La storia del processo a Gigliola Pierobon
Fu accompagnato da una grande mobilitazione femminista, e nonostante la condanna per aborto clandestino contribuì all'approvazione della legge 194
di Valeriano Musiu
All’inizio del giugno 1973, al Tribunale di Padova si tenne un processo accompagnato da una mobilitazione di massa tale da diventare un punto di svolta nella battaglia per la legalizzazione dell’aborto in Italia, che si sarebbe conclusa nel 1978 con l’approvazione della legge 194. L’imputata era Gigliola Pierobon, una donna di 23 anni figlia di contadini e originaria di San Martino di Lupari, un paese in provincia di Padova. Pierobon era accusata di aver abortito clandestinamente nel 1967, quando era 17enne.
Dopo un processo durato tre giorni, i giudici stavano per comunicare la sentenza. A difendere l’imputata c’erano Vincenzo Todesco e l’avvocata Bianca Guidetti Serra, nota partigiana e militante femminista.
Nell’Italia degli anni Settanta abortire era illegale perché era ancora in vigore il codice Rocco, il codice penale fascista redatto nel 1930 che considerava l’aborto come un reato «contro l’integrità e la sanità della stirpe». Le donne che decidevano di interrompere una gravidanza rischiavano dai due ai cinque anni di carcere, con riduzione della pena solo «se il fatto è commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto».
Proprio a causa di una legge così vecchia e inadatta a una società in evoluzione, la maggior parte delle donne era costretta a ricorrere all’aborto clandestino, una pratica molto costosa e che poteva portare, allora come oggi, a conseguenze gravi come infezioni, emorragie, sterilità e morte. Le cliniche private, abusive o con sedi all’estero, erano un’opzione solo per le donne che potevano permettersele.
All’epoca del suo aborto, però, Gigliola Pierobon non sapeva di essere nella stessa condizione di molte altre donne. Quando rimase incinta di un uomo adulto che la abbandonò subito dopo, riuscì ad interrompere la gravidanza grazie all’aiuto di un vecchio amico, Roberto Cogo, che le procurò i contatti e le 40.000 lire necessarie. Si ritrovò su un tavolo da cucina e svenne per il dolore quando la mammana, come venivano chiamate le donne che all’epoca eseguivano gli aborti clandestinamente, le inserì nella vagina una sonda di ferro senza usare né sedativi né antibiotici. L’intervento le procurò un’infezione che dovette curare rivolgendosi al suo medico di famiglia.
Nei mesi successivi all’operazione, Pierobon si sposò con Cogo, con cui ebbe una figlia. Tempo dopo si separò dal marito e cominciò a lavorare in fabbrica per mantenersi: fu in quel momento che entrò in contatto con il gruppo Lotta Femminista e maturò una presa di coscienza politica. Come scrisse nella sua autobiografia del 1974: «Al primo contatto con le ragazze del gruppo mi sono resa conto che la mia storia non era proprio così particolare, ma era la storia di tutte».
Nel 1972, a più di quattro anni dall’aborto, Pierobon ricevette dal tribunale di Padova una notifica di rinvio a giudizio. Incoraggiata dalla sua militanza nel gruppo femminista, decise allora di trasformare il suo processo in una mobilitazione collettiva per la legalizzazione dell’aborto.
Le indagini sul suo conto erano cominciate un anno dopo la sua interruzione di gravidanza: nel 1968 il sostituto procuratore della Repubblica di Bassano del Grappa l’aveva convocata per testimoniare su un’altra vicenda e nel corso dell’interrogatorio Pierobon, pur non essendo accusata in prima persona, finì per ammettere di aver abortito lei stessa. Alla confessione era seguita una serie di interrogatori che erano sfociati in una perizia ginecologica, descritta da Pierobon come una violenza umiliante, «ridicola e antiscientifica», anche perché eseguita a distanza di anni dall’aborto e dopo una gravidanza.
Pierobon e le compagne del gruppo femminista cominciarono a preparare la difesa con Todesco e Guidetti Serra. Lo scopo era trasformare il processo in un fatto pubblico prendendo ispirazione dal processo di Bobigny, che si era tenuto in Francia pochi mesi prima contro Marie–Claire Chevalier, una ragazza minorenne che aveva abortito clandestinamente: anche grazie alla difesa dell’avvocata femminista Gisèle Halimi, il processo era riuscito a creare un dibattito pubblico che aveva portato alla legge Veil sull’interruzione di gravidanza.
Quello contro Gigliola Pierobon fu un processo particolare per almeno due motivi: primo, l’imputata era rea confessa in un paese in cui i processi per aborto non erano frequenti e terminavano spesso con l’assoluzione per insufficienza di prove; secondo, la linea difensiva risultò particolarmente innovativa perché puntava a contestualizzare il singolo caso per condannare una legge sbagliata. Al fine di evidenziare le condizioni sociali che costringevano le donne ad abortire, Guidetti Serra e Todesco presentarono ai giudici una istanza testimoniale che conteneva al suo interno statistiche, studi socioeconomici e un elenco di più di 30 testimoni, tra cui intellettuali, politici, medici, psicologi e psichiatri (compreso Franco Basaglia), giornaliste e docenti universitarie.
Tuttavia, nonostante gli sforzi, il processo non andò come auspicato dalla difesa di Pierobon. I giudici si rifiutarono di accogliere gli studi scientifici e le testimonianze raccolti da Guidetti Serra e Todesco: il tentativo di ricondurre il caso personale di Pierobon a una più ampia dimensione politica non ebbe successo.
Eppure, ci fu un elemento che sfuggì al controllo dei giudici e che permise al processo Pierobon di diventare un caso pubblico seguito con interesse dalla stampa. Nei giorni delle udienze, centinaia di femministe scesero in piazza a manifestare non solo a Padova, ma anche in altre città italiane, in una grande mobilitazione femminista. La protesta collettiva entrò perfino nell’aula del tribunale quando alcune donne si autodenunciarono davanti al pubblico ministero gridando: «Tutte noi abbiamo abortito», mentre fuori dall’aula i cortei femministi continuavano a sfilare scontrandosi con gruppi di estrema destra.
In questo clima di tensione, il 7 giugno 1973 arrivò una sentenza paradossale: Gigliola Pierobon fu dichiarata colpevole e condannata a un anno di carcere, ma secondo la visione prevalente all’epoca adottata anche dai giudici, e definita da più parti “paternalistica”, ottenne il perdono giudiziale perché, negli anni successivi all’aborto, si era sposata e aveva avuto una figlia. Commentando la sentenza con la stampa, Pierobon dichiarò: «Io il perdono non l’avevo chiesto: non mi sento colpevole. Quindi non sono pentita. A stabilire il mio pentimento è stata la legge».
La natura contraddittoria del reato d’aborto venne commentata anche dalle giornaliste e dai giornalisti dell’epoca: «Se condannano, lo fanno in base a un oggetto giuridico (la “difesa della stirpe”) che non esiste più; se assolvono, cancellano il reato già tanto svalutato. È una contraddizione che rispecchia la contraddittoria legislazione italiana, la società italiana oscillante e lacerata fra tradizionalismo e innovazione», scrisse la giornalista Lietta Tornabuoni sulla Stampa.
Anche se non ebbe la stessa risonanza del caso francese, il processo Pierobon si rivelò fondamentale per almeno due motivi: non solo intaccò l’omertà diffusa circa la pratica dell’aborto clandestino, che nell’Italia degli anni Settanta interessava milioni di donne, ma riuscì anche a creare una mobilitazione femminista di massa.
L’importanza della partecipazione collettiva l’aveva capita la stessa Pierobon, che nella sua autobiografia scrisse: «In tutto questo niente è unicamente autobiografico e niente è unicamente politico. Il personale è politico, e nel personale è compreso anche il sociale».
Questo e gli altri articoli della sezione L’aborto in Italia sono un progetto del corso di giornalismo 2021 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.