I club della Super League pensavano di fare sul serio
Tutto suggerisce che il progetto fosse tanto concreto quanto male organizzato, e ora chi lo ha proposto ne pagherà le conseguenze
Il ritiro delle sei squadre di calcio inglesi dalla Super League è stato l’inizio del fallimento del progetto nel suo intento originale, come confermato mercoledì mattina dal presidente della Juventus Andrea Agnelli, vice presidente della neonata competizione europea e tra le figure più esposte in questa vicenda. Nella notte fra martedì e mercoledì, poco più di 48 ore dopo l’annuncio iniziale, la stessa lega dei dodici grandi club europei aveva pubblicato un comunicato in cui ha annunciato che il progetto sarebbe stato necessariamente «modificato», visti gli ultimi sviluppi.
Può dirsi quindi conclusa in appena due giorni la tentata riforma ostile del calcio professionistico europeo, la più ambiziosa e divisiva nella storia recente dello sport più popolare al mondo. E proprio l’enorme popolarità del calcio sembra aver avuto un ruolo chiave nel portare al fallimento un progetto che ora potrebbe trasformarsi al massimo in una trattativa con la UEFA per aggiustare la recente riforma della Champions League.
Ma con ogni probabilità, le dodici squadre tra le più ricche del mondo che si erano imbarcate nel progetto della Super League affronteranno le negoziazioni da una posizione minoritaria, dopo la prova di forza intrapresa e vinta dalla UEFA, che da subito aveva dimostrato di voler utilizzare ogni mezzo a sua disposizione per bloccare la lega alternativa. La grande pressione esercitata fin da subito dalla governance del calcio internazionale, e poi da allenatori, giocatori, sponsor, politica e tifosi, ha isolato i promotori della Super League, che ora dovranno gestirne le tante conseguenze in termini di perdita di credibilità e consenso.
La Super League è collassata con impressionante velocità e facilità, e i suoi promotori non sono sembrati in controllo delle conseguenze del loro eclatante annuncio. In nessun momento è sembrato che ci fosse un piano B, e forse nemmeno un piano A. L’impreparazione dei promotori della Super League, e la corsa a sfilarsi quando le cose si sono messe male, suggerisce che i club non avessero concordato una strategia comune per reggere alla pressione e mantenere la posizione di fronte alla UEFA, premessa necessaria per guadagnare forza contrattuale nelle eventuali trattative per riformare la Champions League.
Il loro tentativo di rimodellare la struttura del calcio europeo, spinto dall’esigenza di generare nuove entrate, sembra insomma essere stato reale, per quanto male organizzato. In tanti domenica sera avevano ipotizzato il contrario, ritenendo che ad avere il coltello dalla parte del manico fossero i club, e che la UEFA avrebbe finito per fare varie concessioni pur di riaverli con sé.
Lunedì sera Florentino Perez, presidente del Real Madrid e della Super League, aveva detto in diretta televisiva che i dodici club fondatori erano uniti da un accordo vincolante e che nessuno si sarebbe potuto tirare indietro. Poche ore dopo, Chelsea e Manchester City — che secondo indiscrezioni erano state le ultime due squadre invitate — hanno annunciato il loro ritiro. Nel giro di poche ore si sono aggiunte Arsenal, Manchester United, Tottenham e Liverpool. Nel caso di quest’ultima, il proprietario John W. Henry ha dovuto addirittura pubblicare un video di scuse nei confronti dei tifosi del club, fra i più agguerriti negli ultimi due giorni.
John W Henry's message to Liverpool supporters. pic.twitter.com/pHW3RbOcKu
— Liverpool FC (@LFC) April 21, 2021
A conferma della solidità del tentativo di instaurare rapidamente la Super League, domenica la banca di investimento americana JP Morgan aveva confermato un accordo per il finanziamento del progetto con 3 miliardi e mezzo di euro. Le bozze legali a sostegno del progetto erano state redatte dallo studio legale Clifford Chance di Londra: questi documenti erano stati presentati in via precauzionale ai tribunali dei paesi interessati, e martedì un tribunale spagnolo aveva imposto delle misure provvisorie che impedivano a UEFA e FIFA di intraprendere azioni legali contro i tre club spagnoli coinvolti.
Secondo le ricostruzioni del sito The Athletic, l’immagine della Super League era stata affidata all’agenzia di pubbliche relazioni InHouse Communications, che aveva curato il lancio del marchio e del sito. Katie Perrior, ex collaboratrice dei primi ministri britannici Theresa May e Boris Johnson, era stata messa a capo della comunicazione globale. Ma proprio sulla comunicazione si concentrano ora i maggiori interrogativi: perché il progetto è stato presentato in quel modo apparentemente sbrigativo, domenica notte? Perché il materiale esplicativo non ha impedito l’alimentarsi di voci che citavano erroneamente la “chiusura” del torneo alle squadre non fondatrici, e l’abbandono dei campionati da parte dei club interessati?
Oltre alla mancanza di chiarezza e di dettagli, che riguardava anche le modalità di qualificazione per i posti “aperti” e per l’edizione femminile della competizione, in tanti hanno notato stupiti che un progetto così imponente e straordinariamente finanziato, e per giunta presentato come più contemporaneo e attraente delle competizioni europee attuali, non prevedeva praticamente nessun tipo di campagna promozionale, fatta eccezione per lo scarno sito andato online domenica sera. A molti è sembrato tutto stranamente frettoloso, come se qualcosa avesse spinto i club ad anticipare l’annuncio senza che la preparazione fosse stata ultimata. Impressione alimentata anche dal fatto che dei 15 club fondatori dichiarati nel progetto, tre non erano ancora stati trovati.
I problemi non sono comunque finiti lì, e anzi in tanti sono stati sorpresi dal fatto che i promotori del progetto non abbiano passato lunedì e martedì a spiegare pubblicamente le loro ragioni, fatta eccezione per Florentino Perez. Mercoledì mattina il quotidiano Repubblica, di proprietà del gruppo Exor che fa capo alla famiglia Agnelli, ha pubblicato un’intervista del direttore in cui Andrea Agnelli si diceva convinto «al 100 per cento» che la Super League si sarebbe fatta. Quando è uscita, i sei club inglesi se n’erano già andati, ed era chiaro che il progetto si era sgretolato, come ha dovuto ammettere lo stesso Agnelli poche ore dopo.
Questi difetti nella comunicazione hanno generato un’opposizione pressoché unanime nel mondo del calcio, che probabilmente ha colto di sorpresa i club della Super League: allenatori come Jurgen Klopp e Pep Guardiola, giocatori delle squadre coinvolte, opinionisti ed ex calciatori, e soprattutto i tifosi di tutta Europa hanno reagito schierandosi compatti in modo intransigente contro il progetto.
Tutto questo ha tolto spazio a qualsiasi trattativa alla pari tra le parti, oltre a lasciare molti dubbi per il futuro. I diritti della UEFA Champions League per il prossimo triennio, per esempio, sono già stati venduti e assegnati (in Italia a Sky, Amazon e Mediaset): cosa sarebbe successo se nel frattempo le grandi squadre fossero riuscite a creare la Super League? E in che modo questo influenzerà i prossimi accordi televisivi? In Australia, il servizio di streaming Flick Sports era già arrivato a ritirare un’offerta da 60 milioni di dollari per i diritti della Champions League, martedì pomeriggio.
Il giornalista dell’Economist Simon Kuper, che già aveva avuto a che fare con questi temi nella sua serie di libri “Calcionomia”, ha provato a spiegarsi quello che è successo citando un passaggio che aveva scritto: «Chiunque passi un po’ di tempo nel mondo del calcio scopre che, proprio come il petrolio fa parte del business del petrolio, la stupidità fa parte del business del calcio. Questa è la stranezza alla base di questa industria. In campo è pura meritocrazia, ma fuori dal campo: zero controlli sulle capacità dei professionisti, molta mediocrità nei lavori migliori (inclusi alcuni allenatori)».
Le ripercussioni ipotizzate sono svariate. I dodici club — peraltro tutti usciti dall’ECA, l’associazione che riunisce le squadre partecipanti alle coppe europee — dovranno probabilmente confrontarsi con un crollo della loro reputazione (soprattutto quelli più esposti) e gestire il malcontento tra i tifosi, che non si dimenticheranno facilmente di quello che è successo.
I rapporti con FIFA e UEFA dovranno essere sistemati in qualche modo, nonostante i toni usati negli ultimi giorni siano stati durissimi. La loro posizione alle trattative sulla futura Champions League, dopo una simile disfatta, sarà di certo peggiore rispetto a quando la scissione era soltanto minacciata, e in cui era plausibile pensare che avrebbe potuto avere successo. Potrebbero infine nascere problemi anche all’interno dei dodici club, come è già successo nel caso del Manchester United, il cui potente vicepresidente esecutivo Ed Woodward ha annunciato martedì le sue dimissioni entro la fine dell’anno.