Sono stati tutti assolti nel processo sulla presunta tangente pagata da ENI alla Nigeria
Tra gli imputati c'erano Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, ex e attuale amministratore delegato della società
Il Tribunale di Milano ha assolto in primo grado tutti gli imputati nel processo sulla presunta tangente pagata da ENI alla Nigeria, secondo l’accusa la più grande mai pagata da un’azienda italiana: i giudici hanno motivato l’assoluzione dicendo che il fatto non sussiste. A processo c’erano cinque tra ex ed attuali dirigenti di ENI, tra cui Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, rispettivamente ex ed attuale amministratore delegato della società, oltre a dirigenti della compagnia petrolifera Shell, un ex ministro e alcuni faccendieri nigeriani.
Gli imputati erano accusati di corruzione internazionale nell’ambito dell’acquisizione da parte di ENI e Shell della licenza per esplorare un vasto tratto di mare al largo della Nigeria. L’accusa aveva chiesto 8 anni di carcere per Scaroni e Descalzi, il massimo della pena, e 10 anni per Dan Etete, ministro del Petrolio nigeriano fino al 1998.
Per ENI è la seconda assoluzione in poco più di un anno in un processo riguardante presunte tangenti versate a paesi africani per sfruttarne i giacimenti petroliferi. Nel gennaio del 2020 la Corte d’Appello di Milano aveva assolto tutti gli imputati, Scaroni compreso, in un processo per le presunte tangenti che ENI avrebbe pagato al ministro dell’Energia algerino in cambio di concessioni per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi nel paese. Anche in quel caso l’accusa era di corruzione internazionale e anche in quel caso la Corte aveva deciso di assolvere tutti gli imputati perché “il fatto non sussiste”.
Il giornalista del Corriere della Sera Luigi Ferrarella ha spiegato che i casi di assoluzione nei processi per corruzione internazionale sono ormai sempre più frequenti, e questo perché «struttura della norma e stratificazione della giurisprudenza hanno alzato l’asticella delle prove richieste». Ferrarella dice che a volte non bastano nemmeno le prove del denaro pagato a un mediatore o a un ministro di un paese per avvalorare la tesi dell’accusa: «indispensabile resta dare la prova dell’accordo corruttivo […] nonché individuare lo specifico atto d’ufficio compravenduto. Tutte tessere di un puzzle che, già non semplici da ricostruire in Italia, spesso diventano ardue da recuperare con rogatorie in paesi tutt’altro che collaborativi».
La storia, dall’inizio
Il processo riguarda l’acquisizione da parte di ENI e Shell della licenza per estrarre petrolio nell’OPL 245, un tratto di mare situato nel Golfo della Guinea a circa 150 chilometri dalla terraferma. ENI e Shell ottennero la licenza per 1,3 miliardi di dollari (circa 1,1 miliardi di euro), una cifra considerata estremamente bassa rispetto al grande valore della zona, e che ha fatto sospettare che le due compagnie avessero corrotto politici e funzionari locali. Secondo l’accusa, 300 milioni di dollari sarebbero effettivamente andati al governo nigeriano, mentre il restante miliardo (circa 840 milioni di euro) sarebbe stato usato per corrompere politici, faccendieri e intermediari.
La vicenda iniziò nel 1998, quando il governo militare di Sani Abacha, che governava il paese dal 1993, concesse la licenza di estrarre petrolio nell’OPL 245 alla società nigeriana Malabu Oil & Gas, di cui facevano parte anche Dan Etete, allora ministro del Petrolio nigeriano, e uno dei figli di Abacha.
Con la morte di Sani Abacha e la transizione verso un governo democratico, la licenza concessa alla Malabu venne però messa in discussione, dato che era stata assegnata senza una gara regolare. Così nel 2002 venne ritirata e l’anno successivo la multinazionale Shell vinse un gara d’appalto e versò al governo nigeriano 210 milioni di dollari di bonus alla firma (cioè pagò un bonus iniziale per poter iniziare a esplorare i fondali).
Etete fece vari ricorsi, sostenendo che il ritiro della licenza alla Malabu fosse illegittimo, e nel 2006 la licenza venne riassegnata alla società nigeriana. Shell si rivolse quindi a un arbitrato internazionale per riottenere la licenza, ma nel frattempo era arrivata anche l’italiana ENI, che nel 2010 firmò un primo accordo con la Nigeria tramite l’intermediario Emeka Obi per ottenere il 40 per cento della licenza e lasciare il resto alla Malabu.
Sempre nel 2010, però, ci fu un cambio di governo: il nuovo ministro del Petrolio nigeriano, Diezani Madueke, decise di concedere la licenza completa alla Malabu, senza tener conto dell’accordo di ENI. Nell’ottobre dello stesso anno, ENI e Shell intavolarono una nuova trattativa comune, agevolata dal nuovo ministro della Giustizia, Mohammed Adoke Bello. Il 29 aprile 2011 venne infine raggiunto un accordo: le due società avrebbero pagato 1,3 miliardi di dollari alla Nigeria (1,1 miliardi da ENI più il bonus di firma già pagato da Shell), per avere la licenza di estrarre petrolio nell’OPL 245. Shell in cambio si ritirò dalla causa che aveva intentato di fronte all’arbitrato internazionale.
Poco dopo, però, l’intermediario Emeka Obi fece causa alla Malabu in un tribunale di Londra chiedendo un risarcimento di 215 milioni di dollari, a causa dell’accordo firmato e non finalizzato un anno prima. Un giudice congelò quindi un conto fiduciario del governo nigeriano alla JPMorgan di Londra, in cui era stato versato da ENI 1 miliardo e 100 milioni di dollari. Successivamente un giudice di Londra concesse a Emeka Obi di ricevere il pagamento di 112 milioni come commissione da mediatore, invece dei 215 milioni richiesti. Il tribunale di Londra riconobbe quindi che Obi aveva fatto da mediatore nell’operazione.
Nel frattempo però dal conto di JPMorgan sparirono 801 milioni di dollari, che dopo un lungo giro tra banche del Libano e della Svizzera finirono alla Malabu. Re:Common, un’associazione che si occupa di campagne contro la corruzione, fece diversi esposti alla procura di Milano, nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Da questi esposti partirono altrettante indagini, e nel 2014 la procura di Milano, tracciando gli spostamenti degli 801 milioni versati a Malabu, scoprì che circa 400 milioni di dollari erano finiti a Aliyu Abubakar, imprenditore vicino al presidente nigeriano Goodluck Jonathan, e il resto all’ex ministro Dan Etete.
Inizialmente il governo nigeriano aveva cercato di trasferire il denaro su un conto della Banca Svizzera Italiana intestato a un’altra società, la Petrol Service, il cui amministratore delegato è Gianfranco Falcioni, ex console onorario italiano a Port Harcourt, città nigeriana che si trova nella zona del Delta del Niger. Secondo i pm di Milano, c’era un accordo che prevedeva che poi quei soldi sarebbero stati trasferiti alla Malabu: l’ex ministro della Giustizia Bayo Ojo, diventato rappresentante legale della Malabu, avrebbe dovuto fare da intermediario e ricevere in cambio 50 milioni di dollari, e girarne 5 alla Petrol Service.
Ma la Banca Svizzera Italiana segnalò come sospetta l’operazione e respinse il bonifico. Alla fine, 801 milioni di dollari della licenza vennero trasferiti direttamente alla Malabu di Dan Etete: una metà andò a Etete, mentre l’altra metà venne trasferita in alcune società offshore di Aliyu Abubakar, che poi avrebbe usato i soldi per pagare faccendieri e politici nigeriani, tra cui anche Bayo Ojo.
Nel dicembre del 2017 il tribunale di Milano rinviò a giudizio con l’accusa di corruzione internazionale alcuni manager di ENI e Shell, tra cui Scaroni e Descalzi, oltre a vari intermediari e l’ex ministro Dan Etete.
Secondo l’accusa, il denaro ricevuto da Abubakar sarebbe stato usato per pagare politici e funzionari governativi nigeriani affinché approvassero l’offerta di ENI e Shell. La stretta vicinanza tra Abubakar e la politica nigeriana, e in particolare con l’ex ministro Adoke Bello, è stata rilevata anche da due documenti depositati solo poche settimane fa agli atti del processo di Milano: due email allegate a una sentenza dell’Alta Corte di Londra in merito a una causa civile tra la Nigeria e JPMorgan.
Il 21 giugno 2011 Bello aveva inviato via mail alla JPMorgan le bozze dell’accordo tra ENI, Shell e il governo nigeriano, indicando come poter sbloccare la somma depositata (gli 1,1 miliardi di dollari di ENI). Secondo Bello, il denaro poteva essere girato alla Petrol Service, e infine alla Malabu dell’ex ministro del Petrolio Dan Etete, proprietaria della licenza. ENI e Shell hanno detto di non essere a conoscenza del fatto che quella somma sarebbe finita a Etete, ma la procura di Milano sostiene il contrario.
Questa email era stata poi inoltrata due giorni dopo in una corrispondenza tra due funzionari di JPMorgan, i quali dubitavano della provenienza lecita del denaro e si chiedevano se il trasferimento richiesto da Bello avrebbe potuto ottenere o meno l’approvazione del SOCA, l’ufficio antiriciclaggio britannico.