Il femminicidio di Sarah Everard è diventato un caso
Perché ha mostrato nuovamente i limiti dell'approccio securitario usato da molti governi di fronte alla violenza contro le donne
di Giulia Siviero
Il femminicidio di Sarah Everard, donna di 33 anni rapita e uccisa a Londra mentre tornava a casa a piedi, è diventato motivo di grandi proteste nel Regno Unito, e un caso di cui si discute anche altrove, per ragioni ben precise: la sera in cui è scomparsa ed è stata uccisa, infatti, Everard aveva fatto tutto quello che viene suggerito alle donne di fare per non subire violenza negli spazi pubblici. Per il suo femminicidio è stato accusato e arrestato Wayne Couzens, un agente della Polizia Metropolitana di Londra: cioè un uomo che appartiene a quel sistema che – secondo le politiche più diffuse di contrasto alla violenza di genere – avrebbe dovuto “proteggerla”.
Secondo i movimenti femministi, il caso mostrerebbe anche il fallimento generale delle risposte istituzionali alla violenza contro le donne, che non dovrebbe essere né emergenziale, né securitario, né giustizialista.
Fino a qui
Lo scorso 3 marzo Sarah Everard era andata a trovare degli amici che vivevano in un quartiere a sud di Londra, Clapham, una delle zone «più popolate, illuminate e frequentate della capitale», ha scritto BBC. Intorno alle 21, Everard aveva deciso di rientrare a casa a piedi, attraversando il parco Clapham Common e seguendo dunque il percorso più lungo, più illuminato e meno isolato. Mentre era per strada aveva chiamato il compagno e aveva parlato con lui per circa un quarto d’ora. L’ultima immagine di Everard è quella di una telecamera di sorveglianza.
Il giorno dopo, il compagno di Everard aveva denunciato la scomparsa della donna, i cui resti sono stati poi ritrovati e identificati in un bosco del Kent, a circa 30 chilometri dalla casa di Wayne Couzens, poliziotto della MET. Couzens è stato fermato e arrestato con l’accusa di avere rapito e ucciso Everard. Qualche settimana prima, era stato accusato da un’altra donna di atti osceni in un fast food.
Sabato 13 marzo, il movimento “Reclaim These Streets” (“rivendichiamo queste strade”) e altri movimenti femministi hanno riunito per una veglia centinaia di persone a Clapham Common. Nel tardo pomeriggio, il presidio è stato interrotto in modo violento dalla polizia che ha caricato le donne presenti e ha provato a disperdere la folla riunita in una manifestazione che, qualche ora dopo, la commissaria della polizia londinese, Cressida Dick, ha definito «illegale».
“Reclaim These Streets” ha fatto a sua volta sapere che la manifestazione non era stata organizzata in maniera adeguata perché la polizia si era rifiutata di collaborare con le organizzatrici.
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In tutto sono state fermate quattro donne e molte altre sono state multate. La ministra dell’Interno britannica, Priti Patel, ha chiesto l’avvio di un’indagine interna definendo alcune delle immagini «sconvolgenti». Da lì in poi ci sono state quotidiane manifestazioni davanti alla sede della polizia di Londra e al Parlamento, dove è in discussione un disegno di legge, il “Police Crime, Sentencing and Courts Bill”, che aumenta il potere della polizia e limita il diritto a manifestare.
“Rivendichiamo la notte”
In questi giorni, molte femministe e giornaliste che si sono occupate delle proteste nate dal femminicidio di Sarah Everard hanno citato il caso di Peter Sutcliffe, un serial killer britannico conosciuto come lo Squartatore dello Yorkshire, che negli anni Settanta uccise tredici donne nella zona di Leeds: i due casi, nonostante siano molto diversi per modalità, contesto e tempi, hanno qualche punto in comune, che può essere utile isolare per capire meglio l’importanza delle proteste nate dal femminicidio di Everard.
Da un certo momento in poi, intorno al caso Sutcliffe (che è stato raccontato in una docuserie su Netflix intitolata “The Ripper”) vi fu una grande attenzione mediatica, soprattutto per le modalità con cui la polizia aveva scelto di condurre le indagini. Per anni, infatti, non si fecero progressi nella ricerca e nell’identificazione del killer, perché ci si basò su una serie di pregiudizi legati alle vittime: la polizia disse cioè che l’uomo uccideva prostitute, o meglio donne che la polizia aveva arbitrariamente indicato come tali, piegando ogni sua azione e intervento intorno a questa teoria.
Quando avvenne un nuovo femminicidio che coinvolse una studentessa e non una presunta prostituta, l’opinione pubblica, diversi giornali e commentatori cominciarono a colpevolizzare la vittima (“Una passeggiata notturna ha condotto la studentessa tra le grinfie dello squartatore”, titolò un quotidiano locale), e la polizia istituì, di fatto, una specie di coprifuoco per le donne: iniziò pubblicamente a invitarle a restare a casa, a non uscire di sera da sole o a farsi accompagnare da un uomo conosciuto (lo stesso killer, si scoprì più tardi, diede lo stesso consiglio alla sorella).
Le donne che vissero quel momento raccontano che cominciarono effettivamente ad essere più prudenti e a prendere precauzioni, non molto diverse, però, da quelle che già praticavano e che erano state insegnate loro fin da bambine. Ma a un certo punto si ribellarono. Sulla spinta dei movimenti femministi cominciarono a denunciare questo tipo di restrizioni e a organizzare marce in tutto il paese: «Non siamo noi ad uccidere», «Se l’assassino è un uomo, sono gli uomini che devono restare a casa, non le donne», «Via gli uomini dalla strada», «Rivendichiamo la notte», «Nessun coprifuoco per le donne, coprifuoco per gli uomini», si leggeva sui cartelli e sui volantini che portavano in manifestazione.
Nella docuserie, una femminista che organizzò le marce ha spiegato: «Non è mai stato solo per quel killer e per quegli omicidi. Gli uomini commettevano stupri e violenze periodicamente e le donne avevano capito che questo assassino non avrebbe fatto quello che aveva fatto se non fosse stato per la cultura misogina in cui vivevamo».
Mettere al centro le donne, colpevolizzarle attraverso accuse di imprudenza, far ricadere su di loro la responsabilità della loro stessa sicurezza e non occuparsi degli autori e della violenza contro le donne da un punto di vista strutturale ma solo securitario: è quanto viene denunciato di nuovo in questi ultimi giorni dai movimenti e dalle donne che stanno scendendo in piazza per Sarah Everard.
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Il controllo dei corpi
Nonostante Everard avesse preso diverse precauzioni, Arwa Mahdawi sul Guardian ha spiegato che anche nel suo caso è stata messa in scena una «disgustosa colpevolizzazione della vittima»: «Perché Everard era ancora in giro alle 21.30? Perché andava a piedi, invece di prendere un taxi? Cosa pensava che le sarebbe accaduto?», sono solo alcune delle domande che sono circolate sui social intorno al suo femminicidio, ma che rappresentano anche il tipo di presupposto su cui si basano, in generale, politica e istituzioni nel contrasto alla violenza di genere.
Come ha scritto Claudia Torrisi su Valigia Blu, «durante le indagini per l’uccisione di Everard la Polizia Metropolitana di Londra è andata casa per casa nel quartiere di Clapham dicendo alle donne di non uscire da sole e di stare attente alla loro sicurezza». Avvertimenti di questo tipo, ha spiegato la femminista Julie Bindel, che era a Leeds nel 1979 e che ha vissuto in prima persona il caso di Peter Sutcliffe, «perpetuano mitologie dannose»: che le donne sono «in qualche modo complici se sono fuori e da sole, la notte; e che quella notte è il pericolo, non gli uomini responsabili» delle violenze. Il principio è cioè che il pericolo è insito nel comportamento della vittima, non nelle scelte e nelle azioni di chi quelle violenze le compie.
Bindel ha aggiunto: «C’è un tema preoccupante nella risposta della polizia. Ogni volta che si vocifera che uno stupratore seriale o un assassino di donne è a piede libero, le donne vengono avvertite di rimanere a casa, nonostante il fatto che la maggior parte degli episodi di violenza sessuale e fisica da parte di uomini verso donne e ragazze avvenga in casa».
Questo, come confermano i dati, è una costante della violenza contro le donne: in tutto il mondo.
Il 10 marzo la deputata britannica Jenny Jones è intervenuta alla Camera dei Lord proponendo un coprifuoco dalle 6 del pomeriggio per gli uomini.
Molti politici, molti uomini, ma anche diverse donne, hanno reagito con forza e indignazione alla proposta che, come ha poi spiegato Jones, era chiaramente una provocazione: «Nessuno pensa davvero che imporre un coprifuoco agli uomini sia una buona idea» ha commentato sul Guardian Arwa Mahdawi, «se non altro perché nel paese almeno una donna su tre subisce abusi domestici nel corso della sua vita, e ci sono più probabilità che a uccidere una donna sia il partner piuttosto che uno sconosciuto. Per questo, tenere gli uomini a casa dopo le sei non rende più sicure le donne».
Quella di Jones «non era una proposta politica. Era una risposta al fatto che, dopo la scomparsa di Everard, la polizia di Londra ha avvisato le donne che era meglio “non uscire da sole”, avvertimento di fronte al quale nessuno ha “battuto ciglio”»: due pesi e due misure.
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Mahdawi ha aggiunto che gli uomini che si sono sentiti così offesi dalla proposta «dovrebbero fermarsi a riflettere su quanto siano offensive le politiche di controllo dei corpi delle donne. Chi insorge all’idea di un coprifuoco maschile forse dovrebbe chiedersi, con un po’ di spirito critico, perché non ci si arrabbia allo stesso modo quando alle donne viene detto di adattare il loro comportamento in risposta alla violenza maschile».
La giornalista Ali Pantony, a sua volta, si è chiesta: «Perché stiamo ancora parlando di cosa possono fare le donne per stare al sicuro e non di cosa possono fare gli uomini per smettere di minacciare la nostra sicurezza? (…) Se continuiamo a dire alle donne di conformare le loro azioni per rimanere al sicuro, non stiamo affrontando il problema. Non stiamo risolvendo nulla. Stiamo solo trasmettendo il senso di pericolo a un’altra donna. (…) Nel 2021, perché stiamo ancora giocando la carta “ma quanto era corta la sua gonna”?»
Il paradosso
Il paradosso, nella storia di Everard, è che ad essere accusato è stato un poliziotto, parte cioè di quel sistema che secondo le politiche più diffuse contro la violenza di genere sarebbe chiamato a “proteggere” le donne nello spazio pubblico: la violenza di genere, stanno dicendo i movimenti femministi, non solo può colpire anche in una strada luminosa e frequentata, non solo è un problema strutturale, ma può essere compiuta da chiunque: anche da un agente di polizia e, soprattutto, da chi ha le chiavi di casa.
Il gruppo femminista Sisters Uncut, che ha organizzato le proteste di questi ultimi giorni nel Regno Unito, sta insistendo su questi argomenti indicando perciò il caso di Everard come femminicidio. La parola “femminicidio” non coincide solo con l’atto finale dell’uccisione di una donna in quanto donna, ma comprende anche tutte quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito o la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali sessiste e misogine. In questa definizione ampia – formulata da quelle che vengono considerate le teoriche del femminicidio, la criminologa statunitense Diana Russell e l’antropologa messicana Marcela Lagarde – sono comprese anche le cosiddette violenze istituzionali e le negligenze delle istituzioni e dei governi nel non affrontare in modo adeguato la violenza di genere.
Un recente sondaggio commissionato per UN Women UK ha mostrato che il 97 per cento delle donne che hanno tra i 18 e i 24 anni ha subìto molestie sessuali. UN Women definisce le molestie come condotte sessuali indesiderate: si va dallo stupro ad altre aggressioni fisiche, dalla condivisione senza consenso di fotografie intime alle molestie verbali a sfondo sessuale. L’80 per cento delle intervistate ha detto di essere stata molestata in luoghi pubblici. La ricerca dice anche che quasi la totalità delle donne coinvolte non ha alcuna fiducia nella capacità delle autorità di affrontare le molestie sessuali: il 96 per cento ha riferito di non aver denunciato l’abuso, e il 45 per cento ha detto che una denuncia non avrebbe fatto alcuna differenza. Diverse altre ricerche mostrano che la poca fiducia nelle forze di polizia è uno dei motivi per cui le donne tendono a non denunciare.
Tra il 2015 e il 2018, ha poi spiegato Sisters Uncut, ci sono state quasi 700 segnalazioni di abusi domestici contro agenti di polizia («Con o senza divisa, la polizia abusa dei propri poteri») e, ricorda Torrisi su Valigia Blu, «tra il 2012 e il 2018 sono state presentate quasi 1.500 accuse di molestie sessuali, sfruttamento delle vittime di reati e abusi sui minori contro agenti di polizia in Inghilterra e Galles».
Eppure, il governo britannico sta discutendo di una legge sulla violenza domestica che molte attiviste ritengono insufficiente proprio perché basata esclusivamente su misure penali e securitarie: prevede aumenti delle pene per i reati sessuali, nuovi fondi per sorvegliare e illuminare le strade, una maggiore presenza di polizia in borghese nei bar e nei nightclub. Gli interventi governativi che assumono questo tipo di approccio sono molto comuni, anche in Italia, e altrettanto criticati, da decenni, dai movimenti femministi e dai centri antiviolenza.
Sisters Uncut si sta anche mobilitando contro il disegno di legge in discussione al Parlamento britannico, il “Police Crime, Sentencing and Courts Bill”, che aumenta il potere della polizia e limita il diritto di manifestare. Il gruppo ha diffuso l’hashtag #KillTheBill: «I diritti che abbiamo ora – il diritto all’aborto, il diritto all’istruzione, il diritto di voto e quello di amare chi vogliamo – sono stati tutti conquistati con la protesta. La domanda che dobbiamo farci è: cosa ci succederà se ci verrà tolta la possibilità di protestare?». La legge, dice ancora il movimento, «darà alla polizia più potere per decidere dove, quando e come saremo autorizzate a protestare contro la violenza sistemica».
Quello che chiedono Sisters Uncut e altri gruppi femministi sono invece interventi strutturali per sostenere le donne che hanno subito abusi e per affrontare la violenza maschile al di là delle logiche emergenziali e securitarie: investimenti nelle case rifugio, un salario di sussistenza, un migliore accesso alla contraccezione e all’aborto, una migliore assistenza sanitaria e sociale, «un sistema che supporti le donne per ottenere la giustizia di cui hanno bisogno e che meritano», e un’adeguata educazione sessuale e affettiva nelle scuole. «Sulla scia dell’omicidio di Sarah, le donne chiedono un cambiamento», ma secondo Sisters Uncut «il governo non ascolta».