Stiamo rompendo lo sport?
Tutti vorrebbero più partite, ma calendari sempre più fitti possono mettere a rischio la salute dei giocatori e la qualità di quello che vediamo
Nell’estate del 2018 il capitano del Galles di rugby, Sam Warburton, annunciò il suo ritiro a soli 29 anni per i troppi infortuni subiti in carriera, in particolare al collo e al ginocchio, i quali gli avrebbero impedito di tornare ai massimi livelli. Il ritiro di Warburton fece discutere, perché il rugby perse prima del previsto uno dei suoi migliori giocatori, e chiamò in causa la pressione a cui vengono sottoposti i giocatori professionisti, impegnati con frequenza sempre maggiore e quindi sempre più soggetti a infortuni.
Nel caso di Warburton, il ritiro arrivò dopo la stagione 2017/18, interamente saltata per problemi fisici aggravati molto probabilmente dall’usurante stagione precedente, nella quale il gallese aveva disputato campionato, coppe, Sei Nazioni e per finire il dispendioso tour in Nuova Zelanda con la selezione britannica e irlandese.
La frequenza degli impegni è un tema che viene discusso da tempo anche in altri sport e specialmente nel calcio, la disciplina più globalizzata i cui calendari sono fitti di competizioni nazionali e internazionali tanto da occupare quasi ogni giorno dell’anno. La sospensione per la pandemia nella passata stagione ha reso tutto ancora più caotico, costringendo campionati e tornei a recuperare il più in fretta possibile il tempo perso. I calendari sono diventati ancora più fitti e il riposo concesso ai giocatori è diminuito sensibilmente. La Serie A sta giocando quasi ininterrottamente dallo scorso giugno, dato che tra la passata stagione e quella in corso ci sono stati appena 47 giorni di pausa. Quest’estate, poi, ci saranno Olimpiadi, Europei e Coppa America: per centinaia di giocatori la stagione continuerà ancora per settimane.
“Proteggere i giocatori” è ormai uno slogan per Pep Guardiola, l’allenatore del Manchester City che da quando è in Inghilterra prova spesso a spiegare come e perché, secondo lui, si stia rischiando di rovinare il calcio. «È una programmazione folle che ammazzerà i nostri giocatori. Non possiamo sostenere ritmi del genere per molto tempo, c’è bisogno di riposare per competere al meglio. I giocatori devono riposare». Dello stesso parere è il suo maggior rivale in Premier League, il tedesco Jürgen Klopp, che a Liverpool, se necessario, ricorre alla squadra riserve quando la prima è gravata di impegni. In Italia è stato Paulo Fonseca l’ultimo a dire quello che in tanti allenatori sostengono: «Si sta giocando troppo».
Il campionato inglese è famoso per la sua intensità, in tutti i sensi: sia in campo che nella frequenza delle partite. E proprio in Inghilterra giocano alcuni dei calciatori che FIFPro, il sindacato mondiale dei professionisti, ha seguito per dimostrare come si sia andati oltre i limiti. Tra il 25 maggio 2018 e il 23 giugno 2019, il sudcoreano Heung-Min Son giocò un totale di 78 partite tra club e nazionale. Il 72 per cento le disputò a meno di cinque giorni l’una dall’altra, quindi al di sotto della soglia minima di riposo che gli esperti ritengono necessaria per i calciatori.
Oltre ai cinque giorni tra un impegno e l’altro, FIFPro raccomanda 14 giorni di riposo in inverno, dai 28 ai 42 giorni in estate e un numero limitato di trasferte lunghe. Tra il 25 maggio 2018 e il 23 giugno 2019, Son fece oltre 110.000 chilometri di viaggio soltanto per gli impegni con la sua nazionale: non a caso l’attaccante del Tottenham non ha mai subito così tanti infortuni come in questo periodo.
Un altro esempio è Alisson, portiere brasiliano del Liverpool, che peraltro non sta attraversando un periodo particolarmente positivo. Tra il 2018 e il 2019 giocò 72 partite, il 70 per cento delle quali a meno di cinque giorni di distanza. Con il Brasile viaggiò per circa 80.000 chilometri e nell’arco di un anno ebbe soltanto 23 giorni di riposo, in estate. Nella Serie A italiana, invece, il giocatore segnalato dal sindacato è Franck Kessié del Milan: 58 partite disputate e 60.000 chilometri in viaggio soltanto con la Costa d’Avorio tra il 2018 e il 2019.
Di recente anche in America, dove solitamente i campionati hanno un formato più rigido e controllato, ci sono stati dei malumori. In NFL una squadra (i Chicago Bears) e diversi ex giocatori si sono opposti alla decisione della lega di aggiungere una partita in più alla stagione regolare per recuperare le perdite registrate nella passata stagione, disputata senza pubblico o quasi. In questo caso viene contestato l’impatto che una partita in più potrà avere sulla salute dei giocatori in un campionato già estremamente dispendioso. La carriera media di un giocatore di NFL è di circa tre anni e non a caso l’acronimo del campionato viene storpiato ironicamente in «Not For Long», non per molto.
Nel calcio l’incidenza degli infortuni è stata misurata e interpretata in modi diversi. Secondo l’ultima ricerca condotta dalla UEFA in otto paesi europei, per esempio, nella scorsa stagione, nonostante i calendari più fitti del solito, i problemi muscolari si sono ridotti del 10 per cento. Guardiola aveva invece citato un aumento del 47 per cento di lesioni muscolari in più nelle prime partite della stagione in corso.
FIFPro ha calcolato che nel calcio, in alcuni casi estremi, certi giocatori arrivano a giocare anche 80 partite a stagione, venti in più del limite di sessanta raccomandato. Anche lo stesso limite di 60 partite stagionali viene superato frequentemente dai giocatori di alto livello: quando non succede, spesso è a causa di infortuni e problemi fisici. FIFPro sostiene la necessità di stabilire delle pause valide per tutti (quattro settimane in estate, due in inverno), di introdurre un limite alle partite ravvicinate e di bloccare l’ampliamento dei tornei.
Il sindacato aggiunge però che queste riforme possono essere introdotte solo se sostenute da tutte le parti coinvolte, cosa che per ora non sembra vicina. Dalla prossima stagione la UEFA introdurrà una terza coppa europea per le squadre minori e un nuovo formato della Champions League che dovrebbe aumentare il numero complessivo di incontri: si passerà probabilmente da 125 a 225 partite complessive, circa l’ottanta per cento in più.
Uno dei principali ostacoli a una riduzione degli impegni stagionali, specialmente nel calcio, è la dipendenza dei bilanci di squadre e campionati dai proventi derivanti dai diritti televisivi, strettamente collegati al numero di partite trasmesse. Da questo punto di vista, le difficoltà causate dalla pandemia stanno rendono ancora più indispensabili gli accordi con le televisioni, non solo nel calcio.