La vera paura e il vero disgusto a Las Vegas

Cinquant'anni fa un eccentrico giornalista fece il viaggio alla base di uno dei racconti più innovativi e sopra le righe del Novecento americano

di Arianna Cavallo

Lo scrittore Hunter Thompson e l'attivista Oscar Zeta Acosta a Las Vegas nel 1971
(Wikicommons)
Lo scrittore Hunter Thompson e l'attivista Oscar Zeta Acosta a Las Vegas nel 1971 (Wikicommons)

«Ci trovavamo da qualche parte nei dintorni di Barstow, sul limite del deserto, quando la droga iniziò a farsi sentire. Ricordo di aver detto qualcosa come “mi sento un po’ fulminato, guida tu”. E improvvisamente ci fu un terrificante ruggito e il cielo si riempì di enormi pipistrelli che svolazzavano e squittivano e si tuffavano tutto attorno all’auto, che andava a 160 all’ora con la capote abbassata verso Los Angeles. E una voce strillava «Dio Cristo! Cosa sono queste maledette bestie?»

Si apre così Fear and Loathing in Las Vegas, il lungo e lisergico articolo dello scrittore americano Hunter S. Thompson pubblicato nel 1971 sulla rivista Rolling Stone, da cui venne tratto il famoso film Paura e delirio a Las Vegas diretto nel 1998 da Terry Gilliam, con Johnny Depp e Benicio del Toro. È il resoconto spassoso delle avventure di due tizi perennemente strafatti nella capitale dei vizi, delle tentazioni e della decadenza americana.

La storia iniziò con un viaggio reale che Thompson fece con l’avvocato e attivista di origine messicana Oscar Zeta Acosta, tra il 21 e il 23 marzo del 1971, cinquant’anni fa: ne venne fuori uno degli scritti americani più innovativi e sopra le righe del Novecento, un ritratto della fine del sogno americano e delle illusioni della cultura hippie e il resoconto più accurato e divertente dell’abuso di stupefacenti almeno fino a Vizio di Forma, il romanzo di Thomas Pynchon uscito nel 2009.


Nel 1971 Thompson aveva 33 anni ed era già uno scrittore e un giornalista noto e interessante. Nel 1967 aveva pubblicato il suo primo libro Hell’s Angels, in cui raccontava della famosa banda di motociclisti accusata di molte attività criminali: era il risultato della frequentazione con alcuni di loro durata un anno, durante la quale Thompson aveva condiviso nottate, bevute e confidenze fino a essere affascinato dalla loro visione del mondo. Ne uscì dopo essere stato brutalmente picchiato da alcuni del gruppo per aver cercato di impedire a uno di loro di pestare la moglie.

Tre anni dopo scrisse un articolo così innovativo che venne considerato il primo di un nuovo genere giornalistico. “The Kentucky Derby Is Decadent and Depraved” uscì sulla rivista Scanlan’s Monthly e non raccontava tanto la famosa corsa di cavalli di Louisville, la città dov’era cresciuto, quanto l’atmosfera eccitata e corrotta che ci ruotava attorno. Tutto era presentato con uno stile e un punto di vista personali e le descrizioni di feste e ubriachezza oscuravano completamente l’evento sportivo. Il giornalista del Boston Globe Bill Cardoso definì l’articolo il primo esempio di gonzo journalism, una parola usata dagli irlandesi della città per indicare l’ultimo uomo rimasto in piedi dopo una notte di baldoria.

L’espressione attecchì per indicare altri lavori di Thompson e poi dei molti che lo presero a modello. Era considerata un sottogenere del New Journalism, il modo di fare giornalismo nato all’epoca e reso famoso da Tom Wolfe, Gay Talese, Truman Capote e Joan Didion, che rifiutava l’idea dell’imparzialità del giornalista: il suo punto di vista diventava il perno del racconto, che doveva essere scritto come un’opera letteraria.

Hunter Thompson prende appunti durante un processo a West Palm Beach, Florida, 1982
(AP Photo/Ray Fairall)

Nel gonzo journalism la voce dell’autore è preponderante e rinuncia completamente non solo all’oggettività dei fatti ma anche alla loro accuratezza: il reale viene ingigantito, deformato, disseminato di particolari inventati e piste false per tenere viva l’attenzione e l’intelligenza del lettore. Ci sono sarcasmo, esagerazioni, volgarità; spesso l’autore è strafatto di alcol e droghe, o comunque in uno stato emotivo squilibrato e allucinato. Thompson partiva dalla convinzione dello scrittore William Faulkner che “fiction is often the best fact”, (spesso l’invenzione è il migliore dei fatti) e spiegava che «contrariamente a Tom Wolfe o Gay Talese non cerco quasi mai di ricostruire una storia. Ci sono giornalisti molto più bravi a farlo, ma io non mi considero un reporter».

Fear and Loathing in Las Vegas è il prodotto più riuscito di questo stile di scrittura e quello che doveva essere soltanto un breve reportage divenne un caso letterario, pubblicato prima come articolo e poi come libro nel 1972. La rivista Sports Illustrated aveva infatti chiesto a Thompson di seguire la Mint 400, una corsa motociclistica che si sarebbe tenuta a marzo nel deserto alle porte di Las Vegas.

All’epoca stava raccogliendo il materiale per scrivere Strange Rumblings in Aztlan, un articolo che sarebbe uscito ad aprile su Rolling Stone: raccontava la morte del giornalista messicano-americano Rubén Salazar, ucciso da un lacrimogeno sparato a distanza ravvicinata dalla polizia di Los Angeles durante una protesta contro la guerra in Vietnam. L’atmosfera in città era tesa a causa degli scontri razziali e Thompson aveva difficoltà a comunicare con una delle sue fonti principali, l’attivista Oscar Zeta Acosta. Così, approfittando dell’incarico di Sports Illustrated, gli propose di incontrarsi a Las Vegas per discutere più liberamente della vicenda.

Qui i fatti si confondono nel racconto deformato nell’articolo che, dal pezzo di poche centinaia di parole sulla Mint 400 che doveva essere, si dilatò nelle migliaia che scrisse in 36 frenetiche ore in un hotel di Las Vegas. La corsa è a malapena accennata – non si fa nemmeno il nome del vincitore – e tutto ruota attorno ai vagabondaggi del giornalista Raoul Duke e del suo avvocato, il Dr. Gonzo, totalmente allucinati per l’uso incontrollato di droga – il bagagliaio della loro auto era stipato con mezzo litro etere, due sacchi d’erba, 75 palline di mescalina, cinque fogli di acido, mezza saliera di cocaina oltre a rum, birre e tequila – mentre inseguono il sogno americano e devastano casinò e suite d’hotel di Las Vegas.

Sports Illustrated rifiutò categoricamente il pezzo e allora Thompson lo propose a Rolling Stone, con cui collaborava da tempo. Il suo editore, Jann Wenner, ne fu affascinato e gli chiese di infiltrarsi alla conferenza dei procuratori distrettuali contro l’uso di narcotici e droghe pericolose, che si sarebbe tenuta a Las Vegas dal 25 al 29 aprile. Thompson diede di nuovo appuntamento ad Acosta e questo viaggio, che nello spirito e nei temi non è troppo distante dal primo, divenne la seconda parte della storia.

Hunter S. Thompson parla di giornalismo all’università di Yale, New Haven, Connecticut, 1972
(AP Photo)

Dopo cinque stesure, l’articolo fu pubblicato come una storia in due parti sul numero di novembre di Rolling Stone, con il sottotitolo “A savage journey to the heart of the American dream” (“un viaggio selvaggio nel cuore del sogno americano”), a firma di Raoul Duke. Il titolo significa “paura e disgusto a Las Vegas” e non “delirio”, com’è stato tradotto nel film in italiano, ed è un’espressione consolidata, usata pare per la prima volta dal filosofo Friedrich Nietzsche nel saggio L’anticristo. In un’intervista a Rolling Stone Thompson spiegò che «venne fuori dalla mia stessa paura e per me è la descrizione perfetta della situazione, anche se mi hanno accusato di averlo rubato a Nietzsche, Kafka o insomma uno del genere».

Nell’articolo, il nome di Thompson compare solo in un passaggio: quando un buttafuori di Las Vegas mostra a Duke una foto di Thompson e Acosta insieme; il personaggio risponde «’sto tizio si chiama Thompson. Lavora per Rolling Stone, è uno davvero fuori di testa e pieno di vizi». La foto venne stampata sul retro della prima edizione del libro, pubblicato dalla casa editrice Random House nel luglio del 1972 e stavolta firmato con il vero nome di Thompson.

Hunter Thompson e Oscar Zeta Acosta a Las Vegas nel 1971. La foto venne stampata sul retro della prima edizione del libro, pubblicato dalla casa editrice Random House nel luglio del 1972
(Wikicommons)

Molti critici non lo apprezzarono a causa dell’onnipresenza della droga ma altri lo riconobbero subito come una pietra miliare, incerti se etichettarlo come un nuovo genere di romanzo o di narrativa. Da allora è diventato popolare e si è imposto come uno dei racconti della controcultura, come una fotografia della paranoia, dell’isteria, della follia e degli scontri d’America, incupita dall’assassinio del senatore Robert Kennedy e di Martin Luther King, dalla violenta repressione della polizia contro i manifestanti durante la convention Democratica di Chicago, nel 1968, e dai massacri compiuti dai seguaci di Charles Manson.

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Negli anni successivi Thompson si divertì a non tratteggiare un confine tra i fatti reali e le esagerazioni narrative dei due viaggi. Un po’ per alimentare il mito della sua figura anticonvenzionale ed eccentrica, un po’ per pura convinzione: la distinzione tra realtà e fantasia per lui era datata e ottocentesca e aspirava a un nuovo modello di raccontare il mondo, inaugurato da George Orwell nei reportage di Senza un soldo a Parigi e Londra e da Jack Kerouac nel romanzo autobiografico Sulla strada.

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Secondo i suoi studiosi, l’uso di stupefacenti nel primo viaggio è più che esagerato: probabilmente Thompson e Acosta si limitarono a fumare un po’ di erba. Forse si lasciarono un po’ andare nel secondo viaggio, con mescalina, qualche pasticca e sempre marijuana. Le descrizioni degli effetti dell’LSD vengono da sue esperienze precedenti, mentre nel 1971 Thompson non aveva ancora provato la cocaina. Non credeva nel potere liberatorio delle droghe, come gli hippie, ma le considerava un modo per sballarsi ed evadere dalla pesantezza della vita di ogni giorno. Allo stesso tempo, pur essendo incuriosito dalla controcultura, dalla musica e dalla vita degli hippie di San Francisco negli anni Sessanta, era troppo cinico e disilluso per abbracciarla a pieno.

In Fear and Loathing in Las Vegas ne decretò tristemente la fine in uno dei passaggi più noti del libro: il cosiddetto “wave speech”, il discorso dell’onda, che riecheggia i ritmi e lo stile del final del Grande Gatsby di Scott Fitzgerald, il libro preferito di Thompson:

«C’era una sensazione fantastica e universale per cui tutto quello che facevamo era giusto, che stavamo vincendo. Penso che ci fosse una sensazione di inevitabile vittoria sulle forze del Passato e del Male. Non in un modo meschino o militaresco: non ne avevamo bisogno. Semplicemente, la nostra energia avrebbe avuto la meglio. Non aveva senso combattere, sul nostro fronte o sul loro. La storia eravamo noi, stavamo cavalcando la cresta di un’alta e magnifica onda…

Invece ora, meno di cinque anni dopo, puoi salire su una collina a Las Vegas e guardare a Ovest e se hai gli occhi buoni puoi quasi intravedere il segno dell’acqua alta, il posto dove l’onda si è infine spezzata e ha fatto marcia indietro».

Il libro venne pubblicato in Italia nel 1978 da Arcana Editrice con il titolo Paranoia a Las Vegas, nella traduzione di Alberto Gini. Nel 1996 venne ripubblicato da Bompiani tradotto dallo scrittore Sandro Veronesi e titolato Paura e disgusto a Las Vegas; in appendice aveva una Piccola enciclopedia psichedelica, che spiegava droghe, luoghi e personaggi del libro.

Negli anni successivi Thompson continuò il suo lavoro da giornalista e in particolare seguì per Rolling Stone la campagna presidenziale di Richard Nixon e del suo oppositore, il senatore Democratico George McGovern. Nel 1972 gli articoli vennero raccolti in un nuovo libro, Fear and Loathing on the Campaign Trail ’72, Paura e disgusto in campagna elettorale. Thompson detestava Nixon e non si stancò mai di attaccarlo: durante la campagna, durante la presidenza e dopo le dimissioni. Era anche un fiero oppositore della guerra in Vietnam, un convinto patriota americano e un grande sostenitore del possesso privato delle armi.

Il 20 febbraio del 2005 si uccise con un’arma da fuoco nella sua tenuta di Woody Creek, in Colorado. I suoi amici e familiari raccontarono che soffriva di depressione da tempo, che era afflitto dagli anni di prolungato abuso di droghe, dal dolore per un’operazione all’anca e dalla convinzione di essere diventato troppo vecchio. Qualche giorno prima aveva lasciato un biglietto alla giovane moglie Anita intitolato “La stagione del football è finita” e con scritto:

«Niente più giochi. Niente più bombe. Niente più passeggiate. Niente più divertimento. Niente più nuotate. 67. Cioè 17 anni oltre i 50. 17 più di quanti me ne servissero o ne volessi. Noiosi. Sono sempre un bastardo. Niente divertimento per nessuno. 67. Stai diventando avido. Comportati come richiede la tua età. Rilassati. Non farà male».

Le ceneri vennero sparate in aria da un cannone costruito appositamente, durante un funerale privato accompagnato da fuochi d’artificio rossi, bianchi e blu. A farsi carico delle spese fu l’attore Johnny Depp, che era diventato un caro amico di Thompson dopo averlo interpretato nel film: aveva vissuto quattro mesi insieme a lui, si era fatto raccontare altri dettagli della storia e aveva indossato i suoi vestiti originali in molte scene.

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