L’insicurezza degli oggetti
«Ce ne siamo accorti di meno, perché evidentemente con gli affetti umani è pesato di più, ma è stato lo stesso con le cose: i libri, i fiori, i beni essenziali erano come congiunti conviventi e affetti stabili, quelli che eravamo autorizzati a vedere e portare con noi. Il resto no»
Che se in Italia ad una signora non le riporti la tiella veramente le dai un grande dolore, cioè se vuoi procurare dolore ad una signora italiana, allora non le riportare la tiella che in Italia, non si sa perché, c’è questo attaccamento alle tielle che sfiora l’inverosimile, perché quella che t’ha portato la tiella prova vergogna a chiederla indietro e per settimane soffre in silenzio, e la notte sogna di rientrare in possesso della tiella, di sorridere, e invece poi si sveglia e la realtà è diversa, la tiella è sparita, la vita è finita, una cosa terribile, che logora nervi, rapporti umani, ed è un peccato, perché una tiella costa cinque euro, ma si vede che non è questo il punto, che forse la tiella ha in Italia un particolare significato simbolico che ci sfugge.
(Mattia Torre, In mezzo al mare, Mondadori)
Ci siamo preoccupati di poche cose di cui ci saremmo dovuti preoccupare durante questa pandemia, ma secondo me la cosa di cui proprio ci siamo preoccupati di meno è del nostro rapporto privato o simbolico con le cose, proprio quando qualcuno pubblicamente ci diceva che tipo di rapporto dovessimo avere: essenziale, di prima necessità, di comprovata esigenza, rosso, arancione, acquistabile o meno.
A un certo punto, ci siamo ritrovati in questa situazione che era nuova per quasi tutti noi: alcune merci si potevano prendere; altre no. Ci hanno detto che le librerie e i fiorai potevano rimanere aperti, per esempio, e i negozi di abbigliamento per adulti, di dischi e di casalinghi no. Qualcuno ha imposto per noi un limite quantitativo massimo alle cose che potevamo comprarci e uno qualitativo, come se i soldi spesi in certe cose che ci dicevano loro, mettiamo i libri, fossero soldi meglio spesi, o più ragionevolmente spesi, o più legittimamente spesi di quelli per un vaso o per un disco.
C’erano complessi meccanismi che chi ha dovuto prendere delle decisioni doveva incrociare per limitare la circolazione dei consumatori e con loro quella del virus: calcoli relativi allo stazionamento nei negozi, calcoli sulla deperibilità delle merci, calcoli sulla concorrenza (che spiegavano perché a un certo punto nella grande distribuzione non si potevano vendere alcuni prodotti, dal momento che era stata imposta la chiusura dei commercianti della vendita al dettaglio degli stessi prodotti) e forse anche calcoli sulla quota di rinuncia che potevamo essere disposti a tollerare (tant’è che i tabaccai sono sempre stati aperti). Tutto questo avveniva a colpi di contraddizioni gigantesche, la più evidente delle quali è che intanto qualsiasi cosa era sempre acquistabile online, che è un paradosso soprattutto perché avveniva mentre quel qualcuno, da fuori, ci diceva che esistevano delle “cose essenziali”, che erano quelle permesse e che valevano per tutti, entrando in una sfera che però fino a quel momento era stata una cosa del tutto privata.
Una volta, dopo la sua lezione di violoncello, ho riaccompagnato a casa mia figlia e sono andata a fare una visita medica, ero di corsa e ho pensato che avrei riportato lo strumento a casa dopo essere stata dal dottore. Eravamo già zona arancione a quel punto, e mi aggiravo per Milano come se avessi un etto di droga nel bagagliaio: e se mi fermano? che scusa racconto? sarà legale avere un violoncello nel baule? dovrò mostrare di saperlo suonare, come in aeroporto ai controlli quando ti chiedono di bere un sorso di sciroppo se vuoi tenerlo nel bagaglio a mano? Una situazione simile l’avevo vissuta un’altra volta che, chiamando un taxi per me e un amico, alla domanda della centrale operativa se fossimo congiunti, ho avuto l’istinto di riattaccare per l’imbarazzo di non sapere se dovessimo dire una bugia o se ci fosse effettivamente lecito condividere un taxi, visto che eravamo appena stati a cena da un’amica insieme.
Ce ne siamo accorti di meno, perché evidentemente con gli affetti umani è pesato di più, ma è stato lo stesso con le cose: i libri, i fiori, i beni essenziali erano come congiunti conviventi e affetti stabili, quelli che eravamo autorizzati a vedere e portare con noi. Il resto no.
Nessuno si è scandalizzato del fatto che ragioni di carattere economico e politico di ordine esterno ci venissero vendute come caratteristiche interne alle cose, che le rendevano “beni essenziali”, come quando hanno provato a dirci che potevamo vedere solo le persone con cui avevamo “relazioni stabili e durature”, portando sul piano del giudizio della qualità di un affetto, assolutamente privato, una questione pubblica sanitaria.
“Vabbe’, ma eravamo in pandemia!”, potrebbe obiettare qualcuno: “il problema era il pane (metaforico, perché il pane reale, come si è visto abbondantemente, non è mai mancato) e qui ci parli di brioche!”. Sì, risponderei. Da sempre, nelle situazioni estreme e di emergenza, è l’inessenziale a fare la differenza, l’inessenziale invisibile agli occhi degli altri, che invece è essenziale nel privato, in un’area simbolica, con la sua funzione di secondo o terzo grado che valica quella d’uso. Dall’uomo preistorico nella scelta delle cose da riporre con i suoi cari defunti, al culto dell’effimero, a cui, contrariamente alla sua etimologia (“che dura un solo giorno”) le società affidano la propria memoria per i secoli a venire mentre si estinguono, fino a oggi – con un brusco salto nel presente, giusto per dimostrare che veniamo proprio da quegli antenati là – per chi si trova ad affrontare situazioni straordinarie.
Chi era a soccorrere i terremotati di Amatrice, racconta di essere stato mandato nelle case delle persone sfollate col preciso mandato di recuperare delle cose, spesso apparentemente superflue o inutilizzabili nei campi, e per chi doveva andare a recuperarle certamente rimandabili nella lista delle preoccupazioni più urgenti per gli ormai tristemente noti “beni di prima necessità”. Tra i servizi offerti dalle pubbliche assistenze, proprio in quei contesti, c’erano pure i parrucchieri: perché la cura del proprio corpo, della propria immagine, anche l’occasione di distrarsi, era lamentata da molti in quella condizione come essenziale. Invece a novembre, quando i parrucchieri in pandemia sono potuti rimanere aperti insieme alle librerie in zona rossa, la notizia ha scandalizzato i migliori di noi, ma non tanto con la motivazione eventuale di carattere sanitario per il contatto prolungato e ravvicinato tra cliente e parrucchiere, no, più per il fatto di vederli lì, i parrucchieri, nello stesso insieme di “attività commerciali quali le librerie”.
Aveva scritto un’amica libraia – ipse dixit! – in zona rossa: «chiaro che sono contenta di lavorare, ma questa concezione del libro come salvezza, come farmacia dell’anima e non come intrattenimento, fa danni». Io preciserei: che il libro può essere pure una cura per l’anima o può farci compagnia per qualche sera, può essere un bell’oggetto da esibire oppure no, può cambiare la vita oppure può lasciarci precisamente quelli che eravamo prima, ma quale di queste caratteristiche lo rende “bene essenziale”, ammesso che esista un criterio per definirlo tale? Non sarà mica che il libro sia un bene non di prima necessità, esattamente come i fiori, essenziale solo per ciascuno di noi, secondo i propri bisogni, gusti, preferenze?
E, badate, ora sembra che io me la prenda coi libri. Ovvio che no: se dovessi scegliere tra un libro e una tiella non avrei alcun dubbio, ma combatterei per difendere il tuo diritto di comprarti tutte le tielle che vuoi, quanto io ho diritto di comprare un catalogo di una mostra di design anni Cinquanta che interessa solo a me. (Già, perché poi, tra quelli che pensano che i libri siano più essenziali dei parrucchieri, c’è anche un’idea abbastanza precisa di quali libri siano più essenziali di altri libri).
Nel frattempo, se uno avesse visto solo quello che succedeva sui social, avrebbe avuto il sospetto che questa cosa dell’essenzialità delle cose era già un’etichetta non solo vuota, ma proprio sbagliata: gli intellettuali dichiaravano senza grandi disturbi fin dal primo lockdown che non riuscivano a leggere, pur potendo avere accesso ai libri; mentre, a giudicare dalle foto che circolavano online, la gente riusciva a infornare qualunque cosa, come una specie di rito collettivo: il forno come altare su cui immolare tutte le disperazioni, anche se non ci si poteva rifornire degli strumenti adatti dagli scaffali del supermercato perché non “di prima necessità”. Ma capisco che un social non sia lo specchio del reale, allora sono andata a vedere il paniere dell’Istat 2021, le cose che siamo stati, insomma, pubblicamente, collettivamente nel 2020. Ora, a distanza di un anno da quando hanno iniziato questa cosa nuova di dirci quali cose erano essenziali e quali no, quali potevamo acquistare e quali no, quali erano di prima e quali di seconda o di terza necessità, quali potevamo tenere nel bagagliaio senza problemi e per quali ci veniva il dubbio di dover invece fornire spiegazioni pubbliche, una si sarebbe potuta aspettare di scoprire che erano stati venduti tantissimi libri (+2,4 %, è vero, ma nel 2019, senza pandemia, erano stati 3,7% in più che nel 2018), confermando l’immagine di cui ci siamo tanto compiaciuti in questi mesi, cioè quella che se non ci avevano tolto i libri era perché avevano capito che ne avevamo proprio bisogno, noi sapientoni, noi, i migliori.
E invece no: non ci sono libri nel paniere, ma la macchina impastatrice sì.