Il Kenya produce elettricità dalla Rift Valley
Grazie all'energia geotermica, sfruttando due placche tettoniche che si allontanano
Quando si parla di fonti rinnovabili di energia ci si riferisce soprattutto all’acqua, alla luce del Sole e al vento, ma ce ne sono altre: alcuni paesi del mondo sfruttano le alte temperature presenti all’interno della Terra tramite l’energia geotermica, che si può usare in modo efficiente ad esempio dove ci sono attività vulcaniche. È il caso dell’Islanda, che si trova lungo la linea di congiunzione tra due placche tettoniche, e ancora di più del Kenya, il paese che più di tutti fa affidamento sulla geotermia per alimentare case, uffici e aziende (utilizzata per produrre il 38 per cento dell’elettricità totale, più di qualunque altro paese al mondo).
Il merito è della Rift Valley, la lunga valle nota per i ritrovamenti archeologici degli antichi ominini, tra cui quelli dell’australopiteca Lucy
La Rift Valley si è formata per la separazione di due placche tettoniche africane: il processo iniziò 30 milioni di anni fa e durerà ancora decine di migliaia di anni. L’allontanarsi delle placche fa sì che in questa parte del pianeta la parte superficiale della crosta terrestre sia più sottile che altrove: per questo si trovano numerosi vulcani attivi e spenti, c’è attività sismica ed è anche più semplice ottenere energia geotermica perché i flussi provenienti dal centro della Terra incontrano meno ostacoli. In particolare, succede che l’acqua liquida presente nel sottosuolo entri in contatto con rocce molto calde, trasformandosi in vapore, che può fuoriuscire in superficie anche in modo naturale, attraverso geyser o sorgenti termali.
In altre parti del mondo bisogna scavare per chilometri e chilometri prima di raggiungere strati di roccia abbastanza caldi per produrre energia geotermica, mentre nella Rift Valley keniana non serve andare troppo in profondità. Il vapore viene sfruttato per azionare delle turbine e produrre elettricità; una volta condensatosi e tornato acqua liquida, viene re-iniettato nel sottosuolo, per tornare a scaldarsi.
Il più grande impianto in cui avviene questo processo è la centrale geotermica di Olkaria, che si trova nel parco nazionale di Hell’s Gate, circa 120 chilometri a nord-ovest di Nairobi. Nei prossimi anni quella di Olkaria diventerà la più grande centrale geotermica del mondo, ha raccontato un articolo di BBC Future.
La centrale è formata da cinque grossi impianti e da una serie di strutture più piccole a essi collegati, ciascuna costruita in prossimità di un punto in cui è facile ricavare energia geotermica, i cosiddetti pozzi geotermici.
I primi tentativi di sfruttare la geotermia nella zona di Olkaria furono fatti negli anni Cinquanta, ma inizialmente le tecnologie a disposizione dell’azienda elettrica pubblica keniana, la Kenya Electricity Generating Company (KenGen), non erano abbastanza sofisticate per ottenere buoni risultati. Il primo impianto della centrale attuale, Olkaria I, fu costruito nel 1981 e fu non solo la prima centrale geotermica del Kenya, ma anche dell’intera Africa.
Da allora la centrale è stata ampliata più volte e una nuova espansione, Olkaria VI, è ora in costruzione. Secondo le stime dell’azienda elettrica, porterà la potenza elettrica massima della centrale a 791 megawatt: per farsi un’idea, è la potenza necessaria ad alimentare una città occidentale di media grandezza, e, secondo le stime di KenGen, il 27 per cento della potenza elettrica installata oggi in Kenya. Quando Olkaria VI sarà completata, il Kenya supererà l’Italia – attualmente settima al mondo – per produzione di energia geotermica.
La centrale di Olkaria produce energia a partire da circa 300 pozzi geotermici sparsi nel parco di Hell’s Gate, e i geologi e i geofisici che lavorano per KenGen sono sempre in cerca di punti dove costruirne altri: cercano quella che viene chiamata “erba geotermica”, aree in cui l’erba cresce alta, grazie all’alta umidità del suolo. Una volta individuato un punto in cui potrebbe valer la pena scavare un nuovo pozzo, si fanno varie analisi: le operazioni di scavo sono molto costose e, dato che alcuni pozzi si rivelano troppo deboli per essere usati per produrre elettricità, bisogna procedere con cautela.
Nella zona di Olkaria, dopo aver costruito un nuovo pozzo si aspettano due mesi per collegarlo alla rete della centrale. Prima si misura la portata di vapore che si riesce a produrre; poi, se il flusso è costante e sufficientemente potente, il vapore viene incanalato verso uno degli impianti principali della centrale elettrica (da Olkaria I a Olkaria V) oppure in una sua succursale costruita appositamente.
Dato che nel parco di Hell’s Gate vivono molti animali selvatici, tra cui le giraffe, i tubi in cui il vapore viene fatto passare sono costruiti a diversi metri di altezza dal suolo. I pozzi più piccoli sono profondi tra i 2 e i 3 chilometri e producono circa 5 megawatt ciascuno: è una potenza sufficiente ad alimentare circa 50mila case in Kenya.
Si continuano a scavare pozzi però, perché un quarto della popolazione del Kenya non ha ancora accesso all’elettricità. Nel paese sono molto frequenti i blackout che, tra le altre cose, danneggiano la produzione industriale e impediscono agli studenti di studiare la sera.
Per il Kenya cercare di aumentare la produzione di energia elettrica sfruttando la geotermia ha almeno due vantaggi.
Il primo è che ci vuole poco tempo per costruire un nuovo pozzo geotermico da collegare a un impianto esistente come quelli di Olkaria. Il secondo è che gli impianti più piccoli, quelli costruiti in prossimità di un singolo pozzo, occupano poco spazio – molto meno di quello che servirebbe per produrre la stessa quantità di energia con l’eolico o il fotovoltaico – e si possono smontare e spostare nel caso il pozzo in questione non fosse più conveniente da utilizzare.
Ci sono degli svantaggi però.
Anche se un singolo pozzo geotermico occupa poco spazio, i circa 300 sparsi nell’area di Olkaria, insieme ai tubi e alle strade che li collegano, hanno profondamente cambiato il territorio. Per questo negli anni KenGen ha chiesto lo spostamento di 1.181 Masai, un’etnia che vive tra il Kenya e la Tanzania, insieme alle loro case, chiese e scuole. Altre 500 famiglie di Masai che vivono attorno al cratere di Suswa, a sud di Olkaria, temono che con l’espansione della centrale dovranno spostarsi a loro volta.
I Masai sono perlopiù allevatori, ma alcuni lavorano nel piccolo settore turistico creatosi attorno alle visite di crateri, grotte e aree abitate dagli animali selvatici. Negli ultimi anni il lavoro attorno a queste attività è stato un importante fonte di guadagno per i Masai, che ora temono che l’ampliamento degli impianti geotermici danneggerà il turismo. I pozzi infatti sono rumorosi e non molto belli da vedere.
Un altro problema legato all’espansione delle centrali geotermiche è l’inquinamento che producono.
Per quanto riguarda l’anidride carbonica (CO2), cioè il principale gas che causa il riscaldamento globale, e altri gas inquinanti come l’ossido di azoto, non ci sono grossi problemi: si parla di quantità molto inferiori rispetto a quelle dovute alla produzione di energia da centrali termoelettriche a carbone o gas naturale. Un problema maggiore è invece quello creato dall’acqua che viene re-iniettata nel sottosuolo per mantenere attivi i pozzi: può contenere alte concentrazioni di elementi tossici, come l’arsenico, il litio, il mercurio e lo zolfo, e se la re-iniezione viene fatta male c’è il rischio che queste sostanze passino alle falde acquifere da cui si prende l’acqua degli acquedotti.
Un altro svantaggio dello sfruttamento della geotermia è che scavando i pozzi si possono provocare dei terremoti. Non sono frequenti, ma possono essere anche piuttosto forti: nel 2017 le attività di una centrale geotermica della Corea del Sud causarono un terremoto di magnitudo 5.5.