo è il motivo per cui desidero che la stessa Unione Europea aderisca alla Convenzione di Istanbul. Questa rimane una priorità per la mia Commissione».
La presidente ha poi aggiunto: «Poiché l’adesione all’UE è in fase di stallo al Consiglio, prima della fine dell’anno presenteremo misure alternative: presenteremo una legislazione per prevenire e combattere la violenza contro donne e bambini – online e offline». In questo caso, alla proposta della Commissione servirebbe in sede di Consiglio solamente una maggioranza qualificata, per l’approvazione definitiva. E in quel caso diventerebbe una legge europea, sarebbe cioè giuridicamente vincolante per tutti.
In Italia, oltre al sostegno che i movimenti femministi portano alle proteste delle donne polacche, è stata lanciata una petizione che chiede il richiamo dell’ambasciatore italiano in Polonia.