La strage dimenticata dell’hotel Diana
Cento anni fa a Milano tre anarchici fecero scoppiare una bomba che causò 21 morti, e che ebbe conseguenze importanti
di Luca Misculin
«Ieri sera qualche minuto prima delle 23 si è inteso distintamente in tutta Milano un fortissimo scoppio che ha messo in allarme tutti coloro che si trovavano per le vie e specialmente i cittadini che transitavano per il centro, dove la sensazione di una sciagura si è diffusa quasi immediatamente». Con queste parole, e un titolo a tutte le colonne, l’edizione mattutina del Corriere della Sera del 24 marzo 1921 annunciava che la sera prima una bomba era scoppiata nel teatro dell’hotel Diana, a pochi metri da Porta Venezia. Nei giorni successivi ci si rese conto che era stato il più grave attentato esplosivo avvenuto in Italia fino a quel momento: fu compiuto da tre anarchici, poi condannati per l’attentato.
Della bomba al Diana si parlò in tutta Italia, con conseguenze concrete sul tesissimo dibattito politico di allora.
Il conteggio finale dei morti fu più alto di quello circolato nelle prime ore, e superiore persino alla strage di Piazza Fontana a Milano, che avvenne quasi mezzo secolo più tardi.
Eppure, nel corso degli anni, l’attentato al Diana ha ricevuto scarse attenzioni. Probabilmente c’entra il delicatissimo periodo storico in cui avvenne, durante le ripetute violenze fra fascisti e anarchici e a poco più di un anno dalla marcia fascista su Roma: rimane il fatto che di quella bomba e dei suoi danni restano oggi pochissime tracce.
In quegli anni l’Italia stava attraversando quello che gli storici tempo dopo definirono il biennio rosso: un periodo di grandi tensioni, alimentate da una grave crisi economica e dagli strascichi della Prima guerra mondiale; alle rivendicazioni dei sindacati operai e dei movimenti anarchici si opponevano i rappresentanti della borghesia.Mazurka Blu, che ricostruisce la storia della bomba all’hotel Diana.
«La guerra era finita e anche questa città, come tutte le altre, formicolava di reduci che, tornati a casa con i quattro soldi del congedo, vi avevano trovato miseria, disoccupazione e fame», ha scritto il giornalista Vincenzo Mantovani nel libro– Vedi anche: La newsletter del Post su Milano, “Colonne”
Proprio a Milano, il 23 marzo 1919 erano stati fondati i Fasci italiani di combattimento, il movimento politico-terrorista guidato dal giornalista Benito Mussolini. Fra il marzo del 1919 e l’ottobre del 1922, in cui i fascisti presero il potere grazie alla marcia su Roma, il movimento di Mussolini fu responsabile di migliaia di atti di violenza, con l’obiettivo esplicito di fermare una presunta rivoluzione socialista simile a quella avvenuta pochi anni prima in Russia.
Le violenze erano state in qualche modo inaugurate col saccheggio della sede del giornale socialista L’Avanti, il 15 aprile 1919, in quello che oggi viene considerato da alcuni il primo attacco fascista di natura squadrista.
Nei due anni successivi le violenze aumentarono a dismisura. Soltanto nei primi mesi del 1921, ricorda un dettagliato articolo di Jacopo Giliberto pubblicato dal Sole 24 Ore, «i fascisti distruggono, devastano o incendiano 119 camere del lavoro, 141 sezioni e circoli socialisti e comunisti (i circoli comunisti sono appena nati perché il partito è stato fondato in gennaio), 107 cooperative, 110 tra circoli e biblioteche».
Anche l’ala più radicale dei movimenti anarchici e operai partecipò alle violenze in tutta Italia, ma specialmente a Milano, che allora era ancora piena di fabbriche. Il 7 settembre 1919 un giovane anarchico, Bruno Filippi, si fece saltare in aria nella Galleria Vittorio Emanuele, considerata un ritrovo di borghesi. Non si capì mai se Filippi volesse compiere un attentato suicida o piazzare una bomba negli affollati caffè della Galleria, ma il suo fu solo l’ultimo di una serie di attentati attribuiti al suo gruppo. Nelle settimane precedenti erano state prese di mira la Corte d’Assise in Piazza Fontana, la Stazione Centrale e l’appartamento della famiglia di industriali Breda.
Le cose che successero il 23 marzo 1921 prima dello scoppio della bomba rendono bene l’idea del clima di quei giorni.
In tutta Italia i movimenti anarchici avevano organizzato degli scioperi in solidarietà di Corrado Quaglino, Armando Borghi e soprattutto di Errico Malatesta, tre leader del movimento che cinque mesi prima erano stati arrestati e imprigionati nel carcere di San Vittore senza alcuna accusa concreta. Il 18 marzo erano ancora in attesa di un processo quando decisero di proclamare uno sciopero della fame. Il Partito Socialista appoggiò Malatesta e gli scioperi di quei giorni con poca convinzione, temendo che avrebbero condotto a nuove elezioni e all’aumento dei consensi per i fascisti.
Parallelamente il Popolo d’Italia, il quotidiano milanese che anni più tardi diventò l’organo ufficiale del partito fascista, pubblicò un lungo editoriale nella sua edizione mattutina per celebrare i due anni di fondazione dei fasci di combattimento. Alle 17.30 invece fu inaugurata la nuova sede della Rinascente, il grande magazzino frequentato dalla borghesia che era stato distrutto da un incendio tre anni prima. All’inaugurazione parteciparono fra gli altri il Duca d’Aosta, cioè Emanuele Filiberto Vittorio Eugenio Alberto Genova Giuseppe Maria di Savoia, e un plotone di lancieri dell’esercito.
Più o meno nelle stesse ore un gruppo di giovani anarchici si stava chiedendo cosa fare per liberare Malatesta e gli altri leader del movimento. Dalla prigione di San Vittore arrivavano voci contrastanti: Malatesta stava molto male per via dello sciopero della fame – allora aveva 67 anni – ma al contempo la pressione causata dagli scioperi e dalle manifestazioni sembrava avere convinto le autorità milanesi a rilasciare i leader anarchici. Come atto estremo per chiedere la liberazione di Malatesta si decise di colpire con un attentato il capo questore di Milano, Giovanni Gasti.
A prendere la decisione sembra sia stato Giuseppe Mariani, un anarchico mantovano di 23 anni. Mariani aveva frequentato i circoli operai fin da bambino e da allora si era dedicato soprattutto all’attività politica, trovando lavoretti saltuari: in quel momento lavorava come frenatore per le Ferrovie dello Stato. Mariani coinvolse anche il suo compaesano Giuseppe Boldrini, operaio e attivista anarchico, ed Ettore Aguggini, un meccanico milanese che avrebbe compiuto 19 anni il giorno successivo.
Mariani sentì dire da un’attivista anarchica che Gasti abitava nell’hotel Diana, un elegante albergo costruito nel 1908 che faceva angolo con piazza Venezia, poco lontano dall’omonima Porta. L’hotel era stato costruito come un kursaal, una parola tedesca che significava un centro ricreativo per ricchi borghesi: al suo interno c’erano ristoranti, caffè, un enorme teatro, e un campo per giocare a pelota, che allora era uno sport molto diffuso nella Milano-bene. Aveva anche un giardino costruito interrando una piscina di acqua fluviale di metà Ottocento.
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Quella sera nel teatro dell’hotel Diana era in programma la quindicesima e ultima replica dell’operetta Mazurka Blu del compositore ungherese Franz Lehár. Lo spettacolo si era prolungato oltre le 23 per via di uno sciopero dell’orchestra fra il secondo e il terzo atto, per protestare contro il licenziamento di un suo membro. Il terzo atto era iniziato soltanto poco dopo le 22.30: molto tardi, per un mercoledì lavorativo.
In quei minuti Mariani, Aguggini e Boldrini si fecero portare da un taxi in via Melzo, poco distante dall’hotel, e piazzarono la bomba – una valigia che conteneva 20 chili di nitroglicerina – davanti all’ingresso degli artisti. Non è chiaro perché ritenessero che proprio di lì dovesse uscire Gasti. Mariani accese la miccia e scappò. Un giovane fascista si era accorto di cosa stava succedendo e aveva provato a lanciare via la valigia, raccontò più avanti il Corriere della Sera, ma si era scottato prendendola in mano: fece appena in tempo a urlare «salvatevi, scappate», che la bomba esplose.
Lo scoppio fu fortissimo. In molti morirono all’istante, fra cui diversi membri dell’orchestra. L’orologio del teatro si fermò sulle 23. Gasti, l’obiettivo dell’attentato, non si fece nulla e iniziò subito a coordinare i soccorsi. Sul posto arrivarono decine di persone attratte dallo scoppio, ma anche le camionette delle forze dell’ordine e molti giornalisti. Oltre ad aver distrutto la porta e la sezione riservata all’orchestra, la bomba aveva causato un buco nel pavimento: per entrare nella sala del teatro fu necessario appoggiarci sopra delle assi di legno.
Stranamente l’esplosione non aveva fatto saltare l’impianto di illuminazione, che quindi continuò a funzionare anche nelle ore successive. Un cronista del Corriere della Sera riuscì a entrare nel teatro durante le prime ore di indagini, e fece in tempo a scrivere quello che aveva visto per l’edizione mattutina del 24 marzo.
Nel palco numero 10 fra calcinacci, pezzi di stoffa e frammenti di carne [si vede] un fine braccio femminile ricoperto solo a metà da una camicetta di seta. Incastrato fra il palco numero 14 e la barcaccia numero 3 è il tronco denudato e gonfio di un giovane corpo: sembra si tratti di una bambina. […] Nella barcaccia numero 3 il pavimento è ricoperto da una poltiglia sanguinolenta. Nel palco numero 12 sopra una sedia, sola, una scarpetta femminile piena di sangue raggrumato. Brandelli di carne, frammenti di cranio sono stati trovati anche sul palcoscenico, fin dietro le quinte.
Nelle edizioni successive, il Corriere della Sera mantenne aggiornata una lista dei morti e dei feriti, sparsi negli ospedali e nelle case private di tutta la città. Alla fine le persone uccise dalla bomba furono 21, mentre i feriti un numero imprecisato fra ottanta e cento.
Fin dai primi minuti dopo l’attentato, i fascisti milanesi organizzarono una ritorsione armata contro anarchici, operai e socialisti. In poche ore distrussero la sede della rivista anarchica Umanità Nova, un circolo socialista poco distante e la sede dell’Unione Sindacale Italiana. Attaccarono anche la sede dell’Avanti, che però era presidiata dai carabinieri. Nello stesso momento Mussolini stava scrivendo il primo di una serie di editoriali del Popolo d’Italia in cui incolpava dell’attentato l’intera sinistra italiana.
Due giorni dopo la strage, scrisse senza alcuna prova che l’attentato era stato ordinato dai socialisti russi – «l’oro bolscevico fluisce; entra nelle vene della nazione, arroventa le passioni; si trasforma in mitraglia e in altro esplosivo, in parole d’odio che si possono dire in qualunque piazza» – e che se non fosse stato per i fascisti in Italia sarebbe scoppiata una rivoluzione socialista e anti-borghese come in Russia. Usò gli stessi argomenti anche nei mesi successivi, sostenendo che solo il fascismo potesse arginare la violenza crescente della sinistra e il tentativo di instaurare un regime socialista.
Alle elezioni politiche del maggio 1921 il Blocco nazionale, che comprendeva una minoranza di destra e i fascisti, andò molto bene: ottenne il 19 per cento dei voti, arrivando terza a poca distanza da Socialisti e Popolari. I Socialisti, in particolare, persero 8 punti percentuali rispetto alle elezioni tenute appena un anno e mezzo prima. Grazie al Blocco nazionale i fascisti entrarono per la prima volta in parlamento: alle elezioni del 1919 si erano presentati solo a Milano prendendo poche migliaia di voti.
Mariani, Aguggini e Boldrini furono individuati piuttosto rapidamente in seguito agli arresti di massa del movimento anarchico milanese. Il processo contro di loro e un’altra ventina di attivisti riguardò sia l’attentato al Diana sia altre azioni minori. Durò poco più di tre settimane e si concluse con la condanna di Mariani e Boldrini all’ergastolo. Aguggini ricevette invece trent’anni di carcere. Furono condannati anche tutti gli altri attivisti, alcuni a diversi anni di carcere.
Durante il processo, Mariani si limitò a dire che la bomba era diretta a Gasti e che non sapeva che fra il pubblico ci fossero anche degli operai, giustificando apertamente la violenza contro i borghesi. La sinistra e varie componenti del mondo anarchico, compreso Malatesta, si dissociarono dall’attentato. «Qualunque sia la barbarie degli altri, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la lotta nei limiti dell’umanità, vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario», scrisse Malatesta l’8 settembre 1921 su Umanità Nova.
Eppure Mussolini attribuì all’intera sinistra la responsabilità delle violenze. Il giorno dopo l’inizio del processo aveva scritto che «i fascisti milanesi non intendono di permettere e non permetteranno mai – costi quel che costi – che un processo contro una manica di delinquenti nati si converta in una specie di piattaforma politica. Se lo sconcio spettacolo non ha termine, i fascisti milanesi […] faranno giustizia sommaria». Meno di sei mesi dopo migliaia di fascisti marciarono su Roma invocando un colpo di stato per garantire l’ordine. Il re Vittorio Emanuele III diede a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo.
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Nel giro di un anno, conclude Giliberto sul Sole 24 Ore, gli attentatori dell’hotel Diana avevano fallito su tutto il fronte: «pensavano che la bomba con cui hanno ammazzato 21 persone a teatro avrebbe liberato Malatesta, obiettivo mancato; rafforzato la sinistra, obiettivo mancato; fermato i fascisti, obiettivo mancato, al contrario è stato conseguito il risultato opposto di far salire al potere i fascisti, con ciò che ne seguirà negli anni».
Nel corso degli anni la strage del Diana è stata quasi dimenticata, anche dagli storici, tanto che il materiale accademico a disposizione è assai scarso: probabilmente c’entra il fatto che durante il ventennio fascista il ricordo di quel periodo di violenze reciproche fu quasi cancellato.
Il ricordo della strage riemerse in pubblico solo il 13 dicembre 1969, il giorno successivo alla strage di Piazza Fontana, a Milano. Quel giorno il Corriere della Sera scelse di includere nelle pagine di cronaca milanese un articolo intitolato «un tragico precedente» in cui già nel sommario sottolineava che «gli autori furono tre anarchici».
Proprio i circoli anarchici milanesi furono i primi sospettati della strage di Piazza Fontana, nelle vicende che portarono alla morte del ferroviere Giuseppe Pinelli negli uffici della Questura di Milano. La strage, invece, era stata compiuta dai neofascisti di Ordine Nuovo.
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