L’America rischiò di distruggere i vitigni europei, ma poi li salvò
La storia delle infestazioni ottocentesche della fillossera, e di come il continente da cui era arrivata fornì la soluzione a un potenziale disastro
Nel 1863 la Linguadoca era una regione francese, compresa tra la Provenza e i Pirenei, già nota in tutta Europa per la coltivazione di Vitis vinifera, la pianta più diffusa e importante al mondo per la produzione di vino. Quell’anno però i viticoltori di Pujaut, un villaggio vicino a Nîmes, registrarono un insolito danno al loro raccolto, senza inizialmente riuscire a individuarne la causa. Le foglie delle viti al centro del vigneto erano rapidamente ingiallite e avevano poi assunto un colore rossastro, prima di cadere del tutto. La malattia si estese rapidamente alle vigne vicine, determinando una riduzione drastica della produzione. L’anno successivo le piante non diedero frutti e, ormai morte, furono dissotterrate: le radici erano completamente nere e marce.
Il danno ai vigneti di Pujaut nel 1863 è ritenuto il primo caso noto nella storia della memorabile devastazione delle coltivazioni di vite che, nella seconda metà dell’Ottocento, dalla Francia si estese al resto d’Europa causando una grave crisi dell’intera industria del vino. Responsabile di quella infestazione, si scoprì qualche anno dopo, era la fillossera della vite, un microscopico insetto originario del Nord America e che già aveva ostacolato e rallentato la coltivazione di Vitis vinifera in quell’area del pianeta, per altri versi fertilissima e adatta alla viticoltura. La fillossera distrusse gran parte dei vitigni europei – il vitigno è la varietà coltivata, come Merlot, Sangiovese o Chardonnay – compresi quelli più rinomati, e decimò la produzione di vino per un paio di decenni: tra l’Ottocento e il Novecento, quello che sarebbe stato uno dei settori economici più ricchi e fortunati per diversi paesi europei rischiò di scomparire completamente.
A risolvere la crisi del vino in Europa e in tutto il mondo, salvando la produzione fino ai giorni nostri, fu un’intuizione che sfruttava le risorse naturali dello stesso paese da cui proveniva la minaccia. Innestando le viti europee dei vigneti sopravvissuti, con le loro uve da vino pregiate, sulle radici delle viti di origine americana che nel tempo avevano sviluppato una precedente resistenza alla fillossera, gli agronomi e i viticoltori europei riuscirono a tenere in vita i loro vigneti. L’America, insomma, rischiò di distruggere per sempre le viti e il vino europei, ma alla fine finì per salvarli.
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Le prime coltivazioni in America
Si ritiene che molte terre in America settentrionale fossero destinate alla coltivazione della vite da prima dell’arrivo degli esploratori europei. Vinland, d’altronde, fu il nome che i vichinghi diedero all’attuale Terranova, proprio per via della quantità di viti selvatiche che vi trovarono. L’abbondanza di viti autoctone in California indusse i primi missionari che vi si stabilirono alla fine del Seicento a utilizzare quei grappoli per la produzione di vino, ma senza risultati apprezzabili. L’introduzione della Vitis vinifera europea fu presto ritenuta necessaria per la coltivazione di uve più adatte alla produzione di vino.
Le viti native americane, tra le quali Vitis labrusca, Vitis aestivalis e Vitis rotundifolia, racconta lo scrittore e docente di arboricoltura all’Università di Firenze Stefano Mancuso in Uomini che amano le piante, si prestavano piuttosto alla produzione di uva da tavola. E i primi viticoltori americani si convinsero infine, verso la metà dell’Ottocento, che fosse quella la coltivazione più redditizia, grazie soprattutto al grande successo della Concord, una varietà di Vitis labrusca la cui creazione è storicamente attribuita all’agricoltore americano Ephraim Wales Bull. La Concord è ancora oggi largamente utilizzata come uva da tavola e da spremuta, soprattutto per la preparazione di bibite, succhi e confetture.
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Gli esperimenti dei padri missionari con la vite comune europea nei territori americani portarono alla selezione della varietà Mission, ma la coltivazione di Vitis vinifera nel Settecento e fino alla seconda metà dell’Ottocento diede in generale scarsi risultati. E anche precedenti esperimenti con quella stessa specie di vite europea da parte dei coloni francesi in Florida erano finiti inspiegabilmente male. È noto oggi che a causare quei fallimenti fu una specie nordamericana della fillossera, lo stesso insetto che mise poi a rischio in tutto il mondo la coltivazione della più importante uva da vino, mentre in America la produzione si era piuttosto concentrata sulla produzione di vino da tavola.
Tra le caratteristiche evolutive delle viti americane è rilevante la maggiore resistenza ad alcuni tipi di infestazione che a un certo punto queste piante mostrarono rispetto alle viti europee. In particolare le specie americane si erano evolute nel corso dei secoli in modo da sviluppare diverse difese naturali contro la fillossera, invece devastante per la Vitis vinifera. Le radici di molte specie di viti americane secernono infatti una linfa appiccicosa che respinge gli attacchi delle ninfe dell’insetto, impedendo loro di nutrirsi in una fase fondamentale dello sviluppo.
La fillossera
La fillossera della vite (Daktulosphaira vitifoliae) è un insetto – appartenente alla superfamiglia degli afidi – oggi ben conosciuto e ancora temuto dai viticoltori, ed è presente in quasi tutti i paesi dopo essersi diffuso in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, dapprima in Francia. Fa parte dei fitofagi monofagi, organismi che si nutrono a spese di una sola specie vegetale. Nello specifico la fillossera si nutre dei succhi della vite attaccando le foglie e le radici in diverse fasi di un complicato e articolato ciclo di riproduzione.
Una femmina fecondata genera da un unico uovo sulla pianta di vite un insetto che, in modo asessuato, depone poi molte uova in un’escrescenza (galla) sulle foglie. Da quelle numerose uova nascono insetti gallicoli, ossia in grado di depositare altre uova sulle foglie, e insetti radicicoli, ossia in grado di raggiungere le radici e depositare lì altre uova. Da quel gruppo di radicicoli – che già allo stato di ninfe producono danni gravi alle piante – nascono infine alcuni alati che volano via e riavviano il ciclo su altre piante.
Le radici delle viti americane sono generalmente resistenti ai radicicoli della fillossera. In pratica le larve dell’insetto riescono ad attaccare soltanto alcune delle numerose radici assorbenti ma non quelle con funzioni di ancoraggio al terreno e di conduzione delle sostanze coinvolte nei processi biologici. Ne consegue che, anche in caso di attacco, i danni sono generalmente contenuti e non compromettono la vitalità della pianta. Nei casi peggiori la larva riesce a creare una ferita sulla radice ma in genere la vite reagisce formando uno strato protettivo di tessuto che ricopre la ferita e la protegge da infezioni batteriche o fungine secondarie.
Il ciclo di riproduzione radicicolo fu invece presente e devastante nelle infestazioni dei più vulnerabili vigneti europei nella seconda metà dell’Ottocento. In quel caso le nodosità e i rigonfiamenti tuberosi provocati alle radici determinavano infezioni secondarie e portavano a deformazioni in grado di interrompere gradualmente il flusso di nutrienti alla pianta. Uno dei motivi che rendono particolarmente temibile ancora oggi la fillossera è lo stesso che impedì per lungo tempo ai coloni di accorgersi delle infestazioni nelle coltivazioni sperimentali di Vitis vinifera in America: la loro parziale invisibilità.
Attraverso una specie di proboscide abbastanza lunga i parassiti riescono ad aspirare la linfa direttamente dalle radici, e intanto iniettano una tossina che rallenta progressivamente i processi biologici della pianta fino alla morte della vite stessa. Poco prima di arrivare a quel punto, gli insetti ritirano il rostro e si spostano alla ricerca di una nuova fonte di alimentazione. E questo fa sì che non vi siano più afidi attaccati alle radici ormai marce, una volta dissotterrate.
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L’origine della fillossera
Come la fillossera arrivò in Europa è un argomento da tempo dibattuto e recentemente rinvigorito da una serie di studi che hanno cercato di stabilire l’origine dell’insetto che infestò le viticolture europee nella seconda metà dell’Ottocento. È certo che, una volta distrutti innumerevoli vigneti in Francia e in Europa, le infestazioni arrivarono e fecero danni anche in diverse colonie nel resto del mondo, in Sudafrica e in una parte dell’Australia, dove ancora oggi la fillossera è un serio problema per le estese coltivazioni di Vitis vinifera non innestata.
È stata per lungo tempo condivisa tra gli agronomi del diciannovesimo secolo l’idea che la fillossera fosse arrivata in Europa dal Nord America. Gli studi genetici più recenti hanno fornito ulteriore sostegno a questa ipotesi. Confrontando la sequenza del genoma della fillossera europea con quella delle popolazioni delle viti selvatiche negli Stati Uniti, un gruppo di ricercatori francesi e americani ha individuato una sorprendente somiglianza tra la fillossera europea e quella di due popolazioni di fillossera presenti in coltivazioni di Vitis riparia – un’altra delle viti americane più note – in Wisconsin e Illinois.
Secondo i risultati dello studio è del tutto plausibile che la Vitis riparia sia stata la pianta ospite per la fillossera e che la valle superiore del Mississippi e l’Upper Midwest (la regione medio-occidentale degli Stati Uniti) siano state le aree di diffusione originarie. A conclusioni simili arrivarono i viticoltori europei ipotizzando che i viaggi più rapidi e frequenti dall’America, resi possibili dalla disponibilità di mezzi di navigazione più efficienti, fossero all’origine della presenza della fillossera in Europa. Un’ipotesi avvalorata dagli stessi ricercatori è che l’insetto sia riuscito a sopravvivere su talee di Vitis riparia trasportate dai naturalisti europei nelle stive fresche e asciutte dei battelli a vapore dell’Ottocento – più veloci delle imbarcazioni a vela – e destinate ai nascenti orti botanici delle grandi capitali degli imperi coloniali.
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Un’altra ipotesi plausibile presa in considerazione già all’epoca è che la fillossera sia stata inavvertitamente introdotta in Europa insieme ad alcune specie di viti americane importate a metà Ottocento per risolvere una precedente malattia dovuta a un fungo parassita del genere Peronospora che aveva attaccato foglie, tralci e grappoli nei vigneti in Francia, Belgio, Svizzera e Italia settentrionale. Si scoprì in seguito che le malattie di questo e di altri parassiti potevano essere debellate tramite fungicidi a base di zolfo e rame. Questo stesso metodo era invece totalmente inefficace contro l’infestazione causata dalla fillossera.
A causa dell’insetto, la produzione totale di vino in Francia scese da 8,45 miliardi di litri nel 1875 a 2,34 miliardi nel 1889. E secondo alcune stime una frazione compresa tra i due terzi e i nove decimi di tutti i vigneti d’Europa andò completamente distrutta, inclusi i circa 2,5 milioni di ettari in Francia, senza distinzioni tra i vigneti più rinomati e quelli dei semplici contadini.
La soluzione
L’intuizione degli agronomi europei riguardo alla probabile origine della fillossera permise loro di cercare soluzioni al problema dell’infestazione proprio nelle terre oltreoceano da cui quell’insetto proveniva ma in cui, forse proprio per la prevalenza di coltivazioni differenti, non sembrava aver provocato le devastazioni che affliggevano i vigneti in Europa. Alcuni anni dopo i primi casi registrati a Pujaut, in Francia, alcuni viticoltori della vicina Roquemaure chiesero aiuto alla Società di orticoltura e botanica del dipartimento dell’Hérault, nell’Occitania.
Per indagare sull’origine della piaga la società istituì una commissione di cui facevano parte il presidente Gaston Bazille, il botanico e docente dell’Università di Montpellier Jules-Émile Planchon e l’illustre viticoltore Felix Sahut. Nel luglio 1868 tutti e tre furono convocati come esperti a Saint-Martin-de-Crau, nella Vaucluse, dove scoprirono migliaia di afidi responsabili del disastro nei vigneti locali. Dopo aver chiesto un parere agli entomologi francesi Victor Antoine Signoret e Jules Lichtenstein, furono infine in grado di risalire alla fillossera della vite, che era stata descritta per la prima volta nel 1854 dall’entomologo americano Asa Fitch.
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Nel frattempo Charles Valentine Riley, entomologo del Missouri di origine britannica, aveva scoperto varietà di uva americane particolarmente resistenti alla fillossera, e questo indusse qualche viticoltore a importare alcune specie nel 1871 per cominciare a innestarle nei vigneti francesi. Fu una scelta inizialmente molto osteggiata dalla maggioranza dei viticoltori, riluttanti ad abbandonare le varietà tradizionali e consapevoli del rischio che i vitigni ibridi potessero risultare sgraditi al palato degli europei. Finché non fu lo stesso Bazille, presidente della società di Montpellier, a suggerire espressamente quella soluzione, quando molti si ritrovarono senza ormai altra scelta.
Fu consultato uno dei massimi esperti di vitigni autoctoni americani, il texano Thomas Volney Munson, i cui studi si rivelarono fondamentali per salvare la produzione vinicola europea. La scelta di innestare i ceppi delle viti europee sui piedi di vite americani – una tecnica nota come portainnesto – non interferiva con lo sviluppo delle uve da vino. Dopo diversi tentativi ed errori, il metodo si rivelò un rimedio efficace. E nel 1888 una delegazione francese inviata a Denison, in Texas, conferì a Munson il titolo di Chevalier du Merite Agricole dell’Ordine nazionale della Legion d’onore.
I vigneti mai infestati
La ricostituzione dei tanti vigneti devastati dalla fillossera fu un processo lento ma al termine del quale l’industria del vino in Francia – e in altri paesi in Europa che seguirono quel modello – tornò a una relativa normalità. L’innesto delle viti europee su radici di viti americane – principalmente Vitis aestivalis, rupestris e riparia – è ancora oggi ritenuto l’unico metodo efficace e applicabile su vasta scala per contrastare i danni della fillossera.
È opinione piuttosto condivisa tra gli studiosi e gli esperti che, senza il portainnesto americano, oggi probabilmente non esisterebbe alcuna industria del vino di Vitis vinifera in Europa né nella maggior parte delle coltivazioni di questa specie nel mondo. Non esisterebbe da nessuna parte eccetto che in Cile, nello Stato di Washington e in un’ampia parte dell’Australia, e in pochi altri luoghi in cui l’assenza della fillossera non ha finora reso necessari gli innesti.
Secondo la critica enogastronomica Kerin O’Keefe, peraltro esperta di vitigni autoctoni italiani, una delle ragioni per cui il Cile fu risparmiato dalle infestazioni fu strettamente geografica, ossia per la presenza delle «barriere naturali offerte su tutti i lati dalle Ande, dall’Oceano Pacifico e dal Deserto di Atacama». Anche in Italia, segnala O’Keefe, esistono vigneti mai interessati dalla fillossera: ad esempio la tenuta Lisini a Montalcino, che produce un vino chiamato “Prefillossero” e ottenuto da uve di Sangiovese provenienti da un piccolo appezzamento – circa mezzo ettaro – impiantato alla fine dell’Ottocento, o altri in Valle d’Aosta e sull’Etna.
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Vitigni autoctoni da vino che hanno resistito alle infestazioni si trovano anche a Cipro (Xynisteri, Maratheftiko, Mavro), sull’isola greca di Santorini (Assyrtiko) e nel borgo medievale spagnolo di Fermoselle (Juan Garcia). Esiste anche un raro vino Porto prodotto da viti non innestate, chiamato Nacional, coltivate su un piccolo appezzamento nella tenuta Quinta do Noval, Valle del Douro, nella regione settentrionale del Portogallo.