È morto l’uomo che ideò l’intrusione nel Watergate
Si chiamava G. Gordon Liddy e aveva fatto parte del comitato elettorale per la rielezione di Richard Nixon: aveva 90 anni
Il 30 marzo è morto a 90 anni G. Gordon Liddy, l’uomo che nel 1972 organizzò l’intrusione nel complesso di uffici del Watergate, a Washington D.C., Stati Uniti, per spiare il comitato elettorale del Partito Democratico. La scoperta dell’intrusione e lo scandalo che ne seguì, che prese il nome dal complesso, portarono alle dimissioni dell’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon.
Liddy nacque a New York il 30 novembre del 1930 e dopo essersi laureato in giurisprudenza entrò nell’FBI, l’agenzia investigativa della polizia federale statunitense, in cui lavorò fino al 1962. In seguitò lavorò per quattro anni come avvocato e nel 1968 si candidò alla Camera, senza risultare eletto. Venne però chiamato dal presidente Nixon a lavorare come suo collaboratore, e a partire dal 1970 entrò a far parte del comitato elettorale per la sua rielezione, chiamato ufficialmente Committee for the Re-Election of the President (CRP), e diventato famoso con il finto acronimo CREEP, che in inglese vuol dire “deformato” o “fuori posto” o “strisciante”.
Liddy era il capo delle operazioni, insieme all’ex agente della CIA Howard Hunt. Nel 1971 fu incaricato di scoprire la fonte della pubblicazione sul New York Times dei “Pentagon Papers“, una serie di rapporti segreti del Pentagono sul coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1967. Si scoprì successivamente che nel 1971 lui e Hunt entrarono di nascosto nello studio di Daniel Ellsberg, uno dei compilatori del rapporto, che aveva passato le informazioni al New York Times, alla ricerca di informazioni compromettenti nei suoi confronti.
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Nel 1972 Liddy ideò una serie di operazioni segrete per cercare di compromettere la campagna elettorale del Partito Democratico, che comprendevano anche rapimenti e corruzioni di funzionari del partito. Le proposte, che avevano il nome in codice “Gemstone”, vennero in parte accantonate dall’ex procuratore generale degli Stati Uniti John N. Mitchell, che nel frattempo era diventato il capo della campagna elettorale di Nixon, ma mai definitivamente e completamente. Liddy si ritenne autorizzato a un certo punto – le responsabilità sono sempre rimbalzate tra diversi dirigenti della campagna elettorale e della Casa Bianca, Nixon compreso – a procedere con l’effrazione al Watergate.
L’operazione consisteva nell’entrare di nascosto nel grosso complesso, cinque grandi costruzioni di lussuosi appartamenti e uffici sulle rive del fiume Potomac, a Washington, il cui sesto piano era interamente occupato dalla sede del comitato elettorale del Partito Democratico. L’operazione prevedeva di nascondere microspie e di cercare e fotografare documenti riservati dei Democratici, che potessero essere utili a contrastarli in campagna elettorale.
Avvennero in tutto due intrusioni: la prima il 28 maggio del 1972, quando sette uomini, tra cui il capo della sicurezza del CRP James McCord, entrarono negli uffici del Watergate, nascosero alcune apparecchiature per le intercettazioni, fotografarono documenti riservati, e se ne andarono senza essere notati; la seconda nella notte del 17 giugno, perché la prima spedizione aveva dato pochi risultati.
McCord e altri quattro uomini tornarono al sesto piano del Watergate, con Liddy e Hunt che coordinavano le operazioni da una stanza nell’hotel adiacente. Una guardia giurata, Frank Wills, notò che in diverse porte degli uffici c’era del nastro adesivo sulle serrature, che impediva a queste di chiudersi. Wills si limitò a togliere il nastro adesivo, ma un’ora più tardi notò che il nastro alle porte era stato rimesso. Decise allora di chiamare la polizia. E al sesto piano dell’edificio la polizia trovò e arrestò McCord e quattro uomini: Virgilio González, Bernard Barker, Eugenio Martínez e Frank Sturgis.
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Il comitato elettorale di Nixon negò da subito di avere avuto alcun ruolo nell’intrusione, ma nei mesi successivi un’inchiesta del Washington Post rivelò che Mitchell controllava un fondo segreto collegato al Partito Repubblicano, che serviva a operazioni di controllo e di spionaggio contro i Democratici. L’11 novembre 1972 Nixon fu comunque rieletto presidente degli Stati Uniti con oltre il 60 per cento dei voti, ma nel gennaio del 1973, mentre continuavano le indagini a partire da quell’intrusione al Watergate, G. Gordon Liddy venne accusato di cospirazione, furto e intercettazioni illegali.
Il Senato aprì un’inchiesta sul coinvolgimento di Nixon – che nell’agosto del 1974 diede le dimissioni – e ascoltò le testimonianze di tutte le persone che avevano partecipato all’intrusione, tra cui Liddy. Quest’ultimo però, a differenza degli altri imputati, si rifiutò di testimoniare, e venne condannato a 20 anni di carcere, la pena più lunga di tutti. Ne scontò solo quattro, dato che nel 1977 il presidente Jimmy Carter gli concesse la libertà condizionale.
Dopo la scarcerazione Liddy iniziò a scrivere libri, e nel 1980 pubblicò un’autobiografia, Will, in cui raccontò la sua versione dei fatti sullo scandalo Watergate. Negli anni successivi partecipò a diverse conferenze e grazie alla sua popolarità ottenne anche alcuni ruoli da attore in film e serie tv, tra cui Miami Vice. Nel 1992 ideò una trasmissione radiofonica chiamata The G. Gordon Liddy Show, che ottenne molta popolarità in tutti gli Stati Uniti tra il pubblico più conservatore. La trasmissione andò in onda fino al 2012.