L’olfatto è un mistero

Trascurato e ritenuto a lungo sacrificabile rispetto agli altri sensi, è tornato al centro dell'interesse di molti ricercatori a causa del coronavirus

di Emanuele Menietti – @emenietti

(Elaborazione da: Reg Burkett/Keystone/Hulton Archve/Getty Images)
(Elaborazione da: Reg Burkett/Keystone/Hulton Archve/Getty Images)

Nell’ultimo anno a causa del coronavirus milioni di persone hanno perso temporaneamente la capacità di percepire e riconoscere gli odori, e molti di loro si sono accorti per la prima volta quanto l’olfatto sia importante e centrale nelle nostre esistenze. Ritenuto sacrificabile e il meno importante tra i nostri sensi, l’olfatto è stato trascurato a lungo dalla ricerca scientifica e anche per questo buona parte del suo funzionamento rimane un mistero. Complice la pandemia e i molti malati di COVID-19 che hanno segnalato di averlo perso per giorni, a volte per mesi, i ricercatori hanno iniziato a mostrare un rinnovato interesse su ciò che determina la nostra capacità di distinguere il profumo di una torta appena sfornata dall’odore della benzina.

I meccanismi di base che fanno funzionare l’olfatto ci sono abbastanza familiari: l’aria inalata attraversa il naso che rileva qualcosa e invia un segnale al cervello, che elabora quell’informazione dandoci la consapevolezza di avere appena percepito un odore. Sotto questa descrizione piuttosto intuitiva e sommaria c’è un’enorme quantità di dettagli che non comprendiamo ancora perfettamente: sappiamo che cosa succede, ma non abbiamo tutti gli elementi per spiegare come.

Una cosa da animali
Questa ignoranza deriva almeno in parte dall’avere avuto per molto tempo l’idea che gli esseri umani non abbiano un gran fiuto, e che averne uno buono sia prerogativa degli altri animali, perché essenziale per la sopravvivenza di specie che non possono fare affidamento su grandi capacità intellettuali. Una simile convinzione trovò conferme e divenne piuttosto radicata nell’Ottocento, quando vari anatomisti compreso il francese Pierre Paul Broca segnalarono come il nostro bulbo olfattivo – il principale centro nervoso per distinguere gli odori – fosse di dimensioni contenute rispetto a quello di altri animali. Secondo Broca, ciò dimostrava che il nostro cervello si fosse sviluppato seguendo altre priorità: rilevare gli odori era secondario rispetto ad altre capacità cognitive.

Nei secoli precedenti, del resto, in molti avevano faticato ad applicare il metodo scientifico agli odori e all’olfatto. A differenza delle percezioni visiva o sensoriale, quella olfattiva è difficile da descrivere ed è più soggettiva. Mentre si potevano elaborare sistemi per descrivere i colori e il modo in cui ne generano altri fondendosi tra loro, sembrava impossibile elaborare un modo per sistematizzare le percezioni olfattive e descriverle in modo efficace.

L’olfatto sembrava inoltre secondario rispetto a sensi e funzioni fisiologiche più strettamente legate alla nostra sopravvivenza. Da alcuni era considerato addirittura una reminiscenza dei nostri lontani antenati nel processo evolutivo, qualcosa di poco importante e sempre meno fondamentale nelle nostre esistenze.

Un mondo nuovo
Col progredire delle conoscenze scientifiche e degli strumenti per compiere osservazioni ed esperimenti nell’infinitamente piccolo, nella seconda metà del Novecento le cose iniziarono a cambiare. Alcuni volenterosi ricercatori negli anni Ottanta trovarono la strada giusta per scoprire ruolo e funzioni dei recettori olfattivi, le proteine che innescano i meccanismi che ci permettono di percepire gli odori.

Tra loro c’erano i biologi statunitensi Linda Brown Buck e Richard Axel, che nel 1991 pubblicarono una ricerca sul materiale genetico dei recettori olfattivi, presenti nei neuroni che si trovano nel naso. Grazie al loro lavoro fu possibile comprendere meglio come i recettori reagiscono in presenza degli odori, attivando poi un segnale elettrico che il neurone olfattivo invia al cervello. Buck e Axel scoprirono centinaia di geni coinvolti nella produzione dei recettori, ognuno dei quali rileva solo specifiche differenze. I vari segnali sono poi interpretati dal nostro cervello, che ci dice di avere appena sentito l’odore del ragù cucinato dal vicino di casa.

Gli studi di Axel e Buck aprirono la strada allo studio dell’olfatto dal punto di vista molecolare e genetico, comprese le interazioni che avvengono nel bulbo olfattivo. Per le loro scoperte furono entrambi insigniti con il Premio Nobel per la Medicina nel 2004.

A partire dagli anni Novanta divenne evidente che un sistema fino ad allora ritenuto piuttosto rudimentale fosse in realtà articolato e raffinato. La vista dipende da una manciata di recettori, mentre l’olfatto ne utilizza e combina insieme quasi 400. Si stima che siano in grado di farci percepire circa mille miliardi di odori, consentendoci di rilevare sottilissime differenze, di cui spesso non siamo nemmeno pienamente consapevoli.

L’odore delle malattie
Come ha spiegato di recente un lungo articolo del New York Times Magazine, il nostro cervello è abilissimo nell’interpretare quei segnali. Varie ricerche hanno mostrato come sia in grado di distinguere l’odore del sudore dopo un allenamento da quello che produciamo quando abbiamo paura, oppure di riuscire a seguire una traccia olfattiva su un prato, anche se non con la stessa abilità di alcune specie canine (questo dobbiamo concederglielo).

Un paio di anni fa circolò molto la notizia di Joy Milne, un’ex infermiera di Perth (Regno Unito) che riusciva a riconoscere gli odori come poche altre persone al mondo. La sua condizione, nota come “iperosmia”, l’aveva portata ad avere una spiccata sensibilità olfattiva, al punto da essere in grado di distinguere l’odore del Parkinson, prima che questa malattia degenerativa diventi evidente in chi ne è affetto. Milne non sa spiegare come faccia e non sa spiegare di preciso come sia l’odore del Parkinson, ma i ricercatori stanno provando a sfruttare la sua singolare capacità per sviluppare un “naso elettronico” che consenta di effettuare diagnosi precoci della malattia.

Joy Milne partecipa a uno degli esperimenti sull’odore del Parkinson (BBC Scotland – YouTube)

Altri gruppi di ricerca stanno cercando di fare altrettanto con il cancro. Alcune specie di cane sembrano essere molto abili nel farlo, e per questo sono in corso studi per capire che cosa percepisca il loro fiuto. Identificate le sostanze giuste, potrebbe essere possibile elaborare sistemi di rilevazione elettronici, per fare screening e diagnosi precoci.

Percezione
Oltre a essere piuttosto preciso, l’olfatto è il senso più difficile da trarre in inganno. Con la vista ci sono innumerevoli sistemi e trucchi per farci vedere le cose diversamente da come sono in realtà. È sufficiente un’illusione ottica come quella qui sotto per metterci in difficoltà: la vediamo muoversi anche se non è un’animazione; l’illustrazione è statica, ma è composta in modo tale da mandare in confusione il nostro cervello.

Ottenere risultati simili con l’olfatto non è semplice, fortunatamente. È grazie alla capacità di riconoscere molti odori e di associarli ad alcuni sensazioni sgradevoli, se non di pericolo, che riusciamo a tenerci fuori dai guai. Difficilmente mangiamo un alimento che alla vista appare normalissimo, ma dal forte odore sgradevole. A volte facciamo invece il contrario e mangiamo una pietanza poco gradevole alla vista, ma con un odore normale e corrispondente a ciò che ci saremmo aspettati.

Perdere l’olfatto
Come per molte altre cose, ci rendiamo conto dell’importanza di qualcosa quando questa viene a mancare. È capitato quasi a tutti di percepire pochissimo o per nulla gli odori durante un raffreddore, una sensazione poco gradevole, ma che dura pochi giorni e che si risolve gradualmente, man mano che passano l’infiammazione e il “naso chiuso”. Nel caso della COVID-19 l’effetto è stato per molti più straniante e talvolta inquietante: gli interessati hanno segnalato di avere perso di colpo e per settimane la capacità di percepire gli odori, anche se non avevano alcun altro sintomo e respiravano normalmente.

All’inizio della pandemia non era nemmeno chiaro che l’anosmia (l’incapacità di percepire gli odori) e la parosmia (la percezione in modo sbagliato degli odori) potessero avere come causa un’infezione da coronavirus. I primi inconsapevoli contagiati a soffrirne pensarono di avere qualche problema più serio, sentendosi magari dire dai medici che fossero necessari approfondimento di tipo neurologico, nella fase in cui il contagio era ancora poco diffuso e quindi ritenuto improbabile.

Quando si capì che c’entrava il coronavirus, non fu chiaro da subito se anosmia e parosmia fossero effetti transitori, o il segno di un danno permanente dell’olfatto. Le informazioni ufficiali erano scarse, per molte istituzioni sanitarie era presto per dichiarare un nesso perché si stavano ancora raccogliendo le evidenze scientifiche. Alcuni cercarono chiarimenti online, su forum e gruppi di pazienti, talvolta moderati da ricercatori che avevano avviato iniziative su Internet ben prima della pandemia, per studiare l’anosmia in generale e le sue cause.

Alcuni di quei gruppi divennero un punto di riferimento per centinaia di persone, che avevano per la prima volta compreso a pieno il ruolo dell’olfatto nelle loro vite. Furono anche un luogo di conforto, non solo per condividere le proprie esperienze, ma anche nell’indurre altri ricercatori ad approfondire l’argomento e nel ricevere buone notizie sulla transitorietà del problema nella maggior parte dei casi.

Ancora oggi non è completamente chiaro quali siano le cause che portano all’anosmia e alla parosmia in seguito a un’infezione da coronavirus. Sappiamo che questi sintomi interessano circa l’80 per cento dei pazienti e che il recupero avviene di solito entro un paio di settimane. Ci sono però casi in cui la capacità di percepire gli odori tarda a tornare, con periodi molto più lunghi di recupero, che nei casi più estremi richiedono mesi di attesa.

Recettori
Per comprendere il rapporto tra anosmia e coronavirus, un gruppo di ricerca internazionale, coordinato dall’Università di Harvard (Stati Uniti), ha svolto test su cavie di laboratorio, osservando un possibile ruolo del recettore ACE2 nei casi di anosmia da coronavirus SARS-CoV-2. L’ACE2 è presente sulla membrana cellulare di diversi tessuti, per lo più legati al sistema respiratorio, e regola il traffico degli ingressi delle sostanze all’interno delle cellule. Il coronavirus lo sfrutta per ingannare le difese cellulari, riuscendo in questo modo a iniettare nelle cellule il proprio materiale genetico e a indurle a produrre nuove copie del virus, che porteranno avanti l’infezione.

L’ACE2 non è però presente nei neuroni olfattivi, che come abbiamo visto hanno il compito di inviare il segnale sugli odori percepiti al cervello. L’ipotesi è che il SARS-CoV-2 danneggi invece le cellule olfattive di sostegno, che aiutano i neuroni nel loro funzionamento e nella loro capacità di percepire gli odori. La risposta immunitaria indotta dalla presenza del coronavirus in queste strutture porta a un’infiammazione, che con l’aumento di temperatura crea un ambiente ostile per la replicazione del virus.

Questa infiammazione ha però ripercussioni anche sul funzionamento delle cellule di sostegno, che non riescono più a dare la giusta assistenza ai neuroni olfattivi. Se il danno infiammatorio è contenuto, la capacità di percepire gli odori viene recuperata in fretta al ritorno della piena funzionalità delle cellule di sostegno, di conseguenza l’anosmia dura per pochi giorni. In altri casi, l’infiammazione si estende oltre queste strutture e fa qualche danno a livello dei neuroni olfattivi. Rispetto ad altre cellule, i neuroni impiegano molto più tempo a rigenerare i giusti collegamenti col resto del sistema nervoso, e di conseguenza l’anosmia dura più a lungo o viene seguita da parosmia, nella fase in cui i neuroni riallacciano le giuste connessioni.

Secondo i ricercatori, questa fase di ripristino potrebbe spiegare le particolari sensazioni segnalate da alcuni pazienti, che dicono di percepire come sgradevoli odori che di solito non li infastidiscono. Ciò avviene soprattutto con gli odori più intensi, come quelli del caffè e del cioccolato fondente, che stimolano maggiormente l’olfatto. Un’ipotesi è che in mancanza di informazioni chiare, il cervello attivi una sorta di modalità di sicurezza, con la quale fa percepire come sgradevoli la maggior parte degli odori in modo che si corrano meno rischi di entrare in contatto con sostanze pericolose.

Depressione
Mentre molti aspetti dell’anosmia da coronavirus devono essere ancora chiariti, negli ultimi mesi sono diventati evidenti gli effetti di questa condizione sulla psiche dei pazienti. È stata rilevata una maggiore incidenza di stati d’ansia e depressivi riconducibili alla perdita dell’olfatto, legati soprattutto al timore che il problema diventi permanente. L’olfatto è strettamente legato al gusto e la sua mancanza incide notevolmente sulla capacità di apprezzare pienamente i sapori.

Alcuni pazienti con anosmia da coronavirus diventano inappetenti e dimostrano meno interesse verso il cibo, con ulteriori preoccupazioni alla prospettiva di non poter più assaporare gli alimenti come un tempo. Salvo rarissimi casi da approfondire, la condizione è transitoria, ma la reazione di chi la soffre mostra chiaramente quanto sia importante l’olfatto e come sia strettamente legato a sensazioni ed emozioni profonde, sulle quali non abbiamo un pieno controllo.

Emozioni e malattia
I neurologi sanno del resto da tempo che olfatto e mente hanno un rapporto stretto e peculiare. Mentre ciò che vediamo passa attraverso l’analisi di diverse aree del cervello, prima di raggiungere quelle deputate ai ricordi e alle emozioni, i segnali che arrivano dal naso e dal bulbo olfattivo seguono un percorso praticamente diretto. Questo fa sì che la percezione degli odori sia immediata e quasi sempre evocativa: quell’odore di minestra che appena percepito ci fa venire in mente il refettorio delle elementari, o un profumo che ci ricorda il primo bacio.

Londra, Regno Unito

(LaPresse)

Sensazioni così dirette e immediate sono precluse a chi ha forme congenite di anosmia, o perde in modo permanente la capacità di percepire gli odori a causa di traumi e malattie. È difficile calcolare quale sia l’incidenza sulla popolazione, alcune stime effettuate negli Stati Uniti valutano che l’anosmia congenita interessi circa un nato ogni diecimila. Per i nati con questo problema non c’è al momento una cura: conducono una vita come gli altri, distinguono con minore accuratezza i sapori e non possono immaginare che cosa significhi sentire il profumo dell’erba appena tagliata o l’odore del gas che esce da un fornello lasciato aperto.

I ricercatori che studiano l’anosmia congenita hanno ancora molto da fare. Devono scoprire quale parte del sistema olfattivo non funzioni adeguatamente e quali siano i fattori ereditari che portano a questa condizione. Maggiori conoscenze potrebbero aiutare a comprendere le forme di anosmia che derivano da specifiche malattie, molte delle quali degenerative. La perdita della capacità di percepire gli odori è talvolta un segnale degli stadi iniziali dell’Alzheimer, del Parkinson e di forme di schizofrenia e problemi neurologici associati all’invecchiamento.

Più in generale, con il progredire dell’età è comune che ci sia una riduzione nelle capacità olfattive. Il New York Times Magazine segnala che negli Stati Uniti tra gli over 40 una persona su cinque indica un cambiamento nel rilevare gli odori; un individuo su otto sviluppa disfunzioni olfattive rilevabili con esami clinici.

Studiando i recettori, i ricercatori hanno via via notato un rapporto tra olfatto e sistema immunitario. Il loro funzionamento di base è simile: reagire a una sostanza esterna inviando un segnale. Diverse malattie legate a un malfunzionamento del sistema immunitario, come la sclerosi multipla e l’artrite reumatoide, comportano spesso problemi nel percepire gli odori. Le ricerche sono ancora in corso, ma alcuni scienziati ritengono che forme lievi di anosmia dovrebbero essere prese più in considerazione nel momento in cui si fa una diagnosi.

Luogo comune
Chi si occupa dello studio dell’olfatto ha davanti a sé una prateria da esplorare, con molte scoperte da fare, che probabilmente aiuteranno a sfatare uno dei più diffusi luoghi comuni sui nostri sensi: non abbiamo un olfatto molto sviluppato. Incolpare Broca per questa convinzione non sarebbe corretto e onesto. Il luogo comune si è consolidato in secoli di esperienze e deriva soprattutto dalla grande difficoltà che incontriamo nel descrivere gli odori, e nel condividere le esperienze olfattive con gli altri.

Un colore è relativamente facile da descrivere, una volta che abbiamo imparato ad associare la parola che lo identifica a ciò che vediamo. Possiamo pensare a un’automobile rossa quando ne sentiamo parlare, probabilmente la state visualizzando in questo momento nella vostra mente. Se qualcuno ci dice di immaginarla di un rosso più scuro, non abbiamo particolari problemi a farlo, anche senza conoscere la differenza tra un rosso amaranto e un cremisi.

Con gli odori è più complicato. Sappiamo perfettamente quale sia il profumo di un’arancia, ma non c’è modo di immaginarlo e ricostruirlo nella mente con la stessa efficacia e accuratezza con cui possiamo immaginare l’auto rossa. Abbiamo anche meno possibilità di descrivere il suo odore, se non per analogie e indicando le differenze rispetto ad altro. Diciamo che un’arancia troppo matura “ha un profumo che ricorda quello delle rose”, per esempio.

La percezione degli odori è inoltre enormemente più soggettiva di quella dei colori. Dipende da come siamo fatti, da come funzionano i nostri recettori e da come variano nel corso del tempo e a seconda delle condizioni. Lo stesso odore può essere percepito in modi diversi da due persone, e una stessa persona può coglierlo diversamente a seconda del fatto che abbia fame, sia reduce da una sbornia, sia riposata o stanca.

Lo stesso odore può risultare fastidioso a una persona, al punto da doversi allontanare dalla fonte che lo origina, e totalmente accettabile se non addirittura piacevole a un’altra. Può avvenire con odori forti e intensi come quello del caffè o della benzina, o con profumi più tenui come il muschio bianco o il borotalco.

Per come è fatto ognuno di noi e per fattori esterni, che possono determinare come crescono e si sviluppano le cellule nel naso e i collegamenti tra i neuroni, si stima che circa un terzo dei recettori di ciascuno sia diverso da quello del prossimo. A questo si aggiungono poi aspetti culturali, a causa dei quali tendiamo per abitudine (per esempio se ce lo siamo sentiti ripetere innumerevoli volte mentre crescevamo) a pensare che alcuni profumi siano associati a precise condizioni: il “profumo di pulito” di un certo detersivo per i panni, o il “fresco profumo” del succo di limone.

Studiare l’olfatto significa indagare numerosi ambiti della scienza e non solo, dalla biologia molecolare alla psicologia passando per la neurologia e le culture. L’ultimo anno ha portato a un rinnovato interesse sul tema, spingendo altri ricercatori a occuparsi di un senso a lungo ritenuto sacrificabile e trascurato, che può invece aiutarci a capire molte cose su noi stessi e come pensiamo.