Erdoğan è un dittatore?
È l’accusa che gli ha rivolto Mario Draghi: e se non lo è già, ci siamo quasi
di Eugenio Cau
Giovedì sera il governo della Turchia ha convocato l’ambasciatore italiano, Massimo Gaiani, per protestare contro un’affermazione del presidente del Consiglio Mario Draghi, che qualche ora prima aveva definito il presidente turco Recepp Tayyip Erdoğan un «dittatore». Draghi stava commentando il cattivo trattamento riservato alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen durante il suo viaggio in Turchia questa settimana. Dapprima ha detto: «Non condivido assolutamente Erdoğan», e poi ha aggiunto che «con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono» bisogna trovare un equilibrio tra la franchezza del dissenso e la necessità di cooperazione.
Le parole di Draghi sono abbastanza inusuali: anche se in Occidente, e soprattutto in Europa, Erdoğan è spesso definito come un dittatore sui media, i capi di stato e di governo raramente definiscono i dittatori come tali, e di solito si attengono, per convenienza politica e per protocollo diplomatico, a descrizioni più innocue e a critiche più sfumate. Mevlüt Çavuşoğlu, il ministro degli Esteri turco, ha scritto su Twitter che le parole di Draghi sono «un discorso inaccettabile e populista» e ha messo in contrapposizione il presidente del Consiglio «nominato» al «nostro presidente eletto».
Sul fatto che Erdoğan sia o meno un dittatore c’è un certo dibattito tra gli esperti. Alcuni sostengono che la Turchia sia ormai una dittatura completa, mentre altri fanno notare che, pur in un contesto di crescente autoritarismo, il paese mantiene ancora diverse caratteristiche tipiche di una democrazia, alcune soltanto formali ma altre al contrario effettive.
Secondo la classifica di Freedom House, una nota organizzazione che ogni anno pubblica un rapporto in cui attribuisce a ogni paese del mondo un punteggio da zero a cento legato al rispetto delle libertà politiche e civili, la Turchia è un paese «non libero», con un punteggio di 32 punti, appena sotto la soglia dei paesi «parzialmente liberi», che hanno punteggi sopra i 35. La Turchia si trova, per così dire, in una situazione al limite: al di sotto dei paesi «parzialmente liberi», ma comunque in una condizione migliore delle dittature più repressive, come la Cina, che hanno generalmente meno di 10 punti.
Il problema per la Turchia è che sotto Erdoğan le cose stanno peggiorando: nel 2017 Freedom House le attribuiva 38 punti.
Breve storia della democrazia in Turchia sotto Erdoğan
Al momento della sua elezione a primo ministro della Turchia nel 2003, Erdoğan era considerato unanimemente, in patria e all’estero, come un politico democratico e riformatore, un bravo tecnocrate e un leader islamico moderato, capace di conciliare il secolarismo delle grandi città (e soprattutto dell’esercito) e la religiosità delle campagne. In quel periodo, la Turchia usciva da lunghi decenni di governi instabili e di colpi di stato militari e tutti speravano che Erdoğan, sindaco di Istanbul che aveva anche trascorso un periodo in carcere per essersi opposto al regime militare, sarebbe riuscito a trasformare il paese in una democrazia stabile e pluralista, magari perfino in un membro dell’Unione Europea.
Come scrisse il New Yorker qualche anno fa, nel 2003 ogni singolo leader dell’Occidente sperava che Erdoğan avesse successo.
Nei suoi primi anni di governo, Erdoğan mantenne molte promesse: ridusse il potere dei militari, liberalizzò l’economia turca, aumentò le libertà religiose (soprattutto a favore dei musulmani; a quel tempo, tuttavia, si riteneva che il problema principale fosse il rigido secolarismo imposto dall’esercito).
I primi segnali preoccupanti arrivarono nel 2010, quando il governo approvò una riforma costituzionale che concentrava sull’esecutivo (dunque su Erdoğan stesso) moltissimi poteri. Erdoğan cominciò a comportarsi in maniera sempre più autocratica, e in quegli anni eliminò dal governo e dal suo partito (Giustizia e sviluppo, AKP) tutti i membri più moderati e liberali.
Altri due momenti possono essere considerati come punti di svolta: le proteste al parco di Gezi a Istanbul, nel 2013, quando Erdoğan fece reprimere con la violenza le proteste di migliaia di giovani e attivisti contro il governo (ci furono 11 morti e oltre 8.000 feriti), e il fallito colpo di stato militare del 2016. Erdoğan scampò al colpo di stato, che fu rudimentale e male organizzato, ma dopo il fallimento dei militari ne approfittò per imporre lo stato di emergenza per due anni e scatenare una repressione dei suoi nemici interni che a oggi non si è ancora conclusa: decine di migliaia di persone sono state accusate di vari crimini e licenziate da posti di rilievo nella pubblica amministrazione, nell’esercito e nelle istituzioni.
Nel 2017 Erdoğan, che nel frattempo era diventato presidente per evitare il limite dei mandati da primo ministro, fece approvare tramite referendum una nuova riforma costituzionale molto sbilanciata, che attribuiva alla presidenza enormi poteri, eliminava la carica di primo ministro e consentiva al governo di influire anche sul potere giudiziario. Secondo alcuni analisti, con l’approvazione della riforma la Turchia si trasformò in una dittatura a pieno titolo.
L’autoritarismo crescente
Le ragioni per considerare la Turchia come una dittatura sono numerose, e si vanno accumulando con il tempo: comunque la si pensi, la traiettoria della democrazia turca è in continuo e netto peggioramento da oltre un decennio. Grazie all’ultima riforma costituzionale, Erdoğan ha un enorme potere personale, che si è esteso a quasi tutti i settori dello stato: ha un ampio controllo sull’economia (con risultati spesso disastrosi), sul sistema giudiziario, sull’esercito e sul processo elettorale (la nomina della commissione elettorale spetta al governo).
Negli anni l’apparato repressivo turco si è andato ampliando, e soprattutto dopo il colpo di stato fallito del 2016 è diventato prevalente: molti avversari politici sono stati incarcerati con accuse pretestuose: tra questi Selahattin Demirtaş, il leader del Partito democratico del popolo (HDP), un partito filocurdo che ha un grande seguito nel paese; il settore giudiziario è stato messo sotto controllo con il licenziamento di migliaia di giudici considerati ostili e numerose università e centri di ricerca sono stati chiusi o epurati dagli studiosi più critici.
La Turchia è da anni ai primi posti nel mondo per numero di giornalisti in stato di arresto, ma le cose sono peggiorate ulteriormente dopo il 2016: nei mesi successivi al colpo di stato fallito, grazie ai poteri garantiti dallo stato di emergenza, il governo fece chiudere oltre 150 tra giornali e siti di informazione. Oggi l’informazione televisiva è praticamente tutta filogovernativa, e la proprietà dei canali tv principali è in mano a imprenditori vicini al governo. Ci sono ancora giornali e siti d’opposizione molto popolari, che tuttavia subiscono continue pressioni e intimidazioni.
La popolazione gode di un discreto livello di libertà personale, soprattutto nelle grandi città, ma diverse libertà (tra cui la libertà religiosa, di associazione e d’impresa) sono state fortemente danneggiate. Internet non è generalmente censurato, anche se ci sono stati casi di cittadini processati per aver espresso dissenso sui social network. L’anno scorso, inoltre, il governo ha fatto approvare una legge che riduce molto la libertà di manovra delle aziende digitali straniere come Facebook e Google.
L’islamizzazione del paese preoccupa inoltre molti osservatori: Erdoğan, da esempio di leader islamico moderato, nel corso degli anni ha radicalizzato sempre di più le sue posizioni ed è passato dalla tolleranza al proselitismo. Le scuole religiose si sono moltiplicate nel corso degli anni e sono state sostenute dallo stato, che ha fatto ogni sforzo per promuovere una visione islamica-conservatrice: l’ente che regola i media, RTÜK, considera i baci in televisione come osceni e contrari ai valori morali, e le scene di consumo di alcol sono oscurate. Il governo è ostile ai movimenti femministi e di recente si è ritirato dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.
La zona grigia
Chi sostiene che il regime di Erdoğan sia sì autoritario ma non sia ancora una dittatura, o almeno non del tutto, di solito usa come esempio le elezioni. Erdoğan, nonostante il suo potere quasi smisurato, ha ricevuto parecchie delusioni elettorali, anche di recente, e questo significa che il processo democratico, almeno in parte, funziona ancora.
Erdoğan tuttavia è quasi sempre riuscito a raggiungere l’obiettivo che si era prefissato: per esempio, alle elezioni generali del 2015 non riuscì a ottenere la maggioranza parlamentare necessaria per fare approvare la riforma costituzionale, e dunque sciolse il parlamento e indisse pochi mesi dopo nuove elezioni, che vinse dopo una campagna elettorale molto energica.
La sua ultima sconfitta risale al 2019, quando alle elezioni comunali l’opposizione riuscì a fare eleggere i sindaci di Istanbul e di Ankara, le due principali città del paese. La sconfitta a Istanbul fu particolarmente grave, sia perché nella città si era sempre basato il potere di Erdoğan, sia perché fu doppia: siccome il candidato dell’opposizione, Ekrem İmamoğlu, aveva vinto per poche migliaia di voti, l’AKP riuscì a ottenere una ripetizione del voto, e a quel punto İmamoğlu vinse con uno scarto di oltre 800 mila voti.
In generale, l’opposizione in Turchia, per quanto soggetta a continue intimidazioni da parte del governo, è piuttosto vivace. Nell’ultimo anno sono nati due nuovi partiti, entrambi fondati da due ex alleati di Erdoğan: il più promettente, il Partito della democrazia e del progresso (DEVA), è stato fondato da Ali Babacan, ex vice primo ministro, ex ministro degli Esteri e soprattutto ex ministro dell’Economia, che condusse la Turchia nel suo periodo di maggior espansione economica. L’altro partito, il Partito del futuro (GP), è stato fondato da Ahmet Davutoğlu, primo ministro fino al 2016 e un tempo stretto alleato di Erdoğan. Entrambi i partiti tuttavia hanno denunciato di essere volutamente ignorati dai media, e che i loro membri avrebbero subìto intimidazioni gravi, anche fisiche: a gennaio il vicepresidente di GP, Selcuk Ozdag, è stato picchiato per strada da un gruppo di persone, che gli hanno rotto un braccio e lasciato una brutta ferita alla testa.
Secondo Soner Cagaptay, un noto esperto di Turchia che lavora presso il centro studi americano Washington Institute, nonostante i tentativi di Erdoğan di eliminare del tutto il dissenso la società turca mostra ancora diversi esempi di resistenza dei valori democratici, specie tra le fasce più giovani della popolazione. La cattiva gestione della pandemia da coronavirus e dell’economia, inoltre, ha indebolito Erdoğan. «Ci vuole molto tempo per costruire una democrazia. La Turchia sotto Erdoğan mostra che ce ne vuole molto anche per distruggerne una», ha scritto Cagaptay l’anno scorso.