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  • Mercoledì 31 marzo 2021

La storia dei presunti dati falsificati per evitare la zona rossa in Sicilia

Che ha portato alle dimissioni dell'assessore alla Salute, Ruggero Razza, e che riguarda l'alterazione di dati sull'epidemia

I carabinieri all'esterno dell'assessorato Regionale alla Salute della Sicilia a Palermo
(ANSA)
I carabinieri all'esterno dell'assessorato Regionale alla Salute della Sicilia a Palermo (ANSA)

Lo scorso 4 novembre, quando il governo approvò i criteri per le zone rosse, arancioni e gialle, la Sicilia venne inserita in zona arancione, ma già allora i dati analizzati dall’Istituto superiore di sanità (ISS) erano inattendibili perché molto probabilmente falsificati. Per la falsificazione dei dati, martedì sono stati messi agli arresti domiciliari una dirigente della Regione e due suoi collaboratori: secondo le accuse, i tre avrebbero voluto evitare che la Sicilia finisse in area rossa, oltre a impedire la chiusura dei negozi e dei ristoranti, e avrebbero voluto mostrare invece una Regione efficiente nella gestione dell’emergenza coronavirus.

Negli ultimi mesi i tre arrestati avrebbero manipolato i dati dei nuovi positivi, dei decessi, dei ricoverati in terapia intensiva e dei tamponi. A causa della vicenda martedì si è dimesso anche l’assessore alla Salute della regione Sicilia, Ruggero Razza, indagato con l’accusa di essere stato a conoscenza della falsificazione dei dati.

Gli indagati sono Maria Grazia Di Liberti, dirigente della Regione dal 1992, agli arresti domiciliari con l’accusa di falso ideologico e materiale; l’assessore Razza, indagato per lo stesso reato; Salvatore Cusimano, nipote di Di Liberti, funzionario regionale che gestiva la raccolta dei dati in tutte le province; ed Emilio Madonia, dipendente della Price Waterhouse Coopers Public Sector che gestisce i flussi informatici dell’assessorato (anche Cusimano e Madonia sono agli arresti domiciliari). Il presidente della Regione, Nello Musumeci, è ritenuto estraneo alla vicenda.

L’inchiesta era iniziata da una verifica della procura di Trapani sugli esiti dei tamponi analizzati in un laboratorio di Alcamo. I magistrati avevano iniziato a intercettare alcuni funzionari perché i test erano risultati stranamente tutti negativi; dalle conversazioni telefoniche si era scoperto che la gestione dei dati della Sicilia era manipolata.

I tamponi al porto di Palermo (Francesco Militello Mirto/LaPresse)

Dalle ricostruzioni dei magistrati, citate dai giornali italiani, è emerso che una delle date più rilevanti dell’intera vicenda è il 4 novembre, quando fu introdotta la classificazione delle misure restrittive regionali a seconda dei colori. Nei mesi precedenti la Sicilia semplicemente non comunicava una serie di dati all’Istituto superiore di sanità, che ogni settimana ha il compito di analizzarli per consigliare al ministero eventuali chiusure. Da quel giorno, proprio per evitare restrizioni la dirigente Di Liberti e i suoi collaboratori avrebbero iniziato ad alterare sistematicamente i numeri inviati all’ISS.

Il 4 novembre, la Sicilia comunicò 19 decessi invece di 26, escludendo dal conto sette morti nel comune di Biancavilla, in provincia di Catania. Secondo le prime ricostruzioni, Di Liberti avrebbe chiamato l’assessore Razza e gli avrebbe chiesto se avesse dovuto includere nel conto anche i sette oppure se li avesse dovuti “spalmare”, cioè riportare nei giorni seguenti. Razza avrebbe risposto: «E spalmiamoli un poco». Secondo le accuse, nei mesi seguenti non sarebbero stati spalmati solo i dati dei decessi, ma anche quelli dei contagi e dei ricoverati in terapia intensiva, tutti parametri essenziali per decidere le misure restrittive.

Al contrario, i dati dei tamponi sarebbero stati gonfiati per far calare il tasso di positività. L’8 novembre, per esempio, la Sicilia comunicò 6.894 tamponi molecolari giornalieri invece di cinquemila. Nel conto finirono anche i tamponi antigenici rapidi, che però furono inclusi nei conti dell’Istituto superiore di sanità solo da metà gennaio.

La contraffazione non sarebbe stata organizzata: sarebbero stati spostati i contagi a caso, giorno per giorno e da una provincia all’altra, senza preoccuparsi delle conseguenze.

A dicembre i casi non comunicati e quindi accumulati in provincia di Catania sarebbero stati oltre duemila, che sarebbero stati comunicati “spalmati” nelle settimane successive. Lo stesso sarebbe successo anche per altre province, con uno schema molto caotico e diventato difficile da gestire. Nell’ordinanza, i magistrati hanno scritto che spesso i dati venivano recuperati nei momenti di minor gravità della situazione epidemica e che questa diminuzione significativa rispetto al dato reale e alle province di riferimento potrebbe avere aggravato la diffusione del virus.

L’assessore alla Salute della Regione Sicilia Ruggero Razza (Valeria Ferraro/SOPA Images)

La falsificazione sarebbe continuata fino al 19 marzo, quando in provincia di Palermo era stata rilevata un’incidenza settimanale di 400 positivi ogni 100mila abitanti e 255 casi ogni 100mila abitanti solo in città.

Quel giorno l’assessore Razza aveva chiamato il presidente della Regione, Nello Musumeci, per comunicargli la grave situazione di Palermo, e insieme avevano concordato che sarebbe stata necessaria la zona rossa in tutta la provincia. Il 20 marzo Musumeci aveva chiamato Razza per avere novità e l’assessore gli aveva risposto che l’incidenza non era più 400 casi settimanali ogni 100mila abitanti, ma solo 196. Nelle settimane precedenti la Regione aveva introdotto zone rosse in 16 comuni, ma non a Palermo.

Martedì 30 marzo il dipartimento regionale per le Attività Sanitarie e Osservatorio Epidemiologico della Sicilia non ha trasmesso nessun dato all’Istituto superiore della sanità.