I piani del Regno Unito per fare a meno dell’Europa
Prevedono tra le altre cose più legami con l'Asia e più armi nucleari, come ha annunciato tra alcune critiche il governo di Boris Johnson
Martedì il governo britannico di Boris Johnson ha presentato un lungo e articolato documento, intitolato Global Britain in a competitive age (PDF), che delinea la strategia dei prossimi anni sulla politica estera, la difesa, la sicurezza e le relazioni commerciali del Regno Unito. Il documento era molto atteso e Johnson l’ha descritto come «un passaggio necessario affinché nei prossimi decenni i britannici raggiungano sicurezza e prosperità». Diversi analisti lo hanno accolto con perplessità: Johnson ha ripetuto che non si tratta di «un gesto da megalomane», ma di un ripensamento necessario dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, completata all’inizio del 2021.
Fin dalla campagna elettorale del referendum su Brexit, l’ala più radicale del Partito Conservatore, che oggi controlla la maggioranza nel partito, aveva promosso l’idea che il Regno Unito rivolgesse il proprio interesse commerciale e diplomatico al di fuori dell’Europa per rafforzare i legami con i paesi che appartengono al Commonwealth, cioè quello che rimane dell’Impero britannico, fra cui soprattutto India, Australia, Singapore, Nuova Zelanda. L’idea era che il Regno Unito potesse di fatto sostituire i partner europei con i paesi del Commonwealth e guadagnare di riflesso un po’ del dinamismo delle economie del sudest asiatico come Singapore e Malesia.
Diversi esperti ritengono i progetti dei Conservatori perlopiù impraticabili, soprattutto per ragioni geografiche, economiche e socioculturali: eppure il governo Johnson crede molto nell’idea di una Global Britain, tanto che al suo interno viene ripetuta «come un mantra», ha scritto il Guardian qualche tempo fa in un editoriale molto critico.
Oltre a molti passaggi generici e vagamente motivazionali, nelle 114 pagine del documento ci sono anche alcune misure concrete.
Fra queste, segnala il New York Times, ci sono un impegno ad aumentare di 28 miliardi le spese militari nei prossimi quattro anni, il lancio di un satellite interamente britannico entro il 2022, e soprattutto il superamento del limite massimo di testate nucleari che il Regno Unito potrà conservare, che aumenterà per la prima volta in trent’anni passando da 180 a 260: una promessa che non piacerà per nulla all’Unione Europea, impegnata da anni nel progressivo smantellamento degli arsenali nucleari.
Ma l’Unione Europea non sarà l’unica ad avere qualcosa da reclamare: il piano contiene anche la promessa di dispiegare una delle due portaerei della classe Queen Elizabeth, le ultime costruite dalla marina britannica, nei mari dell’Asia, cosa che probabilmente non sarà gradita dalla Cina, da anni interessata ad espandere la sua area di influenza marittima.
Il governo Johnson sta invece cercando piuttosto esplicitamente di rafforzare il legame con gli Stati Uniti: il documento insiste in più occasioni sul fatto che gli Stati Uniti rimarranno i principali alleati del Regno Unito, con cui condividere alcune importanti priorità come la lotta al cambiamento climatico e l’opposizione ai modelli economici e sociali di Cina e Russia. Al momento però Biden sta trattando Johnson in maniera piuttosto fredda, probabilmente per non inimicarsi l’Unione Europea e per recuperare il rapporto che si era incrinato durante gli anni di Trump (per esempio sospendendo i dazi sulla controversia Boeing-Airbus introdotti da Trump).
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Biden inoltre era notoriamente contrario all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, e favorevole alla progressiva cessione di sovranità degli stati nazionali alle istituzioni europee e a un rilancio del multilateralismo, cioè della collaborazione di più stati verso un obiettivo comune, in sedi comunitarie e non nazionali: tutte cose a cui Johnson in passato si è opposto. La prospettiva di un accordo commerciale fra Regno Unito e Stati Uniti, che Trump aveva più volte ipotizzato, quasi sicuramente non si concretizzerà finché Biden rimarrà presidente.
Il governo Johnson considera la politica estera e la sicurezza intrinsecamente legate alla questione degli scambi commerciali: nel documento la parola trade, “commercio”, viene citata 133 volte. Eppure proprio le mire commerciali del Regno Unito nell’ambito della Global Britain sembrano le più impraticabili.
Con Brexit il Regno Unito (ad eccezione dell’Irlanda del Nord) ha lasciato sia il mercato comune europeo sia l’unione doganale, i principali meccanismi che consentono il libero commercio di beni all’interno dell’Unione Europea. Dal primo gennaio 2021 è in vigore un accordo che permette di continuare a commerciare senza dazi, ma l’aumento di disagi, controlli e ostacoli burocratici provocherà comunque una riduzione degli scambi: quanto grave, lo si vedrà nei prossimi anni. Nel primo mese di Brexit, comunque, le esportazioni del Regno Unito nei paesi dell’Unione Europea sono diminuite del 41 per cento rispetto al mese precedente.
Sostituire i paesi dell’Unione Europea sarà praticamente impossibile: non esiste al mondo un altro mercato così ricco e vicino geograficamente al territorio britannico. Se anche il Regno Unito concludesse un favorevolissimo accordo commerciale con tutti i paesi del Commonwealth, potrebbe non essere sufficiente a coprire le perdite causate da Brexit: il PIL complessivo del Commonwealth è di circa 8.800 miliardi di euro, poco più della metà del PIL dell’Unione Europea. Per non parlare delle enormi distanze geografiche, che per esempio limiterebbero molto la portata degli scambi.
Anche dal punto di vista della sicurezza, i benefici di una maggiore presenza del Regno Unito in alcune aree particolarmente delicate del mondo non sono chiarissimi. «Un impegno più esplicito del Regno Unito [nel sudest asiatico] sarebbe molto poco apprezzata dalla Cina», ha scritto qualche tempo fa The Diplomat: sia perché la Cina considera la regione parte della sua area di influenza, dove non tollera ingerenze straniere, sia perché difficilmente le forze britanniche potrebbero competere con quelle cinesi. The Diplomat ha aggiunto che «l’esercito britannico non ha la capacità e i mezzi necessari per sostenere operazioni di proiezione della propria influenza in diverse regioni contemporaneamente»: per esempio nel Mare Cinese Meridionale, dove la Cina da tempo sta compiendo operazioni per estendere le sue pretese a discapito delle zone economiche esclusive di Malesia, Vietnam, Filippine.
Al momento, fra l’altro, il Regno Unito non ha una posizione chiara nemmeno su alcune dispute interne al Commonwealth, come quella territoriale fra India e Pakistan: a un maggiore impegno in queste zone dovrà corrispondere una presa di posizione di qualche tipo, che rischia di rompere l’equilibrio attuale.
The New European fa notare inoltre che le nuove generazioni di britannici potrebbero non avere i necessari strumenti culturali e linguistici per rafforzare i legami con paesi dall’altra parte del mondo. Secondo un sondaggio della Commissione Europea, il Regno Unito è ultimo fra i paesi europei per l’abilità delle persone di età compresa fra 15 e 30 anni di parlare due o più lingue: meno di un giovane britannico su tre conosce una seconda lingua oltre all’inglese. «Se il governo britannico fa sul serio con le sue ambizioni da Global Britain bisogna investire sulle conoscenze linguistiche e culturali per plasmare un Regno Unito più aperto nel mondo post pandemia e post Brexit», ha detto a The New European Vivienne Sterne, presidente dell’associazione di categoria delle università britanniche.
Un ultimo fattore che potrebbe ostacolare i piani di Johnson sono le tensioni interne al Regno Unito: in Scozia il governo regionale preme per tenere un nuovo referendum sull’indipendenza, mentre gli accordi su Brexit hanno fatto riavvicinare repentinamente l’Irlanda del Nord all’Irlanda. Se il Regno Unito perdesse pezzi, nei prossimi anni ne risentirebbe anche la sua capacità di rilanciarsi sul piano internazionale.
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