Alla fine il PD ha deciso di fare le primarie a Roma
Dovrebbero tenersi il 20 giugno, e Nicola Zingaretti continua a dire di non volersi candidare
Dopo mesi di discussioni e ripensamenti, martedì sera i rappresentanti locali del Partito Democratico hanno partecipato alla prima riunione convocata per organizzare le primarie del centrosinistra per le elezioni amministrative di Roma. Le primarie dovrebbero tenersi il prossimo 20 giugno, mentre le comunali sono fissate per l’autunno dopo il rinvio deciso per via della pandemia.
Non ci sono ancora state candidature ufficiali per le primarie, ma si suppone che si faranno avanti gli esponenti del PD che avevano detto di volerci provare nei mesi scorsi, dall’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri alla senatrice Monica Cirinnà. Nicola Zingaretti, presidente del Lazio, da settimane riceve richieste dai colleghi di partito affinché si candidi, in quanto ritenuto l’esponente più forte del centrosinistra romano. Ma ancora ieri ha ribadito di non volerlo fare, e di voler invece concludere il suo mandato in Regione. Carlo Calenda di Azione dice di non voler partecipare alle primarie, e di volersi candidare autonomamente alle comunali.
Il voto per le amministrative è attualmente previsto tra settembre e ottobre. Per il Movimento 5 Stelle si è già candidata Virginia Raggi, sindaca uscente. Per il centrodestra circolano diversi nomi, tra cui quello dell’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso e quello del manager Andrea Abodi, ma non è stato ancora raggiunto un accordo.
Le primarie
Lo scorso marzo, poco dopo che Enrico Letta era stato eletto segretario del Partito Democratico, era stata annunciata informalmente la candidatura per il PD a Roma di Gualtieri. Poco dopo, però, la notizia era stata smentita. Letta aveva detto che il “dossier di Roma” non era ancora stato aperto ipotizzando però che si sarebbero fatte le primarie: «Ci sono diversi candidati, tra cui Gualtieri del PD». Da lì in poi, Letta aveva ribadito più volte che per la scelta del candidato sindaco a Roma si sarebbero svolte le primarie.
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Oltre a Gualtieri, nel settembre del 2020, aveva anticipato la sua intenzione di candidarsi anche la senatrice Monica Cirinnà, nota per essere stata la prima firmataria della legge sulle unioni civili del 2016. E hanno dato per ora la loro disponibilità anche Giovanni Caudo, ex assessore all’Urbanistica quando il sindaco di Roma era Ignazio Marino e presidente del III Municipio, Paolo Ciani, consigliere regionale di Democrazia Solidale–DEMOS e vicepresidente della commissione Sanità e Affari sociali e il ricercatore Tobia Zevi.
Da settimane nei retroscena politici continua a circolare anche il nome di Nicola Zingaretti, ex segretario del PD e presidente della Regione Lazio, che alcuni nel partito avrebbero voluto e vorrebbero ancora come candidato unico per le comunali. Zingaretti – che ha sempre vinto alle elezioni a cui si è candidato – non sembra però disponibile, e fino ad ora ha ribadito di voler portare a termine il mandato da presidente, che scade nel 2023. Ma c’è l’impressione che la decisione possa non essere davvero irreversibile.
Se alla fine Zingaretti decidesse di candidarsi non sarebbe chiaro né se si terrebbero effettivamente le primarie, visto che con ogni probabilità le stravincerebbe; né se avrebbe senso la candidatura per esempio di Gualtieri, considerato molto vicino all’ex segretario; né, soprattutto, come possa riuscire Zingaretti a gestire la relazione con il Movimento 5 Stelle. Da segretario di partito, aveva infatti puntato e investito sull’alleanza strutturale con il M5S, accogliendo in giunta due sue esponenti. Candidarsi a Roma sfidando Raggi lo metterebbe nella condizione imbarazzante di essere stato promotore di un’alleanza tra PD e M5S a livello nazionale e di contraddire di fatto quell’indirizzo in prima persona a livello comunale.
Giorni fa, Repubblica ha scritto che Zingaretti sarebbe l’unico che riuscirebbe a vincere contro ogni possibile sfidante: secondo un sondaggio commissionato dal PD, al ballottaggio prenderebbe il doppio di Virginia Raggi e supererebbe di più di dieci punti Bertolaso, se fosse lui il candidato scelto dal centrodestra. In un altro sondaggio commissionato dal Sole 24 Ore si dice che oltre a Zingaretti anche Carlo Calenda riuscirebbe a superare il centrodestra a un eventuale ballottaggio. Ma il leader di Azione non vuole candidarsi alle primarie, preferendo correre da solo alle comunali.
Carlo Calenda
Lo scorso ottobre, intervistato da Fabio Fazio durante il programma Che tempo che fa, Calenda aveva confermato la sua intenzione di candidarsi alle amministrative di Roma. La sua candidatura era in ballo da diversi giorni, con vivaci discussioni sull’eventuale appoggio da parte del Partito Democratico, partito al quale Calenda si era iscritto nel 2018 poco dopo la brutta sconfitta alle elezioni politiche, e che aveva lasciato con toni molto critici dopo l’accordo di governo con il Movimento 5 Stelle.
Calenda è europarlamentare dal 2019 eletto con poco meno di 280 mila preferenze, ed è stato ministro dello Sviluppo economico nel governo Gentiloni. Nel novembre 2019 aveva fondato il partito Azione, di cui però non si conosce molto e che appare oggi come un “partito personale” che, di fatto, coincide con la figura di Calenda stesso. Per ora, nell’area di centro e di centrosinistra, la sua candidatura è stata accolta positivamente da Italia Viva e da +Europa, che in una nota aveva detto di essere «pronta a sostenerlo con convinzione».
L’attuale distanza di Calenda dal PD ha a che fare sia con il tema delle alleanze, sia con quello delle primarie. Sulle alleanze la sua posizione è netta: non ne vuole. Calenda sostiene anzi che su Roma la valutazione («disastrosa») sull’amministrazione Raggi sia condivisa con il PD. Per quanto riguarda le primarie, invece, Calenda pensa che a Roma in questo caso non siano necessarie: mesi fa aveva spiegato che, con un’emergenza sanitaria in corso, la partecipazione sarebbe stata a rischio. Ma alla base della sua insofferenza per le primarie non sembrano esserci solo questioni legate alla partecipazione: l’ex ministro ha più volte spiegato che è necessario «allargare il campo il più possibile, parlare a tutti i cittadini», mentre le primarie “limiterebbero” la scelta all’interno della comunità dei militanti di centrosinistra.
Qualche giorno fa è tornato sull’argomento usando toni molto critici. All’Assemblea nazionale del PD della scorsa settimana il segretario Enrico Letta aveva parlato delle amministrative, spiegando che lo strumento per individuare i candidati sarebbero rimaste le primarie, «per rispettare i territori». Ma, aveva aggiunto, serve flessibilità: le primarie si faranno «quando questo» sarà «ritenuto necessario dai territori». Si tratta di una correzione rispetto alla linea originaria di Letta che è stata subito commentata da Calenda in modo piuttosto polemico: «Contrordine compagni. Le primarie non sono più intoccabili ma diventano duttili. Si possono fare, non fare, oppure si possono svolgere dove conviene mantenere il potere e non altrove. Insomma, primarie a scomparsa».
Virginia Raggi e il Movimento 5 Stelle
Lo scorso agosto Virginia Raggi, eletta nel 2016, si era candidata per un secondo mandato, ricevendo il sostegno di Beppe Grillo che, sul suo blog, aveva pubblicato un post dove l’attuale sindaca era rappresentata come Wonder Woman e veniva chiamata «la nostra guerriera».
La candidatura di Raggi rappresenta probabilmente il principale ostacolo a un futuro accordo con il PD. Tra la giunta della sindaca e il gruppo del PD al Consiglio comunale di Roma c’è sempre stata forte ostilità e durante tutto il suo mandato Raggi ha sottolineato con forza la discontinuità con le amministrazioni precedenti, in particolare quella guidata da Ignazio Marino e sostenuta dal PD.
Ma la sua candidatura potrebbe essere un punto di rottura anche dentro al movimento stesso, sia a livello nazionale che locale. Raggi è sostenuta da Alessandro Di Battista, che pur avendo dichiarato di essere uscito dal partito è considerato una figura di riferimento della cosiddetta ala radicale, di cui fa parte anche Davide Casaleggio. La frangia con il quale l’ala più governista e moderata del M5S, guidata da Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Vito Crimi, ha da mesi grossi problemi. Raggi è stata tra l’altro l’unica eletta del M5S ad essere stata invitata all’evento organizzato dall’associazione Rousseau, di cui Davide Casaleggio è presidente, per ricordare suo padre Gianroberto a cinque anni dalla morte.
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Negli anni in cui Raggi è stata sindaca di Roma si sono dimessi vari assessori, ci sono stati rimpasti, Raffaele Marra, suo principale consigliere, è stato arrestato, così come il presidente di Acea (la società che in città si occupa di energia elettrica e gas) e quello del Consiglio comunale, Marcello De Vito, nell’ambito di un’inchiesta sui rapporti tra politica e impresa a Roma. Cinque consiglieri comunali hanno infine abbandonato il M5S e ora la maggioranza che sostiene la sindaca può contare su un solo voto in più rispetto all’opposizione, compreso quello di Raggi stessa e del presidente del Consiglio comunale che spesso non partecipa.
Raggi ha confermato in un post su Facebook di aver ricevuto varie pressioni per ritirare la propria candidatura, ma ha risposto che il suo «percorso è segnato ed è aperto a tutti». Resta da chiarire come e se potrà farlo: le regole interne del Movimento 5 Stelle sul vincolo dei due mandati, così come sono ora, non glielo permetterebbero perché Raggi, prima di essere eletta sindaca, aveva ricoperto la carica di consigliera comunale sempre a Roma.