Il ritorno degli psichedelici
I risultati di nuovi studi sugli usi terapeutici della psilocibina e la progressiva revisione delle leggi sul possesso dei funghi allucinogeni hanno rinvigorito un dibattito mai del tutto scomparso
Negli ultimi anni la pubblicazione di studi clinici sull’utilizzo delle sostanze psichedeliche nella cura di alcune malattie psichiatriche, in primo luogo la depressione, ha ampliato la comprensione dei loro effetti, e assieme all’evoluzione delle tecniche di diagnostica medica ha fornito elementi utili a emancipare ulteriormente il discorso che le riguarda dall’immaginario culturale in cui sono per lungo tempo rimaste relegate, sebbene un certo sostegno da parte di diversi intellettuali non sia mai del tutto mancato.
Parallelamente a questi ultimi studi, la recente depenalizzazione dell’uso e del possesso dei funghi allucinogeni in diverse città degli Stati Uniti e in altri paesi nel mondo ha reso più attuale il tema e rafforzato l’impressione che ci sia oggi spazio per riflessioni più equilibrate e complete. Nel corso degli anni, l’esistenza di posizioni molto polarizzate all’interno del dibattito pubblico – tendenzialmente più temperate, in quello accademico – ha in parte ostacolato e rallentato un approccio scientifico alla discussione, approccio che sia in grado di ignorare tanto le convinzioni degli evangelizzatori delle sostanze psichedeliche quanto lo stigma costruito nel tempo dai suoi più tenaci oppositori.
I primi e incoraggianti risultati negli studi sulla cura delle malattie mentali pongono tuttavia l’urgenza di prendere in considerazione la psilocibina – il composto chimico presente nei funghi che li rende allucinogeni – per il trattamento della depressione, la cui incidenza sulla popolazione è in crescita nonostante l’esistenza di consolidate terapie basate sugli attuali farmaci antidepressivi.
LSD e psilocibina
A coniare il termine “psichedelico” – unione delle parole greche “anima”, ψυχή (psiche), e “manifestare”, δήλος (delos) – fu nel 1956 lo psichiatra canadese di origini inglesi Humphry Osmond, amico dello scrittore inglese Aldous Huxley, peraltro autore del celebre saggio Le porte della percezione e sostenitore dell’uso degli psichedelici nell’ultima parte della sua vita. Qualche anno prima, in una lettera in cui contestava i metodi educativi repressivi dell’ispirazione artistica, Huxley aveva chiesto proprio a Osmond di procurargli una dose di mescalina, una molecola psichedelica ricavata dal fusto di una pianta della famiglia dei cactus (il peyote, o mescal).
Huxley, uno dei più celebrati scrittori e intellettuali del suo tempo, è oggi ricordato anche per il suo fondamentale contributo alla costruzione delle immagini e dei concetti comunemente associati alle esperienze psichedeliche. Nel 1960, dopo il successo del saggio e tre anni prima della sua morte a 69 anni per un tumore alla laringe, disse in un’intervista alla rivista letteraria The Paris Review:
Mentre si è sotto l’effetto delle droghe [psichedeliche] si hanno intuizioni penetranti sulle persone che ci stanno intorno e anche sulla propria vita. Molte persone richiamano alla memoria un’eccezionale quantità di materiale sepolto. Un processo che può richiedere sei anni di psicoanalisi avviene in un’ora – e per molti meno soldi! E l’esperienza può essere molto liberatoria e rivelatrice in vari modi. Rende chiaro che il mondo in cui un individuo vive abitualmente è soltanto una creazione del suo essere in quanto convenzionale e strettamente condizionato, ma ce ne sono molti altri al di fuori. E penso sia salutare che le persone abbiano questa esperienza.
Le sostanze psichedeliche circolavano già da alcuni decenni, e due tra le molecole più conosciute – la psilocibina e l’LSD, a cui è legato un pezzo della storia culturale, politica e sociale del Novecento – presentavano caratteristiche ed effetti molto simili. La dietilamide dell’acido lisergico (LSD, in tedesco LysergSäure-Diäthilamyd) fu sintetizzata nel 1938 dal chimico svizzero Albert Hofmann.
Hofmann stava facendo delle ricerche su un fungo parassita delle graminacee – l’ergot della segale cornuta – per conto dell’azienda farmaceutica per cui lavorava, con l’obiettivo di sintetizzare un nuovo farmaco che stimolasse le funzioni cardio-respiratorie. Ma gli effetti psicotropi di quella sostanza gli furono chiari soltanto cinque anni dopo, nel 1943, quando ne assunse casualmente una piccola dose.
La psilocibina, l’altra molecola psichedelica tra le più note e studiate, viene invece estratta da un fungo appartenente al genere Psilocybe. I suoi effetti erano già noti da centinaia di anni alle popolazioni indigene dell’America centrale e del Messico, che ne facevano uso in contesti rituali, prima della dura repressione avviata dai colonizzatori europei.
Fu un articolo pubblicato nel 1957 dalla rivista LIFE – racconta il giornalista scientifico e scrittore Michael Pollan nel libro Come cambiare la tua mente – a diffondere nella cultura popolare occidentale le conoscenze sugli effetti psichedelici di quelle sostanze, conoscenze che all’epoca erano ancora prevalentemente maneggiate dagli scienziati. Si intitolava Seeking the Magic Mushroom e lo scrisse un banchiere e micologo statunitense, Robert Gordon Wasson, dopo un viaggio fatto due anni prima in Messico con sua moglie, la pediatra russa Valentina Pavlovna, tra le tribù indigene dei mazatechi delle montagne di Oaxaca.
L’irruzione degli psichedelici nella cultura occidentale
Per gran parte degli anni Cinquanta, scrive Pollan, una parte significativa della ricerca in ambito psichiatrico individuò negli psichedelici dei farmaci potenzialmente utili per la cura di malattie precedentemente ritenute di origine psicologica. Le basi neurochimiche di quelle malattie erano infatti diventate oggetto di nuovi studi ispirati proprio dagli effetti dell’LSD, per certi versi assimilabili ad alcuni sintomi della psicosi. Anche nella psicoterapia l’utilizzo di quelle sostanze cominciava a circolare come coadiuvante nel trattamento della depressione e delle dipendenze. Osmond, per esempio, fu tra quelli che approfondirono le applicazioni nella cura dell’alcolismo.
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Poi, nel giro di poco tempo, quelle pratiche sperimentali furono eclissate da altri eventi quando la parabola mediatica degli psichedelici si legò saldamente ai complessi fenomeni sociali e politici della controcultura degli anni Sessanta.
A quella fase storica ne seguì un’altra caratterizzata da estese campagne di comunicazione negativa riguardo agli effetti dell’incontrollata assunzione degli psichedelici, tra i quali l’attivazione di esperienze spaventose e spiacevoli (bad trips). Erano effetti peraltro noti fin dall’inizio delle ricerche e dal primo trip dello stesso Hofmann. Come erano noti anche i “crolli psicotici” – eventi generalmente legati a circoscritti e specifici traumi ambientali – cui potevano andare incontro in seguito all’assunzione di sostanze allucinogene individui che presentassero particolari predisposizioni psichiche, non necessariamente note all’individuo stesso.
Un popolare conduttore radiotelevisivo americano, Art Linkletter, sostenne una lunga campagna contro l’LSD dopo il suicidio della sua figlia ventenne Diane, in California, nel 1969. «Non era sé stessa, è stata uccisa dall’LSD e dalle persone che la producono e distribuiscono», disse il giorno dopo la morte di sua figlia, suggerendo ipotesi mai confermate da indagini successive. Il dibattito alimentato dalle parole di Linkletter è anche citato nel romanzo incompiuto Il re pallido dallo scrittore statunitense David Foster Wallace, a proposito del suo «terrore» degli psichedelici.
L’LSD fu peraltro uno degli elementi di contorno più presenti nel racconto degli omicidi compiuti da Charles Manson in quello stesso periodo a Los Angeles. E infine anche in contesti accademici, teoricamente meno esposti al rischio di enfatizzazioni e forzature, l’assunzione di LSD fu oggetto di studi controversi e in seguito ampiamente contestati, riguardo a presunti legami con alterazioni cromosomiche.
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Questo tipo di pubblicità contribuì in modo compatto a spegnere negli Stati Uniti quell’entusiasmo che per qualche tempo e in molti ambienti aveva favorito e sostenuto una visione dell’LSD come via d’accesso privilegiata a dimensioni della coscienza altrimenti precluse. «Con la stessa velocità con cui li avevano accolti, la cultura e l’establishment scientifico si rivoltarono bruscamente contro gli psichedelici», scrive Pollan, e quelle sostanze che in moltissime città e paesi erano state legali furono messe al bando e spinte verso la clandestinità. Fino agli anni Novanta, quando un gruppo di scienziati decise di riprendere studi precocemente interrotti e ostacolati da quella prolungata stigmatizzazione sociale.
Il “Rinascimento psichedelico”
Molti dei progressi compiuti negli ultimi vent’anni nello sviluppo di pratiche cliniche basate sull’assunzione di sostanze psicotrope sono stati resi possibili dalle moderne tecniche diagnostiche di brain imaging, che consentono di visualizzare il funzionamento e l’attività del cervello umano. Questo ha permesso di esplorare non soltanto i legami tra mente (intesa come pensiero) e cervello (inteso come organo), ma anche le potenzialità di nuovi farmaci nella cura della depressione, dell’ansia e delle dipendenze.
«Un buon modo per comprendere un sistema complesso è quello di disturbarlo e poi di osservare che cosa succede» spiega Pollan a proposito dei recenti tentativi dei neuroscienziati di scoprire particolari attività e schemi di connettività cerebrali somministrando dosi «meticolosamente calibrate» di sostanze psichedeliche. I soggetti volontari sottoposti agli esperimenti sono indotti a una «dissoluzione delle strutture del sé» mentre gli strumenti di brain imaging – tra cui la tomografia a emissione di positroni (PET) – rivelano le alterazioni nel regolare metabolismo cerebrale, permettendo di individuare specifici «correlati neurali» di quel sé “dissolto” nell’esperienza spirituale.
Robin Carhart-Harris è il direttore del Centre for Psychedelic Research all’Imperial College di Londra, un centro istituito nel 2019 e all’epoca primo e unico a occuparsi esclusivamente di ricerca sugli psichedelici per la cura delle malattie psichiatriche. Poco dopo, nello stesso anno, la Johns Hopkins School of Medicine istituì a Baltimora il Center for Psychedelic and Consciousness Research, un altro centro oggi noto per gli studi in questo ambito di ricerca.
Inserito dalla rivista TIME nella lista dei 100 personaggi emergenti del 2021, Carhart-Harris è considerato uno dei ricercatori più influenti in un orientamento che una parte della comunità scientifica definisce “Rinascimento psichedelico”. Ormai da tempo, a questa vigorosa ripresa degli studi accademici si accompagna inoltre un progressivo allentamento delle restrizioni legali relative al possesso dei funghi allucinogeni in molte parti del mondo.
Gli antidepressivi
Una delle tesi sostenute da Carhart-Harris è che alla base della ripresa della ricerca sui farmaci psichedelici, oltre all’evoluzione degli strumenti diagnostici di neuroimaging, ci sia una frustrazione derivante dal sostanziale fallimento della psichiatria nel fornire spiegazioni biomediche convincenti per la depressione, una malattia mentale di cui soffrono oltre 264 milioni di persone nel mondo, con un’incidenza maggiore tra le donne. Si calcola che il mercato degli antidepressivi valga circa 12,5 miliardi di euro all’anno.
L’idea per lungo tempo dominante nella comunità scientifica risale agli anni Sessanta ed è legata alla cosiddetta ipotesi della serotonina, la sostanza chimica che nel sistema nervoso centrale è coinvolta, tra altre funzioni, nella regolazione dell’umore, del sonno e dell’appetito. L’ipotesi è che alla base della depressione ci sia un deficit di tale sostanza, confermata in concreto dal corretto funzionamento degli antidepressivi, farmaci che ne aumentano i livelli nel cervello. La Fluoxetina (Prozac), in commercio dalla metà degli anni Ottanta, è uno dei più famosi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI); l’Escitalopram (Cipralex o Entact) uno dei più recenti ed efficaci.
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L’effettiva fondatezza dell’ipotesi della serotonina, secondo Carhart-Harris, ha contribuito ad accrescere smisuratamente la domanda di antidepressivi soddisfatta dall’industria farmaceutica. Parallelamente è cresciuto lo scetticismo riguardo alle spiegazioni neurochimiche unilaterali sull’origine della depressione. Il tasso di successo degli antidepressivi – considerati anche i molti e spesso pesanti effetti collaterali e la lentezza a ottenere i primi risultati positivi – è inoltre da lunghissimo tempo oggetto di perplessità e insoddisfazioni tra i ricercatori. In molti non trovano esaustiva una spiegazione della depressione che si limiti a considerarla uno sbilanciamento di alcuni composti chimici nel cervello.
I funghi allucinogeni nella cura della depressione
È oggi opinione generalmente condivisa che i disturbi dell’umore ricorrenti derivino dalla combinazione, a vari livelli, di fattori genetici e altri fattori biologici e ambientali, che si evolvono nel corso della vita. E le neuroscienze rappresentano uno degli ambiti di ricerca più attivi nel tentativo di chiarire la fisiopatologia della depressione e valutare in modo più appropriato l’efficacia dei farmaci antidepressivi, confrontandola con quella degli psichedelici.
«Se assunta in dosi elevate, la psilocibina altera profondamente le qualità della consapevolezza cosciente, producendo visioni complesse e liberando ricordi e sentimenti repressi», scrive Carhart-Harris introducendo un promettente studio recente sul trattamento della depressione attraverso i funghi allucinogeni, pubblicato dal suo gruppo di ricerca sul New England Journal of Medicine. Lo studio clinico ha coinvolto 59 persone affette da depressione da moderata a grave, distribuite in modo casuale in due gruppi. A un gruppo è stata assegnata una cura di sei settimane a base di Escitalopram, e all’altro gruppo un trattamento costituito da due sessioni di terapia con psilocibina ad alto dosaggio.
Il tasso medio di risposta alla terapia del gruppo curato con Escitalopram è stato intorno al 33 per cento, in linea con quanto atteso sulla base dei precedenti dati relativi agli studi sui farmaci SSRI. La psilocibina ha funzionato molto più rapidamente, diminuendo i livelli di depressione già un giorno dopo la prima assunzione. E il tasso medio di risposta alla terapia è stato alla fine superiore al 70 per cento, contro le aspettative degli stessi ricercatori. Carhart-Harris e gli altri si aspettavano infatti di riscontrare risultati significativi sul piano del benessere psicologico, ma non sulla scala dei valori di gravità della depressione. Quasi tutti i parametri misurati – lavoro, socialità, ansia, sentimenti suicidi e capacità di provare emozioni e piaceri – presentavano dei miglioramenti.
Quanto agli effetti collaterali, il gruppo Escitalopram ha sperimentato gli attesi effetti di sonnolenza, secchezza delle fauci, disfunzioni sessuali e ansia, mentre nel gruppo psilocibina l’effetto collaterale più diffuso è stato un mal di testa da lieve a moderato un giorno dopo la somministrazione. I pazienti, spiega Carhart-Harris, saranno seguiti nei prossimi sei mesi in test di follow-up per confermare l’ipotesi che gli effetti positivi nel gruppo psilocibina siano più duraturi.
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La spiegazione e i rischi
Utilizzando gli strumenti di diagnostica di brain imaging è emerso che mentre i farmaci SSRI come il Prozac o il Cipralex sembrano smorzare la profondità emotiva, riducendo la reattività di certi circuiti cerebrali per ridurre i sintomi depressivi, la psilocibina – secondo il gruppo di ricerca dell’Imperial College di Londra – sembra «liberare il pensiero e i sentimenti sregolando la parte evolutivamente più sviluppata del nostro cervello, la neocorteccia» (sede delle funzioni cognitive superiori). La tesi sostenuta dai ricercatori è che, se accompagnata da un supporto psicologico professionale, questa “liberazione” sia in grado di portare il paziente ad acquisire una rinnovata ampiezza di prospettiva.
«L’aspetto più emozionante di questo studio è la sensazione di essere sull’orlo di un cambio di paradigma nell’assistenza psichiatrica legato a una migliore comprensione delle origini della depressione e di come possiamo curarla nel modo più efficace», conclude Carhart-Harris. Secondo lui queste scoperte potrebbero portare la psichiatria a favorire un modello «biopsicosociale multi-livello» nella spiegazione della depressione come risposta adattiva alle difficoltà, e ad allontanarla dalla prospettiva «obsoleta e miope del farmaco unico» dominante da diversi decenni.
In questa nuova prospettiva, gli psichedelici – somministrati in un appropriato contesto ambientale – possono attivare potenti stati cerebrali che si sono evoluti negli esseri umani per catalizzare profondi cambiamenti psicologici, e avviare di conseguenza una revisione sana e potenzialmente duratura di abitudini mentali e comportamentali difensive.
Per quanto riguarda il dibattito pubblico sui funghi allucinogeni, secondo i ricercatori, servirà tuttavia una certa cautela. Sebbene molti sostenitori della legalizzazione dell’uso della psilocibina – anche a scopo ricreativo e non soltanto terapeutico – confidino di poter replicare il percorso politico che negli ultimi anni ha cambiato rapidamente lo status della cannabis, c’è da tenere a mente che la psilocibina è una droga molto diversa e non è per tutti, avverte Carhart-Harris.
L’assunzione di psilocibina comporta rischi sia pratici che psicologici, anche molto seri. Assumere dosi elevate può compromettere gravemente la capacità di giudizio e, senza adeguata supervisione, incrementare il rischio di intraprendere azioni incaute o spericolate. In assenza di un’adeguata attenzione all’ambiente e alla preparazione della somministrazione, le persone possono vivere esperienze terrificanti, a volte con effetti duraturi. In un recente sondaggio citato da Carhart-Harris, quasi l’8 per cento delle persone che avevano riferito di aver avuto un bad trip aveva poi fatto ricorso ad aiuto psichiatrico.
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Per questo motivo occorre esaminare con attenzione la storia psichiatrica del paziente, oltre che le eventuali interazioni farmacologiche. Come occorre approfondire le ricerche anche in altri campi, inclusa l’antropologia e l’archeobotanica (la scienza che studia i resti vegetali provenienti dai siti archeologici in relazione alle abitudini di vita delle popolazioni umane). Scrive Carhart-Harris:
Quando gli psichedelici come la psilocibina e l’LSD fecero irruzione negli anni Cinquanta e Sessanta, arrivarono senza un manuale di istruzioni. Mezzo secolo dopo, stiamo ancora lottando per imparare come sfruttare al meglio il loro inquietante potere. E una fonte di saggezza su questa questione è rappresentata da altre culture con un’esperienza molto più lunga nell’uso di questi medicinali.
Le prospettive future
Gli studi sui benefici delle terapie a base di psichedelici hanno prodotto negli ultimi tempi risultati e sviluppi riconosciuti non soltanto in ambito accademico ma anche da diversi governi. Quello australiano ha recentemente annunciato un investimento di 15 milioni di dollari australiani (circa 10 milioni di euro) nella ricerca. A settembre scorso, grazie anche a una donazione anonima di 1,25 milioni di dollari (circa un milione di euro), l’Università della California, Berkeley, ha aperto un centro dedicato agli studi sugli psichedelici, che si è aggiunto quindi a quelli di ricerca già esistenti all’Imperial College di Londra e alla Johns Hopkins a Baltimora.
Amanda Feilding, finanziatrice di diversi progetti di Carhart-Harris, è la direttrice della Beckley Foundation, un’organizzazione non governativa britannica, accreditata presso le Nazioni Unite, impegnata nelle attività di riforma delle politiche globali in materia di droga e di sensibilizzazione sul bisogno di sostenere la ricerca scientifica sulle sostanze psichedeliche. «Milioni di persone sono in prigione soltanto perché hanno usato sostanze che alterano la coscienza senza causare danno agli altri», ricorda Feilding.
Intanto lo stato dell’Oregon ha votato a favore della legalizzazione delle terapie con psilocibina. In California è stata introdotta una legge del Senato per depenalizzare le droghe psichedeliche, e politiche di revisione delle leggi vigenti in materia di funghi allucinogeni sono in fase di discussione in altri stati americani, tra cui New York, New Jersey e Florida, e in altri paesi, come il Canada, l’Australia e il Regno Unito.
In Italia la coltivazione di funghi allucinogeni – considerati sostanze psicotrope – è vietata e costituisce un reato per cui è prevista la reclusione in base al testo unico sugli stupefacenti (art. 73 D.P.R. 309/1990).
In generale la tendenza recente condivisa in molti luoghi degli Stati Uniti – anche Washington DC – è quella di attribuire al reato relativo al possesso di queste sostanze il livello di gravità più basso. «Stiamo mandando un chiaro segnale al resto del paese, che l’America è pronta a parlare di psilocibina», disse a maggio 2019 il leader del movimento Decriminalize Denver, promotore del referendum in cui la maggioranza dei cittadini votò per la depenalizzazione dell’uso e del possesso dei funghi allucinogeni nella capitale del Colorado.
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Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il 118. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico all’199 284 284 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare i Samaritans al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.