Oggi si vota in Israele, per la quarta volta
Dalle ultime tre elezioni in due anni non sono usciti governi stabili: e anche stavolta sarà complicato, nonostante la campagna vaccinale di successo
Oggi, martedì 23 marzo, in Israele si vota per la quarta volta in meno di due anni. Il primo ministro uscente Benjamin Netanyahu, che negli ultimi mesi è riuscito a rimanere al suo posto nonostante il processo per corruzione in corso contro di lui, mantiene un indice di gradimento piuttosto alto, anche grazie al notevole successo della campagna vaccinale israeliana, ma comunque in calo rispetto alle ultime elezioni, tenute appena un anno fa; e oggi esiste la concreta possibilità che Netanyahu possa perdere le elezioni, un esito che sarebbe una grossa novità per la politica israeliana.
Netanyahu è primo ministro di Israele da 12 anni. I due fattori che gli hanno consentito una carriera così longeva sono stati la sicurezza e la crescita economica. La prima è stata assicurata da un progressivo rafforzamento dell’esercito, accompagnato peraltro da politiche dure nei confronti dei palestinesi, che avrebbero comunque potuto essere ancora più dure considerando le coalizioni di destra al governo nel paese negli ultimi dodici anni: in questo periodo, Netanyahu ha deciso una sola vera guerra, durata poco meno di due mesi, e si è rimangiato più volte la promessa di annettere parte della Cisgiordania al territorio israeliano.
Riguardo alla crescita economica, dal 2009 ad oggi il PIL israeliano è praticamente raddoppiato, caso praticamente unico in Occidente, mentre il tasso di disoccupazione si è dimezzato scendendo sotto al 4 per cento nel 2020. Anche per questa ragione Netanyahu era riuscito a vincere le ultime tre elezioni e a formare dei governi guidati da lui, sebbene molto traballanti per via del frammentatissimo quadro politico israeliano. Poi è arrivata la pandemia.
Oggi lo ricordano in pochi, ma prima che iniziasse la campagna vaccinale Israele era uno dei paesi con più contagiati al mondo in rapporto alla popolazione, e la scorsa estate si erano susseguite enormi proteste di piazza contro le misure del governo per bilanciare gli effetti della pandemia sul sistema economico, fra le altre cose.
Il successo nella campagna vaccinale non ha cancellato gli estesi timori per l’economia.
Nonostante il PIL israeliano nel 2020 si sia contratto soltanto del 2,4 per cento, dato che resta comunque il peggiore dalla fondazione dello stato nel 1948, a inizio marzo la Banca d’Israele ha stimato che il tasso di disoccupazione rimane intorno al 12 per cento: un dato altissimo per un paese in cui raramente il lavoro è stato uno dei problemi più sentiti. La Banca d’Israele ha anche criticato il governo per l’assenza di misure di stimolo per la ripresa, e ha giudicato poco centrato il piano di Netanyahu di dare un assegno economico a tutti i cittadini, quindi anche ai più ricchi e meno bisognosi.
«Il partito di Netanyahu non è cresciuto nei sondaggi perché ci sono radicati timori che la crisi economica causata dalla pandemia non sia stata gestita bene dal governo», sintetizza il Times of Israel sulla base di un recente sondaggio che assegnava al Likud, il partito di Netanyahu, 27 seggi sui 120 totali della Knesset, il Parlamento israeliano, contro i 37 controllati oggi. Nell’ultimo mese soltanto due sondaggi hanno stimato che il Likud possa ottenere più di 30 seggi (in Israele la legge elettorale in vigore è un sistema proporzionale puro: giornalisti e osservatori sono abituati a ragionare in termini di seggi, più che di percentuali di voto).
C’è almeno un altro motivo. Il fatto che negli ultimi anni il dibattito politico sia stato dominato da Netanyahu e impostato su temi prevalentemente di destra – la già citata sicurezza, ma anche la politica estera aggressiva nei confronti dell’Iran, e la necessità di ribadire il carattere ebraico dello stato – ha aumentato la visibilità e il consenso di partiti e personaggi politici a destra del Likud.
Stando agli ultimi sondaggi, dei quattro partiti oggi più popolari tre sono di destra: oltre al Likud ci sono anche Nuova Speranza, fondato dall’ex ministro e dirigente del Likud Gideon Sa’ar in polemica con Netanyahu, e soprattutto Yamina, una parola che in ebraico significa “a destra”, guidato da Naftali Bennett. Da lui passeranno molte delle possibilità di Netanyahu di formare un nuovo governo.
Bennett è un ex imprenditore e capo del gabinetto di Netanyahu, che lo escluse dal suo circolo più stretto dopo che Bennett litigò con Sarah Netanyahu, moglie di Benjamin. Nel frattempo è uscito dal Likud e si è presentato più volte alle elezioni con partiti a destra di Netanyahu, finendo sempre per allearsi con lui. Fra il 2013 e il 2020 ha fatto il ministro dell’Economia, delle Pratiche religiose, della Diaspora ebraica, dell’Educazione e della Difesa, cosa che gli ha garantito parecchia visibilità e autorevolezza. L’anno scorso pubblicò un libro in cui criticava la gestione della pandemia del governo ma senza citare nemmeno una volta Netanyahu.
Nonostante sia all’apice del suo consenso, nessuno sembra in grado di prevedere se dopo il voto del 23 marzo accetterà per l’ennesima volta di entrare in un governo Netanyahu all’ombra del suo vecchio capo – in onore del quale ha anche chiamato suo figlio Yoni, come il fratello di Netanyahu morto in combattimento nel 1976 – oppure se si proporrà per guidare un eventuale governo di coalizione con i partiti di centro e quelli di destra che rappresentano gli interessi degli ultraortodossi, tagliando fuori il Likud: un’ipotesi di cui per ora si discute soprattutto fra gli osservatori di politica. Al momento i sondaggi assegnano a Yamina una dozzina di seggi.
Le possibilità di Netanyahu di formare un nuovo governo di destra passano quasi solo da Bennett anche perché Nuova Speranza, il partito di Sa’ar, ha promesso che non sosterrà un nuovo governo Netanyahu. Dopo le elezioni potrebbe succedere di tutto, e negli ultimi anni nella politica israeliana se ne sono viste di tutti i colori, ma al momento la situazione è questa: stando ai sondaggi una eventuale coalizione fra Likud, Yamina e i partiti della destra religiosa – escluso Nuova Speranza – è data appena sotto i 61 seggi necessari per dare la fiducia a un nuovo governo.
Ma la frammentazione della destra è poca cosa rispetto a quella del centrosinistra. Blu e Bianco, il partito che un anno fa arrivò secondo con 28 seggi, si è spaccato dopo la sorprendente decisione del leader Benny Gantz di formare un governo di coalizione con Netanyahu. Oggi quello che rimane di Blu e Bianco balla fra quattro e cinque seggi mentre la fazione che si era opposta al governo con Netanyahu, quella guidata dall’ex giornalista Yair Lapid, ha rifondato il partito centrista Yesh Atid.
Al momento Yesh Atid è secondo nei sondaggi con una ventina di seggi, ma non è chiaro cosa intenda fare dopo il voto. Un’alleanza con i partiti alla sua sinistra sembra difficile. Dopo la svolta a sinistra con l’elezione della nuova leader Merav Michaeli, il Partito Laburista ha riguadagnato consensi sottraendoli a Meretz, lo storico (e isolato) partito di sinistra radicale. Sembra probabile che alla fine soltanto uno dei due riuscirà a superare la soglia di sbarramento fissata al 3,25 per cento dei voti.
Meretz e i Laburisti, ma anche Blu e Bianco, temono così tanto di non superare lo sbarramento che qualche giorno fa hanno criticato moltissimo un SMS che Yesh Atid ha mandato agli elettori invitandoli a non votare per i piccoli partiti. «Se Lapid vuole la guerra, l’avrà», ha commentato una fonte dei Laburisti ad Haaretz. Se nessuno dei tre partiti entrerà alla Knesset, fra l’altro, un governo guidato da Netanyahu sarebbe praticamente certo: i seggi rimasti vacanti sarebbero redistribuiti fra i partiti che hanno superato il 3,25 per cento, e in parecchi andranno al Likud, che a meno di sorprese rimarrà il partito più votato.
Anche i partiti che rappresentano gli interessi degli arabi-israeliani, che appartengono storicamente al centrosinistra, sembrano in difficoltà: negli scorsi mesi c’è stata una scissione nella Lista Unita, lo storico cartello elettorale che li teneva insieme.
Se Meretz e Laburisti riuscissero a entrare in Parlamento, e se anche i partiti della Lista Unita accettassero di stare nella stessa maggioranza, una coalizione coi partiti di centro e centrosinistra non dovrebbe comunque esprimere più di 45-50 seggi.
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Una terza opzione, la più impronosticabile, prevede invece un governo di coalizione fra partiti di destra e di centro che taglierebbe fuori sia il Likud – e quindi Netanyahu – sia i partiti di centrosinistra. Una ipotetica coalizione fra i partiti della destra religiosa, Yamina, Nuova Speranza, Blu e Bianco e Yesh Atid potrebbe superare di poco i 61 seggi, e dare la fiducia a un governo di centrodestra senza Netanyahu.
Ma in Israele alcuni sembrano convinti che esista un’altra opzione: la quinta elezione in poco più di due anni, nel caso anche quella del 23 marzo non riesca a dare al paese un governo stabile.