• Lunedì 29 marzo 2021

Abortire è diventato ancora più difficile durante la pandemia

A causa della conversione di interi reparti in spazi per pazienti positivi e della difficoltà a ricorrere al farmacologico, tra le altre cose

di Sarah Cerabona

Verona (Barbieri Mirko/LaPresse)
Verona (Barbieri Mirko/LaPresse)

In Italia, interrompere una gravidanza non è mai stato semplice: continui ostacoli come la difficoltà a ricorrere all’aborto farmacologico o l’elevato numero di ginecologi obiettori (il 69% a livello nazionale secondo gli ultimi dati disponibili del ministero della Salute) hanno reso da sempre molto complicato esercitare questo diritto. L’emergenza sanitaria provocata dal Covid-19, che tra le altre cose ha comportato grossi cambiamenti nelle prestazioni offerte dagli ospedali di tutta Italia, ha reso ancora più difficile per molte donne praticare un aborto.

I problemi che sono emersi nel corso dell’ultimo anno, o che si sono aggravati, sono stati per esempio il sovraffollamento delle strutture sanitarie, la difficoltà a ricorrere all’aborto farmacologico, le limitazioni negli spostamenti e le complicazioni per l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) in caso di positività al virus.

Ospedali sovraffollati e strutture sanitarie chiuse
Gli effetti della pandemia sulla possibilità di ricorrere all’IVG sono stati diversi, difficilmente raccontabili solo con i dati, che per lo più non sono ancora disponibili: molte complicazioni sono dipese per esempio dalla provincia di residenza.

Uno dei problemi più grossi emersi durante la pandemia è stata la difficoltà di trovare strutture sanitarie che praticassero ancora gli aborti. Molti ospedali italiani, infatti, hanno dovuto riconvertirsi per dare spazio ai pazienti positivi al virus, limitando così il personale medico e i posti letto disponibili destinati a tutte le altre patologie e interventi.

In molti casi il problema ha continuato a essere il tempo: trovare le informazioni necessarie e capire quale struttura sanitaria è effettivamente disponibile per praticare l’IVG accorcia i tempi già molto ristretti in cui è possibile abortire.

Da questo punto di vista si è rivelato molto importante il lavoro svolto da alcune reti femministe, come per esempio “IVG, ho abortito e sto benissimo”, fondata alla fine del 2018, e “Obiezione Respinta”: entrambe lavorano da tempo per promuovere pratiche di autodeterminazione rispetto ai temi della salute sessuale e riproduttiva, per diffondere una comunicazione corretta sull’IVG e per dare informazioni sui servizi disponibili nei vari territori. Oltre a offrire diverse forme di assistenza, questi due movimenti hanno raccolto sui loro account social di Facebook e Instagram molte testimonianze di donne che hanno avuto a che fare con un’interruzione di gravidanza durante la pandemia (ma non solo), e che si sono trovate in situazioni di difficoltà.

Nelle testimonianze, tra le altre cose, si parla del problema della chiusura di consultori e ambulatori e della difficoltà a recuperare informazioni su dove e come muoversi per praticare l’IVG. Sulla pagina Facebook di Obiezione Respinta, per esempio, una ragazza rimasta anonima ha scritto: «Ho passato l’ultimo giorno utile prima del decreto che ci ha bloccati a casa a tentare di contattare telefonicamente, invano, consultori e ospedali. Il giorno dopo sarei dovuta andare di persona, ma non è più stato possibile. Gli unici che mi hanno risposto non hanno più il reparto di ginecologia».

Un’altra donna, anche lei rimasta anonima, ha scritto: «Il mio medico di base non vuole farmi il certificato necessario per l’aborto, il mio ginecologo privato è obiettore, il consultorio del mio paese è chiuso, a quello della città vicina che dovrebbe essere aperto per emergenze non risponde mai nessuno».

La psicologa Federica Di Martino, una delle coordinatrici di “IVG, ho abortito e sto benissimo”, ha raccontato: «Nel periodo iniziale della pandemia ci siamo trovati di fronte a una realtà che era totalmente nuova, fatta di persone che ci scrivevano rispetto a una serie di servizi che erano stati bloccati e interrotti. Mi ricordo ad esempio di una ragazza che ci aveva scritto dicendo che era andata davanti al consultorio del suo paese e aveva trovato un cartello con scritto che il consultorio era stato chiuso a causa del Covid, ma senza dare motivazioni, senza trovare delle alternative e soprattutto senza dare dei giorni di riapertura o indicare delle possibilità effettive per chi volesse fare ricorso all’IVG.»

Una difficoltà ulteriore è stata riscontrata nei casi di violenza domestica, diventati ancora più frequenti durante la pandemia a causa della limitazione degli spostamenti e dell’obbligo di stare in casa per lunghi periodi.

Come spiega Eleonora Mizzoni, responsabile delle chiamate d’emergenza per “Obiezione Respinta”, la convivenza forzata e la necessità di giustificare ogni spostamento hanno reso molto complicato accedere a un’IVG senza doverlo comunicare al partner violento: «Tutto diventa ancora più complicato in una situazione di gravidanza: ci sono state donne che si sono ritrovate a dover condividere per forza la scelta di abortire con il partner violento perché la condizione non permetteva di giustificare un’uscita di una giornata intera o addirittura di tre giorni, nel caso del farmacologico».

I problemi con l’aborto farmacologico
Sebbene l’IVG sia stata inclusa a marzo nella lista delle prestazioni indifferibili, un altro dei problemi riscontrati durante la pandemia è dipeso dalla decisione di diverse strutture sanitarie di sospendere l’aborto farmacologico, senza una ragione plausibile e senza darne chiara comunicazione.

Anche in questo caso, le testimonianze sono state numerose. Sulla pagina Facebook di “Obiezione Respinta”, ad esempio, una ragazza di Messina ha scritto di essersi dovuta spostare fino a Palermo per poter accedere all’IVG dopo che una ginecologa privata le aveva detto che la RU486 (la pillola abortiva) avrebbe provocato gravi conseguenze sulla sua salute – dicendo una cosa falsa e smentita dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità; la ragazza ha detto di essere stata poi respinta da diverse strutture sanitarie di Messina e di Catania.

In Italia la possibilità dell’aborto farmacologico è stata introdotta solo nel 2009, ma continua ad essere di fatto una pratica poco diffusa e di fatto ostacolata.

Prima dell’8 agosto 2020, le linee di indirizzo del ministero della Salute prevedevano che l’aborto farmacologico fosse accessibile solo nelle prime sette settimane di amenorrea (49 giorni) e che fosse obbligatoria un’ospedalizzazione di tre giorni. Tuttavia, dopo quella data, il ministero della Salute aveva aggiornato le direttive sulla RU486 annullando l’obbligo di ricovero, estendendo a nove settimane l’uso del farmaco e autorizzandone la somministrazione in consultorio e in ambulatorio.

La modifica delle linee di indirizzo nazionali sull’aborto farmacologico non è stata però sufficiente, perché le linee di indirizzo non sono state recepite da molte Regioni, che per la legge italiana hanno competenza su temi sanitari.

I vantaggi dati dall’aborto farmacologico sono numerosi sia per la donna che per l’organizzazione sanitaria: tra gli altri, una riduzione dei tempi per il ricorso all’IVG e un minore sovraffollamento dei reparti ospedalieri, soprattutto in una situazione di emergenza sanitaria come quella attuale.

Secondo Marina Toschi, ginecologa e membro di Pro-choice, Rete italiana contraccezione aborto, e del direttivo dell’European Society of Contraception and Reproductive Health, «non si può non utilizzare il progresso scientifico anche in campo della IVG, bloccando la pillola abortiva, pensare di portare indietro la storia: viviamo in un mondo globalizzato in cui ormai anche le scarpe o i vestiti non le compri più sotto casa, ma facilmente le compri su internet. In paesi dove l’aborto non è legale, esistono organizzazioni online come Women On Web che permettono alle donne di fare ricorso all’IVG tramite internet ma con consulenza medica e farmaci sicuri inviati per posta. In Italia, malgrado ci sia la legge, trovare un ospedale che garantisca accoglienza per una IVG medica è nei fatti molto difficile. Le linee di indirizzo di agosto 2020 parlano di pillola abortiva nei consultori ma di fatto ancora non si fa».

I viaggi tra regioni
Un altro problema che si è aggravato con l’arrivo della pandemia è il cosiddetto “turismo per l’aborto”.

In un paese come l’Italia, con una percentuale di obiettori così alta e con numerosi ostacoli da superare in materia di IVG, il viaggio tra regioni per le donne che desiderano abortire è spesso obbligatorio. Durante la pandemia, questo fenomeno è aumentato. Un’esperienza di questo tipo è stata raccontata da una donna rimasta anonima sulla pagina Facebook di “IVG, ho abortito e sto benissimo”: «Bisogna arrangiarsi, questa è la verità. Nella mia città non fanno l’aborto farmacologico, nella struttura di una città vicina dove sono andata mi hanno detto che, siccome non ero residente lì, non avrebbero potuto fare niente. Al consultorio, che finalmente mi ha risposto, mi hanno detto di andare in un’altra città ancora. Ho passato due giorni al telefono, per riuscire solamente a sapere quando andare presso questa terza struttura, e solo per fare la prenotazione. Alla fine ci sono riuscita, ma trovare la strada mi ha fatto sentire più sollevata che non per la conclusione della procedura stessa».

Secondo gli ultimi dati disponibili del ministero della Salute, nel 2018 il 92,3% delle IVG è stato effettuato nella regione di residenza, di cui l’87% nella provincia di residenza.

Non ci sono ancora dati ufficiali relativi al periodo della pandemia, ma molte associazioni credono che nell’ultimo anno il cosiddetto “turismo per l’aborto” sia aumentato. La riconversione delle strutture sanitarie in reparti Covid, la chiusura di diversi consultori e la limitazione negli spostamenti hanno infatti complicato ulteriormente la situazione. «Prima arrivavano 5 o 6 chiamate al mese. Dal 9 marzo 2020, l’inizio del lockdown, abbiamo iniziato a ricevere 5 o 6 chiamate al giorno e tantissimi messaggi su Facebook o Instagram di donne che non avevano idea di come muoversi o di cosa fare perché la situazione generale, già di per sé complicata, era diventata impossibile» racconta Mizzoni.

Per cercare di aggirare alcuni problemi, “Obiezione Respinta” e “IVG, ho abortito e sto benissimo”, in collaborazione con il movimento femminista Non una di meno, hanno creato il canale Telegram “S.O.S Aborto Covid-19”, in cui sono state raccolte tutta una serie di testimonianze e di monitoraggi compiuti sui diversi territori per riscrivere e rimappare la situazione dei consultori e degli ospedali in Italia. Al suo interno, si possono trovare tutte le segnalazioni utili su quali strutture praticano l’aborto, con tanto di indirizzi, orari e numeri di telefono.

«La mappatura è stata un punto fondamentale che ci ha permesso di cominciare a muoverci e a districarci all’interno di questo mondo abbastanza complesso, riuscendo così ad offrire maggiormente delle risposte a chi ci scriveva» ha spiegato Di Martino.

IVG e i tamponi positivi
Durante la pandemia, le domande relative al Covid-19 che sono state rivolte alle diverse piattaforme sono state molte: «Mi faranno un tampone prima dell’operazione?», «Cosa succederà se risulto positiva?», «Sono positiva, mi faranno mai l’operazione?». Non ci sono delle linee guida nazionali sulla procedura da seguire in caso di positività al virus e sono pochissime le aziende sanitarie che hanno pubblicato dei protocolli chiari.

In caso di tampone positivo, infatti, l’operazione potrebbe essere rinviata di 10 giorni fino al successivo tampone, causando complicazioni e ritardi per una procedura in cui il tempo è un fattore fondamentale.

In generale, il tampone è obbligatorio prima dell’ospedalizzazione, in particolare per l’IVG chirurgica o per quella farmacologica con ricovero di tre giorni. Tuttavia, c’è molta confusione riguardo a cosa bisognerebbe fare in caso di una IVG farmacologica in day hospital (ovvero senza ricovero): alcune strutture sanitarie infatti non richiedono il tampone, altre sì.

Questo, oltre a creare una disparità tra regioni o singole strutture, rende macchinoso un tipo di aborto che con la giusta organizzazione permetterebbe alle persone di evitare di andare in ospedale in una situazione d’emergenza sanitaria. Anche in questo caso, le testimonianze sono state molte, soprattutto all’inizio della pandemia. Sulla pagina Facebook di “Obiezione Respinta”, ad esempio, una ragazza racconta: «Ho scoperto di essere incinta e di essere positiva al coronavirus […] ero molto preoccupata di non riuscire ad abortire! Ho chiamato ginecologa, medico di famiglia, ospedale, consultori della zona… mi hanno tutti risposto che da positiva non sapevano come aiutarmi e di aspettare di negativizzarmi».

Una possibile soluzione a questo problema potrebbe essere, di nuovo, la telemedicina. Grazie all’accordo sottoscritto il 17 dicembre 2020 nella Conferenza Stato-Regioni e alle linee guida che regolano le prestazioni in telemedicina, sulla carta è attualmente possibile eseguire un colloquio online per accedere all’IVG e ricevere il certificato medico attraverso una firma autenticata digitalmente. Tuttavia, non è ancora chiaro se questa possibilità sia stata realmente attivata in modo quantitativamente significativo o omogeneo sul territorio. Ad oggi, comunque, l’aborto in Italia continua ad avere gravi problemi strutturali e il lavoro da fare è ancora molto.

Questo e gli altri articoli della sezione L’aborto in Italia sono un progetto del corso di giornalismo 2021 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.