Ponzi, quello dello schema
Storia dell'italiano che diede il nome a una delle truffe più replicate di sempre, cominciata con dei francobolli
di Gabriele Gargantini
Henry Heimlich, medico, è ancora oggi menzionato quotidianamente nel mondo per la sua manovra; a Dick Fosbury è riservato lo stesso trattamento per la sua rivoluzionaria tecnica per il salto in alto; il calciatore e allenatore Renato Cesarini è di certo meno noto della “zona Cesarini” che ispirò. Questo fenomeno per cui certi cognomi diventano arcinoti e impressi nell’immaginario collettivo mentre i loro possessori originari diventano via via sconosciuti ai più è frequente nella politica, nell’arte o nella scienza, in relazione a leggi, opere o scoperte.
Carlo Ponzi, nato in Romagna a fine Ottocento e morto a Rio de Janeiro nel 1949, non è di per sé un personaggio storico particolarmente ricordato: sicuramente meno della truffa semplice ma efficacissima – almeno finché durò – a cui diede il nome. Lo schema Ponzi, di cui nelle ultime ore si è parlato in relazione alla morte di Bernie Madoff, che architettò il più grande di sempre.
Non ci sono molte informazioni sui primi anni di vita di Carlo Pietro Giovanni Guglielmo Tebaldo Ponzi, e le poche che ci sono arrivano quasi sempre da interviste che diede dopo essere diventato famoso. E che, vista una certa sua tendenza alla menzogna, alla truffa e al racconto amplificato di sé, non sempre si possono considerare attendibili. Si sa che nacque a Lugo, vicino a Ravenna, intorno al 1882, forse da genitori di origini pugliesi e, secondo un suo resoconto, in una famiglia “benestante”. E che dopo aver lavorato alle Poste andò a Roma per studiare all’università La Sapienza. Dove non si laureò mai e a quanto pare nemmeno ci andò vicino: «in quegli anni» raccontò in seguito al New York Times «ero quello che voi qui definireste uno spendthrift [uno spendaccione]. Mi trovavo infatti in quel periodo precario della vita di un giovane uomo in cui spendere soldi sembra essere la cosa più attraente al mondo».
Un po’ più che ventenne, Ponzi fece come tanti altri suoi coetanei e prese una barca per gli Stati Uniti. Arrivò a Boston nel novembre del 1903 e a proposito di quel momento disse più avanti: «Come ricordo sempre, arrivai in questo paese con 2 dollari e mezzo nelle tasche e un milione di dollari in sogni, e quei sogni non mi hanno mai abbandonato».
Dopo essersi ambientato e aver imparato un po’ la lingua, e dopo una serie di lavori vari, Ponzi andò a Montreal, in Canada, e lì trovò lavoro presso il Banco Zarossi, una banca fondata da Luigi “Louis” Zarossi. Il Banco Zarossi aveva successo perché prometteva ai suoi correntisti – la maggior parte dei quali erano emigrati dall’Italia – un rendimento parecchio alto, pari a circa il 6 per cento. In realtà, però, il Banco Zarossi aveva i conti in rosso e a un certo punto Zarossi stesso fuggì in Messico con buona parte dei soldi. Ponzi, che non si sa quanto sapesse sugli affari e i problemi del Banco, restò, a quanto pare anche occupandosi del mantenimento della famiglia di Zarossi. Ma alcuni mesi dopo fu arrestato per aver falsificato un assegno di uno degli ex correntisti.
Finì quindi in carcere, e certe sue biografie raccontano che alla madre scrisse di essere diventato “assistente speciale” di una guardia carceraria. Sembra comunque che si fece davvero apprezzare come traduttore, un lavoro che avrebbe rifatto anche in seguito.
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Uscito di prigione, Ponzi fece tutta un’altra serie di lavori, finì un altro paio di volte nei guai (in un caso per questioni legate all’immigrazione illegale di altri italiani) e nel 1918 si sposò con Rose Maria Gnecco, anche lei di origini italiane. Per un po’ lavorò nel negozio di alimentari della famiglia di lei. Per un po’ perché poi provò a fare altro, e tra le altre cose pare che cercò di proporre una sorta di catalogo di attività imprenditoriali da vendere a chi fosse interessato a farci affari, con un principio simile a quello delle Pagine Gialle.
L’idea non ebbe successo, ma stando a quanto raccontato in seguito da Ponzi lo portò a ricevere una lettera dalla Spagna che, più che per il contenuto, lo colpì per un altro dettaglio. La lettera, infatti, era accompagnata da un buono di risposta internazionale, una sorta di coupon mandato dall’estero che negli Stati Uniti poteva essere cambiato con un francobollo. I buoni di risposta internazionale servivano a scrivere a qualcuno all’estero – a patto che tra i due paesi ci fosse una convenzione a riguardo – pagando in anticipo le spese necessarie per la risposta, superando il fatto che in un paese estero erano disponibili solo i francobolli di quel paese.
Dalla Spagna, insomma, una persona poteva inviare una lettera negli Stati Uniti includendo un buono ufficiale che poteva essere scambiato dal destinatario con un francobollo americano sufficiente per inviare la risposta in Spagna. Ma Ponzi si accorse che in certi casi i buoni di risposta internazionale avevano un costo minore rispetto a quello dei francobolli con cui potevano essere scambiati: era il caso della Spagna, dove il costo della vita era inferiore rispetto agli Stati Uniti. La cifra investita in buoni in alcuni paesi poteva essere – secondo lui – accresciuta ritirando in blocco francobolli americani di valore complessivamente superiore.
In teoria le premesse c’erano e l’idea era giusta e nemmeno illegale, sebbene per molti versi quasi impraticabile. Ma, in breve, Ponzi pensò di poterci fare grandissimi guadagni e iniziò a parlarne anche ad altre persone, per convincerle a fare lo stesso. Nel gennaio del 1920 Ponzi, che prima di chiedere soldi ad altre persone pare avesse provato a chiedere senza successo un prestito bancario, fondò anche una società dedicata a quel tipo di investimento: la Securities Exchange Company che prometteva, in soli 45 giorni, guadagni del 50 per cento sull’investimento iniziale.
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In pratica, Ponzi si trovò tra le mani i soldi di altre persone che avevano investito nell’idea, che però nel frattempo aveva capito non funzionare davvero per ostacoli pratici e burocratici. Di certo, non funzionava con le proporzioni e le possibilità di guadagno che aveva promesso. Probabilmente basandosi su certe pratiche imparate al Banco Zarossi, decise quindi di mettere in piedi quello che sarebbe poi diventato noto come “schema Ponzi”: avrebbe usato i soldi dei nuovi investitori per ripagare i vecchi investitori. Una pratica che può funzionare fino a un certo punto, e sempre a patto che ci siano sempre nuovi investitori, e che siano sempre di più. Non fu niente di particolarmente geniale o innovativo (negli Stati Uniti la pratica è anche nota come quella del robbing Peter to pay Paul, “rubare a Pietro per pagare Paolo”), ma funzionò benissimo.
Alto poco più di un metro e sessanta centimetri e molto attento al suo modo di vestire, Ponzi aveva probabilmente un’ottima capacità retorica e un grande carisma, che gli permisero di convincere molte persone a investire nella sua attività. Prima furono perlopiù altri immigrati italiani, ma poi arrivarono anche investitori di altro tipo, alcuni dei quali con somme piuttosto ingenti. Sembra anche che più di metà dei poliziotti di Boston finirono per investire nella società di Ponzi, ovviamente ignari della truffa.
Nell’estate del 1920 Ponzi divenne milionario. Aprì una serie di conti bancari, comprò una costosa auto Locomobile e – tra le tante altre cose – una grande villa con piscina riscaldata. «Più compravo e più volevo comprare» raccontò in seguito: «era una mania, un delirio». In quell’estate, ricordò qualche anno fa lo Smithsonian Magazine, «Ponzi fu quasi ogni giorno sulla prima pagina di ogni giornale di Boston». Il New Yorker scrisse: «Era un dandy che si pavoneggiava con il cappello di paglia e un vistoso bastone con la punta d’oro, sempre gentile con i giornalisti, per i quali aveva sempre una battuta pronta e qualche frase da trascrivere. E la copertura mediatica nei suoi confronti fu, all’inizio, altamente elogiativa».
Sembra che a quel punto l’idea di Ponzi fosse di usare parte dei soldi ricavati con il suo schema truffaldino per comprarsi una qualche attività che facesse davvero profitti, e di usarli poi per ripagare i tanti investitori da cui aveva preso soldi. Ma, anche ammettendo che avesse davvero deciso di farlo, sarebbe stato molto complicato riuscirci, visti i milioni di dollari (di allora) che Ponzi avrebbe dovuto restituire.
Comunque non arrivò mai a farlo perché già dagli ultimi giorni di luglio ci fu un piuttosto repentino cambio di prospettiva nei suoi confronti. Ci si accorse che, anche ammettendo che la cosa potesse funzionare, perché tutti gli investitori potessero essere ripagati serviva che in commercio ci fossero oltre 150 milioni di buoni di risposta internazionale. Invece ce n’erano al massimo alcune decine di migliaia. Ma anche a prescindere da quello, ci si accorse che quel tipo di investimento, con quei guadagni e quelle quantità, non avrebbe mai potuto funzionare. Qualcuno notò anche che Ponzi stesso non sembrava aver investito nella sua attività.
I giornali iniziarono a raccontare i precedenti guai giudiziari di Ponzi e Calvin Coolidge, che in seguito sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti e che al tempo era governatore del Massachusetts, chiese che si aprisse un’indagine sulle sue attività. Anticipando quello che sarebbe stato il suo arresto, Ponzi si consegnò alla polizia e nel novembre del 1920 fu processato per decine di capi d’accusa e condannato a cinque anni di carcere. Si stima che in tutto, in quei pochi mesi, avesse accumulato almeno 15 milioni di dollari, pari ad almeno 200 milioni di oggi.
Tre anni e mezzo dopo Ponzi uscì di carcere, ma per tutti gli anni Venti continuò ad avere problemi legali in relazione al suo “schema”, e una causa che lo riguardava arrivò fino alla Corte Suprema statunitense. Pare anche che Ponzi – nel frattempo coinvolto in altre attività fraudolente – provò a tornare in Italia sotto falsa identità, ma fu fermato dopo aver rivelato quella vera a un compagno di viaggio che poi lo disse ad altri.
Fu però fatto tornare in Italia nel 1934, subito dopo una sua nuova scarcerazione. Si racconta che, uscendo quel giorno di carcere, tra le critiche della folla, disse: «ero venuto in cerca di problemi, e li ho trovati».
Non ci sono molte informazioni su cosa fece Ponzi tornato in Italia, ma sembra che finì in Brasile per via di un lavoro che aveva a che fare con la compagnia aerea Ala Littoria, ma che poi perse il lavoro quando iniziò la Seconda guerra mondiale (il Brasile era a fianco degli Alleati, e quindi contro l’Asse di cui l’Italia fascista faceva parte). Morì in seguito a un ictus nel 1948, dopo anni vissuti in povertà. In un articolo scritto in seguito alla sua morte, il New York Times scrisse che Ponzi aveva di recente raccontato che la più grande truffa – non riuscita – della sua vita aveva avuto a che fare con un inganno ai danni dell’Unione Sovietica, che prevedeva un finto accordo per il trasporto di lingotti d’oro per un valore complessivo di due miliardi di dollari.
La storia di Ponzi – che lui stesso raccontò in parte in una sua autobiografia – è stata ricostruita in un saggio (disponibile gratuitamente online) scritto da Mark Kutson e nel libro Ponzi’s Scheme: The True Story of a Financial Legend, scritto dal giornalista statunitense Mitchell S. Zuckoff.
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Come detto, Ponzi di per sé non inventò niente. E già prima di lui negli Stati Uniti si era parlato dell’ascesa e della discesa di un certo William F. Miller, anche noto come “520 Miller”, che a inizio Novecento aveva promesso, ovviamente senza poi mantenere la promessa, sorprendenti guadagni. E che tra l’altro, quando negli anni Venti si iniziò a parlare di Ponzi, disse di non riuscire a capacitarsi di come Ponzi avesse potuto fare così tanti soldi in così poco tempo.
Dopo Ponzi, la lista di persone o associazioni che consapevolmente oppure no riprovarono a mettere in piedi qualcosa di simile al suo schema è lunga e varia. Per certi versi, allo schema Ponzi è stato associato il finanziere svedese Ivar Kreuger, che alla fine degli anni Venti divenne anche noto come “il re dei fiammiferi”. In anni più recenti lo schema Ponzi è stato replicato decine di altre volte, e come raccontò un paio di anni fa il New York Times sembra anche che nel decennio successivo all’arresto di Bernie Madoff nel 2008 e alla scoperta del suo grandissimo schema Ponzi, il numero di emuli suoi e di Ponzi aumentò considerevolmente, con perdite complessive che si stimarono essere di oltre 30 miliardi di dollari.